Da Obama alla Clinton: gli Usa in Medio Oriente e le conseguenze per l’Europa

Il Medio Oriente rimane una delle regioni più calde e problematiche del pianeta, sconvolto com’è da una serie di conflitti etnici, settari, nazionali e sociali. Le Rivolte Arabe del 2011, precedute dalla fallita Rivoluzione verde in Iran del 2009, avevano suscitato grandi speranze dal Magreb fino alla Penisola Araba; cinque anni dopo, solo la Tunisia, fra i Paesi dove la gente scese in strada per chiedere maggiori diritti civili, sembra avviata in un percorso di pienezza democratica. Altrove, invece, gli obiettivi sono stati traditi, schiacciati tra l’insorgere di movimenti islamici fondamentalisti, e la repressione violenta della classe dominante. Alcuni Paesi come Siria, Libia e Yemen, senza dimenticare l’Iraq, sono territori devastati da guerre civili nelle quali varie potenze regionali e internazionali hanno un ruolo diretto: compresi i Paesi europei e gli Stati Uniti.

E proprio intorno al prolungato coinvolgimento di Washington in Medio Oriente, il giornale americano The Atlantic ha strutturato un lungo articolo firmato Jeffrey Goldberg, titolato: “La Dottrina di Obama”. In esso si definisce la visione del Presidente Usa Barack Obama, all’ottavo e ultimo anno alla Casa Bianca, sulla sua politica estera; si spiegano l’ideologia, le strategie, e le finalità alla base delle sue scelte: un intervento militare, ad esempio, deve essere giustificato solo per combattere una minaccia all’esistenza degli Stati Uniti, e alla sicurezza degli americani. Ecco perchè, nella scala gerarchica di Obama, il Riscaldamento Globale di natura antropica è una minaccia superiore al regime siriano di Assad, che massacra i suoi stessi cittadini; o dell’Isis, il sedicente Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, che attua una politica genocida contro chiunque non abbracci una visione barbara dell’islam sunnita.

Obama ha dedicato a Goldberg molto del suo tempo affinché il giornalista potesse raccogliere il materiale per questa articolata riflessione: è il primo passo per inquadrare la sua eredità come leader degli Stati Uniti di fronte alle sfide globali che questa epoca gli ha imposto; ed è il primo capitolo per avviare la narrazione da tramandare agli storici, i quali un domani dovranno valutare le sue scelte, e giudicarle alla luce dell’impatto che avranno.

Al di là delle intenzioni di Obama, l’articolo rappresenta un prezioso documento per cercare di capire le politiche di Washington in Medio Oriente, le quali hanno già adesso un grande impatto anche sull’Unione europea. E aiutano a farsi un’idea di quale potrebbe essere il corso degli Stati Uniti nel futuro immediato: una dei protagonisti della politica estera americana dal 2008 al 2013 è stata Hillary Clinton, il primo Segretario di Stato dell’amministrazione Obama; oggi la Clinton si candida alla Presidenza degli Stati Uniti, e da molti viene considerata la papabile inquilina della Casa Bianca, e Comandante in Capo delle Forze Armate di Washington.

L’Unione Europea sta faticosamente elaborando un’agenda per il vicino Medio Oriente: ad esempio, per rispondere al terrorismo islamico, o per risolvere l’emergenza profughi; e per mantenere rapporti commerciali con i Paesi arabi, e per gestire le crisi legate a gas e petrolio. Per ognuno di questi problemi, l’Europa dovrà tenere conto degli interessi di Washington, e la politica estera della Casa Bianca. Fermo restando che sono i popoli del Medio Oriente, in ultima analisi, i padroni del loro destino.

Dal Discorso al Cairo alla macelleria siriana: come è cambiata la posizione di Obama verso l’Islam

Leggendo la “Dottrina di Obama”, si riceve subito un’impressione straniante: il Presidente Usa parla con distacco del Medio Oriente, come se fosse un semplice osservatore, distante e disinteressato; trascurando il ruolo degli Stati Uniti nella crisi siriana, nella guerra in Yemen, e sul nucleare in Iran, rivendica una politica di progressivo disimpegno nei confronti di quella regione.

