Immigrati: una misura di un Paese

Conduceva una vita tranquilla nel sud dell’Egitto Nabil (nome di fantasia), e aveva 16 anni quando gli egiziani sono scesi in piazza per liberarsi dalla dittatura; era il 2011, e da tempo lavorava come fabbro in un’azienda della sua città. E sembra difficile credere che facesse un lavoro tanto pesante, lui così magro e piccolino. Aveva lasciato le scuole superiori per tirare su un po’ di soldi, come lui stesso mi ha raccontato; le rivolte però, durate mesi, hanno paralizzato il Paese, e a causa dell’instabilità i prezzi di tutti i prodotti sono saliti alle stelle: anche dei metalli che l’azienda comprava per la manifattura. Senza materia prima, il titolare ha tirato giù la serranda, lasciando per strada Nabil e i suoi colleghi. La situazione politica intanto si faceva sempre più chiara: già si prevedeva che i Fratelli Musulmani, movimento islamico ben organizzato sul territorio, avrebbero potuto vincere le elezioni.

“E’ stato allora che ho capito che era meglio andarsene dall’Egitto. Non volevo vivere sotto il comando di fanatici decisi a importi le loro leggi. Di Sharia non ne volevo sapere niente. In più, senza lavoro e senza un titolo di studio, mi sono visto senza futuro: ho pensato che con i miei risparmi e l’ aiuto dei miei genitori, avrei potuto raggiungere l’Italia.”

Nabil si è messo in viaggio con alcuni amici e con loro ha raggiunto Port Said, sul delta del Nilo, dove sale le scalette di un peschereccio; con sé ha solo un po’ di cibo e acqua. E’ una nave della mafia. Tra gli scafisti ci sono italiani e tunisini. A loro, quando ancora era sulla terra ferma, aveva messo in mano tutti i suoi risparmi. Viene cacciato sottocoperta, aggiungendosi a decine di persone stipate in pochi metri quadrati.

Gli ho chiesto se avesse avuto paura durante la traversata del Mediterraneo.

“Ho avuto molta paura”, ha risposto Nabil. Ha alzato il braccio in aria, mimando i cavalloni del mare in tempesta. “Nella nave c’erano rumori spaventosi, ero convinto che saremmo affondati. Alcuni di noi erano in preda alla nausea; a quelli che stavano peggio gli scafisti li facevano salire sul ponte per prendere una boccata d’aria, ma era un’eccezione. Il viaggio è stato terribile.”

E gli scafisti? Gli domando se avesse avuto paura di loro.

Nabil annuisce. “Sì, erano armati. Io cercavo di starmene tranquillo, pensavo che sarebbe filato tutto liscio. Poi però c’è stato un problema. A causa dei pattugliamenti delle vedette italiane, gli scafisti hanno deciso di cambiare rotta, allungando il viaggio. Acqua e cibo erano razionati, ed eravamo esausti di stare immobili là sotto. Qualcuno ha cominciato a discutere animatamente con gli scafisti perché voleva salire sul ponte. Questi hanno tirato fuori le armi e ci hanno minacciati tutti. Hanno preso uno a caso, lo hanno legato alla vita con una fune, e lo hanno calato in mare; dagli oblò lo abbiamo visto sparire tra le onde. Quando l’hanno tirato su era ancora vivo. Il prossimo che avesse osato lamentarsi, ci hanno detto, sarebbe stato immediatamente buttato giù dalla nave. Senza corda.”

Da quel momento in poi i migranti stipati in sottocoperta se ne sono stati zitti, con la testa incassata tra le spalle, gli occhi fissi sulle scarpe; aspettavano solo che qualcuno avvistasse l’Italia.

Il peschereccio è giunto sulle coste della Puglia dopo quasi dieci giorni di navigazione. Attraversando campagne e statali, Nabil ha raggiunto in qualche modo una vicina stazione ferroviaria; è salito su un treno, in bocca neanche una parola d’italiano, in mano un foglietto di carta con scritta la sua destinazione finale: Milano.

Il linguaggio del rifiuto

“E’ in atto un’invasione”, “comandano in casa nostra”, “sono ovunque”, “ci rubano il lavoro”, “rubano”, “in tutte le graduatorie dei servizi sociali sono avanti agli italiani”, “intasano gli ospedali e non pagano nemmeno le tasse”, “sono troppo diversi da noi”, “è in atto una guerra”.