Gli Stati Uniti, secondo Obama, dovrebbero diminuire sempre di più i loro interessi nell’area, e slegarsi da Paesi che fino ad oggi sono stati considerati alleati di Washington. Anche per questo Obama ha concentrato i suoi sforzi per il raggiungimento dell’autosufficienza energetica, e a ha indicato le fonti rinnovabili come un asse portante della sicurezza nazionale: l’importanza degli idrocarburi va ridimensionata a causa dei Cambiamenti Climatici; e di conseguenza vanno rivisti i rapporti strategici nel Medio Oriente.

Per giustificare questa posizione, però, Obama non si basa solo su questioni geopolitiche; la sua riflessione parte da una profonda disillusione nei confronti dell’Islam: “Non ci sarà nessuna risoluzione del terrorismo islamico finché l’Islam non si riconcilierà con la modernità, e non affronterà alcune delle riforme che hanno trasformato la cristianità.”

E continua: “Sebbene i conflitti in Medio Oriente risalgano a migliaia di anni fa, la furia odierna dell’Islam è incoraggiata da Paesi alleati degli Stati Uniti.”

Obama si riferisce ai Paesi del Golfo e soprattutto all’Arabia Saudita, che “finanziano madrasse nelle comunità musulmane per diffondere una versione fondamentalista dell’Islam, che non perdona.”

Quando era un senatore dello Stato dell’Illinois, usava già parole dure contro l’Arabia Saudita; ecco cosa disse nel 2002 durante una manifestazione contro l’intervento in Iraq, di mese in mese sempre più inevitabile: “Se il Presidente Bush vuole davvero una guerra, allora se la prenda con Egitto e Arabia Saudita, i cosiddetti alleati che opprimono il popolo, sopprimono i dissidenti, e tollerano corruzione e ineguaglianze”. Anche, e soprattutto, ineguaglianza nei confronti delle donne, come ha ripetuto in privato Obama.

Questi concetti, espressi insieme a una visione complessiva dei rapporti tra gli Stati Uniti e l’Islam, vennero enunciati nello storico discorso al Cairo, nel giugno 2009. All’epoca Obama era pieno di entusiasmo per quella che considerava una sfida da vincere: conquistare il cuore dei musulmani dopo l’occupazione dell’Iraq e le torture di Abu Ghraib; due eventi che avevano peggiorato l’immagine degli Stati Uniti nel mondo islamico.

Anche allora Obama avanzava la visione di una trasformazione dell’Islam, legata però al progresso civile dei singoli Stati, e non solo a una profonda secolarizzazione della religione. I popoli arabi dovevano aspirare alla democrazia, ovvero alla possibilità di eleggere leader che non fossero corrotti, illiberali, e violenti.

Se vogliamo, quello di Obama è stato un approccio in antitesi a quello di George W. Bush, e la sua idea di esportare la democrazia con la guerra. Quando nel 2011 scoppiarono manifestazioni un po’ in tutti i Paesi Arabi, alcuni analisti si affrettarono a dire: anche l’Iraq sarebbe stato investito dalla Rivoluzione, anche Saddam Hussein sarebbe stato detronizzato come Ben Alì in Tunisia e Mubarak in Egitto.

Il Discorso al Cairo di Obama aveva senz’altro contribuito a preparare il terreno per le Rivolte Arabe del 2011, anche se l’aumento incontrollato del prezzo della farina è indicato come il fattore scatenante dei primi focolai di proteste, in Tunisia: la gente non aveva abbastanza soldi per comprarsi il pane.

Se non esiste un leader spirituale di quelle rivolte, e i fattori da considerare sono molteplici, è’ un fatto, però, che la gente, da Casablanca a Sana’a, dal Cairo ad Aleppo, scese in piazza per deporre regimi dittatoriali corrotti e brutali, o per chiedere riforme e giustizia sociale; come aveva auspicato Barack Obama.

L’esito di quelle rivolte, purtroppo, non solo non ha portato i risultati sperati, ma ha generato una spirale di violenza in molti di quei Paesi. I movimenti democratici si sono inizialmente mischiati, e poi scontrati, con i gruppi islamici fondamentalisti che aspirano alla teocrazia: da quelli più organizzati e pacifici, come i Fratelli Musulmani, a quelli che usano l’intimidazione come forma di pressione, come i Salafiti; fino alle frange più fanatiche e violente, che usano le armi e il terrorismo per raggiungere i propri obiettivi.

Ecco quindi come nel giro di poco tempo, sulla scena politica in Medio Oriente, si siano imposti tre soggetti principali: le élite al potere, la società civile, e i fondamentalisti religiosi.

A loro va aggiunto un quarto attore, multiforme nella sua volontà di incidere sull’esito delle Rivolte arabe nei singoli Stati: le potenze regionali e internazionali

In Libia, si sono alzati in volo i caccia della Nato per costituire una no-fly zone in difesa di Bengasi e delle altre città ribellatesi a Gheddafi. Le potenze occidentali sono state determinanti per la caduta del dittatore, a livello militare: Obama rivendica che i caccia Usa hanno spazzato via le difese aeree dell’esercito libico, e hanno compromesso le maggiori infrastrutture del Paese.

Le nazioni occidentali sono state fondamentali anche a livello politico, con il supporto a chi si candidava a guidare il Paese in un periodo di transizione verso la democrazia.

Dopo l’esecuzione sommaria di Gheddafi (catturato grazie a un’operazione dell’aviazione francese) la situazione è andata peggiorando di mese in mese: quasi subito la Libia è caduta nel caos. Senza un controllo coordinato, il Paese si è diviso secondo logiche di potere di affiliazione tribale, militare e religiosa; intere aree, poi, sono cadute in mano alla criminalità più o meno organizzata, mentre altre sono diventate santuari per gruppi islamici radicali come Al Qaeda, o il sedicente Stato Islamico.

Anche in Siria i giochi per far fuori Assad hanno reso fertile il terreno per l’insorgere di gruppi islamici radicali, come del resto era accaduto in Iraq dopo la caduta del tiranno Saddam Hussein e lo smantellamento dell’esercito baathista. Proprio gli ex militari iracheni sono stati un grande bacino di reclutamento per la jihad islamica nelle aree sunnite del Paese: sia durante l’occupazione americana, sia dopo il ritiro delle truppe di Washington.

Quando nel 2011 il regime di Damasco ha cominciato a reprimere i manifestanti di Daraa, Homs e Aleppo, gli Stati Uniti hanno subito chiesto al Assad di lasciare il potere, e premettere alla società civile siriana di proseguire il cammino verso la democrazia. Mentre il regime si Damasco a un tempo si offriva come garante delle riforme, e dall’altro continuava la sua brutale repressione, l’Onu è stata incapace di prendere una posizione ferma e unitaria. Il comitato di sicurezza non ha emesso nessuna risoluzione che autorizzasse un intervento esterno: la Russia ha difeso un alleato storico nella regione, e le sue basi navali sul mediterraneo; insieme alla Cina, poi, Mosca ha ribadito il concetto che un Paese ha il diritto di gestire le proprie crisi interne, anche violente.

Infatti dalle proteste di piazza si è passati a una vera e propria insurrezione armata, con la costituzione di un Esercito Siriano Libero. Il primario obiettivo del Free Syrian Army (FSA), autoproclamatosi nell’estate del 2011 e composto da defettori dell’esercito e civili, era di abbattere Assad; alle sue spalle, l’FSA poteva contare sul supporto dei Paesi del Golfo e dell’Arabia Saudita.

Anche gli Stati Uniti hanno partecipato al consolidamento dell’FSA, promuovendo programmi di addestramento e armamento; dai campi della Cia sono usciti almeno 10.000 ribelli. Dalla Libia hanno riversato in Siria un arsenale di armi e munizioni da usare contro l’esercito di Damasco.