Commenti del genere emergono dalle discussioni tra amici e parenti, al bar o in ufficio, e nei dibattiti politici sui mezzi di informazione e sui social network. Più che il contenuto, poi, impressiona il tono, la smorfia di sopportazione giunta oltre il limite. Ed è stufa, la gente di constatare che in realtà niente sembra in grado di arrestare l’ondata di extracomunitari nel nostro Paese. E’ vero: quelle sono frasi di repertorio dei movimenti ostili alla presenza degli immigrati in Italia (ma il discorso vale per qualunque altro Paese europeo), slogan facili da etichettare come xenofobi. Ma in fondo è lì che si sta arrivando: l’ostilità indiscriminata verso lo straniero da parte di una grande fetta dell’elettorato italiano. Probabilmente le prossime europee di maggio, qui e in altri Paesi, si decideranno anche su questo, oltre che sull’euro.

E’ la pancia delle persone comuni che si fa sentire: hanno sotto gli occhi mutamenti radicali del paesaggio sociale del proprio quartiere, e faticano a comprenderli. E anche quando studiosi ed esperti si affrettano a spiegare che i mali dell’Europa (struttura della Unione, debito pubblico e finanza speculativa, smantellamento del settore manifatturiero) non sono da imputare alla presenza degli immigrati, la gente trova sotto casa un facile bersaglio verso cui scaricare ogni tensione: il diverso.

Si è rifatta strada una visione “nazionalistica” dello spazio pubblico, che cancella di colpo l’essenza dei problemi della nostra vita civile, e contraddice lo spirito su cui è fondata l’Europa: i diritti umani e la solidarietà. E’ come se gli immigrati avessero colpa per l’inadeguatezza di gran parte della nostra classe politica, specchio del Paese, e per la corruzione dilagante nella nostra società; o avessero un ruolo nella stretta del credito bancario, e la delocalizzazione all’estero nel settore manifatturiero e terziario. In Italia, poi, prosperano in modo spettacolare le mafie: gli immigrati li sfruttano come merce umana per arricchirsi.

Nella ricerca di Luigi Solivetti “Immigrazione, integrazione e criminalità in Europa”, si rimarca come il rapporto fra cittadini “nazionali” e “non-nazionali” sia più conflittuale in Stati dove la base di valori civici nella società ospitante è meno forte e coesa. E’ il caso dell’Italia? Di certo per gli immigrati risulta più complicato integrarsi in un Paese dove il patto sociale tra cittadini si sta disgregando, per via di una crisi etica plateale (Italia al penultimo posto dei Paesi dell’Ue nell’indice della corruzione percepita). Nel 2010 il numero di contribuenti nati all’estero era pari al 63% sul totale di immigrati registrati in Italia (fonte). Sempre nel 2010 gli italiani non hanno dichiarato redditi per quasi 50 miliardi di euro (fonte)

Gli elettori dei partiti storici si richiamano a una diversità addirittura antropologica. Però si pretende che l’immigrato sia un contribuente modello. Insomma, gli italiani si accusano di essere diametralmente opposti, mentre gli immigrati dovrebbero rispecchiare l’italiano ideale.

Considerare il diverso causa del nostro male, porta inevitabilmente ad atteggiamenti di chiusura, e nei casi più gravi di vera e propria intolleranza. E se ne vedono tutti i giorni, basta aprire bene gli occhi e le orecchie.

La settimana scorsa un magrebino di una certa età e ben vestito è stato interrotto mentre faceva colazione nel bar di un centro commerciale; una guardia di sicurezza, per altro di origine africana, gli ha chiesto i documenti. L’uomo si è indignato: “Basta, è la seconda volta in una settimana! Mi chiedete sempre documenti: non sono un malvivente io!”

L’altro giorno in treno una donna di origine sudamericana parlava al telefono, piangendo, delle difficoltà presso la casa dove fa le pulizie: “La signora mi tratta come una schiava; e adesso sa che ho bisogno di quei documenti, è da settimane che ne dobbiamo parlare, e anche oggi ha rinviato.”

L‘importanza dei numeri

Se da una parte attorno al fenomeno dell’immigrazione il dibattito è intossicato dal linguaggio del rifiuto, è altrettanto vero che è rischioso ridurre il problema al puro e semplice razzismo. Lingua, cultura, religione, usanze e costumi, e un senso storico di appartenenza a un territorio, sono la base primaria di ogni popolo, per quanto possa essere democratico, liberale e aperto.