Gli Stati Uniti, quindi, hanno posto le basi per un’indiretta alleanza con gruppi estremisti sunniti che, a partire dal 2012, dall’Iraq infiltrano il fronte anti-Assad.

Se lo jihadismo sunnita in Iraq, con gli attacchi alle istituzioni di Baghdad, è un nemico da abbattere, in Siria, all’opposto, è stato funzionale alla caduta della base aerea di Aleppo nel 2013.

Se Washington aveva due obiettivi diversi, combattere gli estremisti in Iraq e abbattere Assad in Siria, gli jihadisti sunniti ne avevano uno solo: fondare un Califfato sunnita dal Mediterraneo al Golfo Persico: ecco la nascita dell’Isis, lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante.

Questa minaccia è stata la principale ragione per cui Obama non è intervenuto militarmente in Siria, nell’agosto del 2013, quando il regime di Damasco venne accusato di aver sterminato 1.400 persone a Ghouta con un attacco chimico. Il Presidente degli Stati Uniti in precedenza, aveva tracciato una linea rossa che Assad non poteva oltrepassare nella sua opera di repressione: l’uso di armi proibite.

Dopo il massacro di Ghouta, Obama fu sul punto di lanciare l’attacco aereo-missilistico, ma temeva le conseguenze di intervento militare: eliminare Assad, avrebbe potuto favorire l’espansione degli estremisti islamici, già allora autoproclamatisi Stato Islamico.

Uno scenario ampiamente previsto in un documento dall’Intelligence della Difesa americana (Dia) del 2012, come ha riportato il giornalista investigativo Nafeez Ahmed.

Ma c’è un’altra ragione accennata dall’Atlantic: sull’attacco a Ghouta, un’area urbana vicino a Damasco, l’Intelligence americana non aveva raccolto sufficienti informazioni per inchiodare Assad come il responsabile del bombardamento con il sarin. E’ stato il Direttore della National Intelligence James Clapper ad aver messo in guardia Obama, ormai a un passo dal lanciare l’attacco.

Nell’articolo non si offre una ricostruzione alternativa. Lo ha fatto, invece, il giornalista investigativo Seymour Hersh, con un’inchiesta del 2014 pubblicata sul London Review of Books: a Ghouta ci fu un’azione dei ribelli di Al-Nusra, (l’affiliazione di Al Qaeda in Siria), sponsorizzati dalla Turchia; l’obiettivo era costringere gli Stati Uniti a intervenire in Siria contro Assad.

L’interesse della Turchia è generato dalla presenza di una vasta minoranza curda all’interno dei suoi confini, la quale rivendica l’indipendenza per alcune province nel sud-est del Paese. Roccaforti dei nazionalisti curdi sono presenti nel nord della Siria, e in estese province dell’Iraq. Il rischio che i curdi, sullo scacchiere mediorientale, possano ottenere una qualche forma di riconoscimento internazionale, rappresenta una minaccia per Ankara:

Ecco quindi l’appoggio dei Turchi alla galassia dell’estremismo sunnita: sia logistico, con il permesso agli jihadisti provenienti da tutto il mondo di entrare liberamente in Siria; sia economico, con l’acquisto in nero del petrolio estratto nei pozzi delle regioni controllate dall’Isis.

Nel 2015 Kobane, un villaggio curdo nel nord della Siria, è stata assediata per mesi dall’Isis senza che la Turchia muovesse un dito; e questo, mentre in Occidente si costruiva una coalizione per fermare i crimini perpetrati in nome del Califfo Al Baghdadi: pulizie etniche, esecuzioni di massa, riduzione in schiavitù di donne non sunnite, decapitazione di ostaggi occidentali, attentati terroristici in Francia e in Belgio.

Nell’articolo dell’Atlantic emerge tutta la frustrazione di Obama nei confronti della Turchia, un membro della Nato: sotto la guida di Taypp Erdogan sta scivolando sempre più in uno Stato autocratico.

I giudizi più duri del Presidente Usa, però, sono riversati a Qatar, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, storici alleati degli Stati Uniti: supportando gli jihadisti sunniti contro la repressione del governo di Baghdad, (a maggioranza sciita), e la repressione di Assad (alawita, uno scisma attiguo agli sciiti), hanno di fatto creato in Medio Oriente uno Stato dedito al culto della morte.

Come detto, Obama sembra ignorare che gli Stati Uniti, ad esempio, abbiano dato il pieno appoggio all’Arabia Saudita nella repressione in Bahrein; ma soprattutto, Washington è alleata di Ryadh nella guerra in Yemen, per reprimere la rivolta degli Houti, un’etnia sciita che ha spodestato il regime filo-saudita. Nei bombardamenti sauditi sono già morte alcune migliaia di persone, e intere aree della capitale Sana’a sono ridotte a macerie.

Questo distacco trova una spiegazione all’interno dell’articolo: in politica estera il Presidente degli Stati Uniti è tenuto a seguire un “manuale”: sia nell’appoggio quasi incondizionato agli alleati, sia nell’attivare la macchina militare in presenza di certe condizioni. Secondo la sua versione, Obama si sarebbe ribellato a questo “manuale”: prima di tutto rifiutandosi di lanciare un bombardamento aereo in Siria senza una Risoluzione Onu e in assenza di una motivazione robusta e inappellabile; poi, ignorando Israele e Arabia Saudita, che bloccavano l’agenda delicatissima sul nucleare iraniano.

Dopo otto anni di esperienza, Obama è giunto a delle conclusioni nella sua dottrina di politica estera:

– il Medio Oriente non riveste una grande importanza per gli Stati Uniti

– Anche se fosse ancora così importante, gli Usa potrebbero fare ben poco per renderlo un posto migliore

– la volontà degli Stati Uniti di risolvere il tipo di problemi che si manifestano in modo così drastico in Medio Oriente conduce alla guerra, alla morte di soldati americani, e alla perdita di credibilità di Washington

– la continua richiesta di leadership americana da parte degli alleati nasconde l’inadeguatezza degli Stati regionali ed europei a confrontarsi con i loro problemi in Medio Oriente

In ultima analisi, un coinvolgimento troppo diretto in Medio Oriente comporta un danno per gli Stati Uniti, prima di tutto a livello umano, poi economico, e infine strategico; le risorse spese in Medio Oriente vanno utilizzate per raggiungere altri obiettivi, e per sfruttare relazioni feconde in altre parti del mondo.

In questo senso, il mancato attacco alla Siria nel 2013, rimane la sua eredità agli Stati Uniti: se sarà un lascito positivo o negativo, spetterà agli americani e agli storici giudicare.

Secondo alcuni analisti, la posizione del Presidente Usa in Siria, e più in generale quella nei confronti della regione, pecca di ingenuità: senza il coinvolgimento americano, i problemi in Medio Oriente sono destinati a moltiplicarsi e peggiorare.

La dottrina di Hillary Clinton per il Medio Oriente: una neo-conservatrice democratica

President Barack Obama passes Secretary of State Hillary Clinton before delivering a policy address on events in the Middle East at the State Department in Washington, Thursday, May 19, 2011. (AP Photo/Pablo Martinez Monsivais)

Barack Obama e Hillary Clinton nel 2011

Uno dei maggiori critici della politica Usa degli ultimi anni in Medio Oriente è Hillary Clinton; l’ex Segretario di Stato di Obama, dopo i primi quattro anni, si è dimessa proprio per coltivare le sue ambizioni di vincere le elezioni presidenziali del 2016.

E’ da candidata democratica alle primarie che la Clinton ha espresso le sue riserve sull’operato della Casa Bianca in Siria: in primo luogo, Obama avrebbe dovuto bombardare se non altro perchè Assad aveva oltrepassato la linea rossa sull’uso delle armi chimiche. Da Comandante in Capo delle Forze armate, dice la candidata democratica, proporrebbe una no-fly zone in Siria: una misura che aprirebbe la via ai bombardamenti sulle difese aeree di Damasco, favorendo la caduta del regime.