La diversità degli stranieri non è un’invenzione, e può generare un senso di minaccia nell’etnia ospitante (Solivetti). Ed è innegabile che la presenza massiccia di stranieri in una nazione porta inevitabilmente con sé problemi di convivenza. Ovunque, non solo in Europa, e non solo in questo tempo.

Secondo i dati Istat gli stranieri regolari in Italia sono oltre 4,5 milioni. L’85% risiede nel settentrione e nel centro. Facendo due calcoli approssimativi, senza contare i numerosi extracomunitari presenti illegalmente sul nostro Paese (500.000 circa), nelle città del nord c’è un immigrato ogni dieci italiani. Quando a Milano passeggi per via Padova, via Sarpi, Corvetto o Lorenteggio, sei circondato da una schiera di persone che parlano lingue sconosciute e incomprensibili, o si esprimono in un italiano claudicante.

La comunicazione marca una distanza, acuita da alcuni modi di fare lontani dalle buone maniere che ci tramandiamo da generazioni, o così ci piace pensare. L’atto maleducato di un extracomunitario è visto con una lente peggiorativa, e influisce in modo devastante sul giudizio complessivo.

Sembra esistere una barriera tra noi e loro, e in essa si è cementificata l’idea che l’immigrato delinque, alimenta il lavoro nero (spesso sfruttato dai suoi stessi connazionali o da italiani che ci marciano) e non rispetta le nostre leggi. Una barriera costantemente puntellata dalla cronaca, che riporta furti, aggressioni e incidenti dove gli autori (e spesso anche le vittime) sono gli immigrati; ma è consolidata anche dalle nostre disavventure personali. Di recente la mia famiglia ha vissuto due brutte esperienze legate agli extracomunitari: un borseggio e un condomino che non paga le spese di ristrutturazione.

Del resto, da una ricerca Istat, emerge che nel 2009 gli stranieri rappresentavano il 24% degli imputati (fonte); e in generale nei Paesi di tutta Europa i reati dei “non-nazionali” sono aumentati moltissimo rispetto al passato (Solivetti).  Ecco perché gli “immigrati” vengono buttati indistintamente nel calderone “criminalità”.

Attorno a loro vi è un alone di colpevolezza anche quando occupano suolo pubblico, o si radunano in crocicchi agli angoli delle strade o nei parchetti. La loro colpa, ormai, è essere qui. La pelle è la loro divisa da nemico, la lingua e gli atteggiamenti sono le loro armi di offesa. Alcuni giudicano le loro culture, quella musulmana in particolare, come mezzi di conquista.

Eppure alcuni aspetti positivi sulla presenza degli stranieri nel nostro Paese sono evidenti: sostengono le casse del welfare con i loro contributi (nel 2010 gli stranieri hanno versato allo Stato 6,2 miliardi di Euro, su 151 miliardi in totale); contrastano il declino demografico, vera grande minaccia per l’Italia. Molti immigrati sono i genitori dei ragazzini che rappresentano il futuro della nostra nazione: si calcola che nel 2030 un bambino su cinque nascerà da immigrati di prima o seconda generazione (Istat). Negare una qualche forma, anche rigida, di “ius soli”, (cittadinanza per chi nasce qui) può solo generare un senso di alterità in ragazzini che si sentono italiani. E noi stiamo facendo di tutto per fargli indossare la divisa da nemico.

E invece gli immigrati vengono assimilati e integrati dalla nazione ospitante molto più di quanto i dati sulla criminalità lascerebbero intendere (Solivetti). Ognuno di noi ha a che fare quotidianamente con stranieri: dal portinaio alla donna delle pulizie, dal collega di lavoro al genitore del compagno di scuola di nostro figlio: vediamo in loro dei nemici?

La presenza degli immigrati, secondo alcuni, sarà la leva per trasformare l’Italia del futuro in un Paese decontaminato dal razzismo. Ma sono una minoranza.

Da una ricerca Istat condotta nel 2012 (Romani), il 90% degli italiani ritiene ingiusta la discriminazione subita dagli immigrati; per l’80%, però, è difficile che si “integrino”, e per il 65% gli stranieri in Italia sono semplicemente troppi.

La barriera emozionale

All’alba del 2014 forse questa percezione è anche peggiorata. L’approdo massiccio degli immigrati, con una media annua di 36.000 individui accolti, è tornato ai livelli pre-respingimento, e sui mezzi di informazione gli sbarchi confermano la narrativa di un’ondata inarrestabile. Ignorando il fatto che non tutti vogliono fermarsi in Italia; e che molti stranieri, a causa della crisi, hanno abbandonato il nostro Paese. Che poi il numero di chi mette piede in Italia via mare è  20 volte inferiore a scende la scaletta di un aereo con visto regolare e rimane qui oltre la sua scadenza (fonte).