La stessa operazione è stata effettivamente condotta in Libia nel 2011, e proprio su forti pressioni da parte della Clinton, in qualità di Segretario di Stato.

Grazie alla declassificazione delle email del Dipartimento di Stato, è emerso come la Clinton sia stata in prima fila nella preparazione dell’intervento militare per rovesciare Gheddafi.

In primo luogo a livello strategico, costituendo una coalizione di Paesi Nato con Francia e Gran Bretagna, e precettando alleati Usa nella Lega araba, come l’Egitto. Grazie alle email declassificate, oggi si sa che l’Intelligence franco-britannica, insieme a militari egiziani, organizzò e supportò le milizie ribelli a est, agli albori delle proteste.

In secondo luogo, creando i contatti con figure di spicco dell’opposizione interna a Gheddafi, anche tra gli ex pretoriani, per gestire il Paese dopo la caduta del dittatore. Ha quindi lavorato in sede Onu per ottenere una Risoluzione per la creazione di una no-fly-zone, sfruttata poi per bombardare le difese aeree libiche un po’ ovunque.

La Clinton è stata decisiva nel convincere Obama a dare il via libera un attacco preventivo per evitare possibili massacri a Bengasi, peraltro evitando un passaggio al Congresso Usa; l’ex Segretario di Stato era ancora più decisa a intervenire rispetto a Robert Gates, Ministro della Difesa fin dai tempi di George W. Bush, nonostante le riserve sull’affidabilità dei ribelli di Bengasi – presto accusati di esecuzioni di massa contro i libici neri, considerati fedelissimi del dittatore libico.

E’ stata la Clinton, in qualità di Segretario di Stato, a gestire il post-Gheddafi, fino all’attacco qaedista al consolato Usa di Bengasi: l’ambasciatore Chris Stevens venne trucidato insieme ad altri tre connazionali proprio nell’undicesimo anniversario dell’11 Settembre.

Appena un anno e mezzo prima, nessuno prevedeva un esito così traumatico della campagna libica; a Washington erano così sicuri di restaurare l’ordine nel Paese, che rigettarono la proposta del figlio di Gheddafi, Saif, di guidare un governo di transizione per democratizzare il Paese. Il progetto di Saif Gheddafi era partito nel 2004, non era una proposta emergenziale, ma la speranza di portare rinnovamento nel Paese contro i conservatori; compreso il fratello Mutassim, erede di Gheddafi.

Fino alle Rivolte del 2011, però i Paesi Occidentali preferivano dialogare con il dittatore libico e Mutassim. Quest’ultimo, appena due anni prima, era stato ricevuto a Washington dalla Clinton, per consolidare la collaborazione tra Libia e Stati Uniti nella lotta al terrorismo islamico.

Eppure, nel 2011 gli americani agirono come se il fondamentalismo islamico non costituisse più un problema: spalleggiarono i ribelli anche quando l’Unione Africana, durante i bombardamenti della Nato, si offriva garante di una tregua. Con il senno di poi si può comprendere l’attivismo di molti Paesi africani per prevenire la dissoluzione della Libia: il vuoto di potere nel post-Gheddafi ha offerto campo libero a jihadisti implicati poi negli attentati in Marocco, Egitto, Algeria, Tunisia. Il rischio è che dalla Libia, poi, si spingano in Ciad, Repubblica Centro Africana, Nigeria, dove l’Isis ha già attecchito.

Sugli esiti della campagna libica, quando ancora il Paese non era caduto nel caos, Hillary Clinton si prese tutti i meriti. Tanto che resta agli annali la sua sentenza di fronte alle telecamere, nel preciso istante in cui le arrivò la notizia del linciaggio di Gheddafi: “Siamo arrivati, abbiamo osservato, lui è morto”.

La frase è una citazione di Giulio Cesare, dal “De Bello Gallico”, e descrive la statista che potrebbe essere Hillary Clinton come Comandante in Capo delle Forze Armate americane: un’interventista poco propensa alla diplomazia, e incauta sulle conseguenze dell’uso della forza.