Nemmeno con le recenti tragedie al largo di Lampedusa, quando in una settimana hanno perso la vita almeno 620 persone, i toni di rifiuto degli extracomunitari si sono smorzati. E’ l’immigrato in quanto tale, perfino il singolo, a destare preoccupazione: rappresenta un numero da addizionare a una cifra insostenibile, un altro fattore all’interno di un problema pressante.

L’immigrato rimane un numero anche quando è su una barca gestita da mafiosi, e rischia di sparire in mare. Che sia un uomo, o una donna, o un sedicenne come Nabil, è poco rilevante. E non è solo il cittadino comune, l’elettore che pretende sicurezza nelle strade, ad aver eretto una barriera emozionale ogni volta che si parla di extracomunitari. Anche lo Stato ai vertici più alti, complice l’impalpabilità della Ue, li ha trattato in modo disumanizzato, adeguandosi allo slogan peggiore: “stiamo combattendo una guerra di frontiera”.

L’esempio di questa condatta è l’episodio del naufragio dei profughi siriani avvenuto l’11 di ottobre 2013. Secondo la ricostruzione dell’Espresso, la tragedia  poteva essere evitata se il comando centrale della guardia costiera italiana avesse agito con tempestività. Alle 12:26 aveva raccolto l’sos dell’imbarcazione carica di profughi siriani, non lontano da Lampedusa. La nave militare Libra era a un’ora e mezzo di navigazione. Roma, seguendo le procedure, ha delegato il problema a Malta, perché le acque erano di competenza di La Valletta. Peccato che le vedette maltesi fossero troppo distanti. Il comando della guardia costiera ha dato il via libera per i soccorsi alle ore 17:14, troppo tardi. La Libra è arrivata quando la nave di profughi si era appena ribaltata, in tempo per raccattare gli ultimi superstiti.

E in questa guerra di frontiera facciamo anche prigionieri, visto il trattamento riservato a chi finisce nei Cie (centri di identificazione ed espulsione). La maggior parte delle persone che vegetano per mesi in quelle strutture carcerarie hanno una sola colpa: sono sprovviste di documenti regolari. Nonostante tutti i rapporti negativi sui Cie, poco si sta facendo per renderli più accoglienti, o per velocizzare i tempi di identificazione e di espulsione. Non ci emoziona minimamente che persone oneste vivano in quel degrado fisico, psichico e morale; ce ne laviamo le mani con uno slogan: “non dovevano venire qui”.

Nabil

Nabil, giunto a Milano, ha vissuto per una settimana nella speranza di trovare subito un lavoro. Poi mi ha raccontato di essersi presentato al commissariato di polizia. In quanto minorenne è stato affidato a una casa d’accoglienza: lì, ha imparato la lingua, e ha conosciuto molte persone italiane che lo hanno aiutato. Oggi Nabil lavora come fabbro, e dice che si trova bene a Milano, e vorrebbe rimanere qui a vivere.

Che ne sia cosciente o meno, il giovane egiziano sta affrontando un percorso di integrazione in un Paese straniero. La sua storia sarà tanto più emblematica, perché è un musulmano. E’ verso quella fetta di stranieri, per via delle loro usanze e della religione, che gli italiani provano più ostilità. Forse un giorno Nabil si sentirà perfino italiano, come è già accaduto a molti immigrati che risiedono qui da tempo.

Lui è parte di una sfida che il nostro Paese non può permettersi di perdere: l’assimilazione di così tanti stranieri nella nostra società, l’accettazione dell’Italia come Paese multietnico. Alcuni, invece, considerano Nabil un nemico all’interno di una guerra; non ho idea di come e quando potremmo dichiararci vincitori: di sicuro, affrontando il fenomeno dell’immigrazione in questo modo, stiamo già rischiando di perdere la misura della nostra umanità.

di Cristiano Arienti

In copertina: Maurits Cornelis Escher: Swans

Fonti e Letture utili

Luigi Solivetti: Integrazione, Immigrazione e crimine in Europa

Medici per i diritti umani: Arcipelago Cie

Kenan Malik: In defence of diversity

Rapporto dell’Irin (Notizie umanitarie dall’Onu): Sulle tracce dei trafficanti di uomini

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