Le resistenze della Clinton a intavolare trattative con il regime libico sono andate di pari passo al rifiuto di qualsiasi tavolo di pace in Siria senza la definitiva uscita di scena di Assad. Nel 2012, secondo il mediatore premio Nobel Martti Ahtissari, l’Occidente ignorò un’iniziativa della Russia per avviare una transizione democratica, dopo la quale Assad avrebbe ceduto il potere.

E’ vero che Bashar Assad aveva tradito i riformisti del suo Paese: agli inizi degli anni 2000 li perseguitò solo perchè avevano domandato pubblicamente aperture democratiche. Tuttavia, quello di cui parla Ahtissari, è lo stesso tipo di accordo che si sta profilando oggi, dopo cinque anni di conflitto; l’indisponibilità della Clinton di certo non ha bloccato i bagni di sangue, né le marce forzate di milioni di profughi.

Ma forse all’epoca, il problema era l’obiettivo della Clinton nella crisi siriana: la caduta di Assad. Già da un anno ribelli erano riforniti di armi dagli Stati Uniti, attraverso un’operazione clandestina portata avanti dal Dipartimento di Stato e autorizzata da Hillary Clinton. Il piano di Mosca, poi, era ostracizzato anche dai Paesi del Golfo e dall’Arabia Saudita, Paesi sunniti; il loro obiettivo, oltre che difendere i sunniti della Siria, era di spezzare la mezzaluna sciita che va da Tehran e giunge fino al Libano e al Mediterraneo. Dove per altro, sulle coste siriane, sono presenti le basi russe, a Lakatia e Tartus.

E’ qui che gli interessi dei Paesi del Golfo e degli Stati Uniti convergono: abbattere Assad entra nei piani strategici di Washington per indebolire la presenza Russa in Medio Oriente e sul Mediterraneo, e non solo per togliere di mezzo un leader arabo ostile.

E’ dal 2012-2013, dopo la terza rielezione di Vladimir Putin come Presidente russo, che i rapporti tra Washington e Mosca hanno cominciato a deteriorarsi. La Clinton ha paragonato l’autocrate Putin a Hitler. L’aperta conflittualità con la Russia si è esacerbata dal 2013, quando Victoria Nuland, ex portavoce della Clinton, è stata promossa Vice-Segretario di Stato con in mano l’agenda europea. La crisi Ucraina del 2014 è precipitata con l’appoggio incondizionato della Nuland agli oppositori di Viktor Yanukovich, il Presidente filo-russo costretto a fuggire dal Paese dopo le sanguinose proteste di piazza.

La Nuland è la moglie di Robert Kagan, ideologo neoconservatore e fondatore del “Progetto per un Nuovo Secolo Americano” (Pnac): è la piattaforma politica nata alla fine degli anni ’90 che vuole: 1) gli Stati Uniti militarmente aggressivi per la difesa dei propri interessi in tutto il mondo, in special modo in Medio Oriente; 2)  la creazione di un pianeta unilaterale sotto la guida di Washington, attraverso il contenimento e la neutralizzazione delle altre super-potenze, come Russia e Cina. E’ la Dottrina Wolfowitz, dal nome di Paul Wolfowitz, nel Dipartimento della Difesa sotto George H. W. Bush  e sotto George W. Bush, e architetto della politica estera Usa.

L’abbattimento dei regimi degli Assad e dei Gheddafi era sempre stato un obiettivo dei neoconservatori americani, nell’ottica di espandere gli interessi americani in Medio Oriente; ma al primo posto nella lista dei regimi da cambiare, c’era l’Iraq.

Già durante l’amministrazione Clinton i neoconservatori fecero pressioni per una guerra contro Saddam Hussein, L’ex Presidente democratico, alla fine, accusò il tiranno di intralciare gli ispettori Onu, incaricati di vigilare sul programma nucleare di Baghdad. Nel novembre 1998 lanciò una campagna di liberazione del popolo iracheno, ma senza l’invio di truppe di terra: diede il via a un bombardamento aereo durato un mese.

Dal 2002, dopo l’11 Settembre, l’amministrazione Bush cominciò a imbastire l’accusa che Saddam Hussein possedesse armi di distruzione di massa, e minacciasse di consegnarle ai terroristi di Al Qaeda; con i quali, sempre secondo l’accusa, il tiranno di Baghdad aveva legami.

Oggi, grazie anche alla declassificazione del documento di Intelligence usato per giustificare l’invasione in Iraq, sappiamo che Bush aveva manipolato e gonfiato le informazioni su fantomatiche armi di distruzione di massa. Larry Wilkerson era l’assistente di Colin Powell, l’ex Segretario di Stato che vendette quelle “informazioni” davanti all’assemblea delle Nazioni Unite; dal 2005 Wilkerson ha pubblicamente bollato le “prove” di Bush come falsità.

Già nel 2002 in molti nutrivano dubbi, soprattutto perchè erano gli stessi ispettori dell’Onu, ritornati in Iraq dopo quattro anni di assenza, a dichiararsi molto scettici sulle cosiddette prove americane: da tempo, secondo loro, il regime di Saddam non aveva più la capacità di portare avanti un programma nucleare.

Scott Ritter, uno degli ispettori Onu, cercò di convincere Hillary Clinton a non votare l’autorizzazione all’uso della forza contro l’Iraq: Saddam non poteva consegnare le armi di distruzione di massa, come chiedeva Bush, semplicemente perché non le possedeva.

Le enormi pressioni sulla Clinton da parte della base democratica furono inutili: la rimozione di Saddam Hussein, ripeteva in privato, può soltanto giovare agli Stati Uniti e agli alleati in Medio Oriente.

Nell’autunno del 2002 il voto di Hillary Clinton, unito a quello di altri 29 senatori democratici, fu decisivo perché Bush ottenesse il via libera dal Congresso: pochi mesi dopo gli Usa invasero l’Iraq, il principio di un conflitto mai finito: l’erario americano è stato dissanguato a causa dei trilioni di dollari spesi per quella guerra d’aggressione.

Ci sono voluti sei anni, centinaia di migliaia di vittime, e l’ammissione che le “prove” di Bush non erano tali, perchè Hillary Clinton dichiarasse: sì, il voto per la guerra in Iraq fu un errore. Avvenne durante le primarie democratiche del 2008, quando il candidato rivale Barack Obama continuava a ripetere che la decisione di appoggiare Bush era sbagliata non solo moralmente, ma anche a livello politico e strategico.

Esistono sospetti, quindi, che la Clinton abbia ammesso una colpa solo per opportunità; la conferma, viene proprio dal suo operato da Segretario di Stato: lodato, in special modo, da tutto l’apparato neo-conservatore di Washington: a partire da Dick Cheney, il Vice di George W. Bush ed esecutore della Dottrina Wolfowitz.

Già nel 2008, pochi giorni dopo l’investitura della Clinton a Segretario di Stato, molti uomini chiave dell’amministrazione Bush avevano predetto che la politica estera americana, sotto la Presidenza Obama, non sarebbe cambiata.

In queste settimane è arrivato l’endorsement di molti neoconservatori e figure di spicco del partito Repubblicano, intenzionati ad appoggiare la Clinton alle elezioni del 2016 in assenza di un candidato migliore. Tra loro, inutile dirlo, il fondatore del Pnac, Robert Kagan, il quale ha più volte elogiato l’ex Segretario di Stato quale elemento di continuità nella politica estera di Washington, come se il “manuale” usato da Bush fosse passato a lei.

Come spiegarsi, altrimenti la sua difesa a spada tratta del premier israeliano Benjamin Netanyahu, che con Obama ha intavolato una guerra sotterranea insanabile? O l’appoggio incondizionato all’Arabia Saudita, nonostante sia uno dei regimi più brutali del pianeta? Proprio la monarchia di Ryadh, grazie all’interessamento della Clinton, ha acquistato dagli Usa armi per miliardi di dollari, che ora sta usando in Yemen.

L’uso della Clinton del “manuale” di Washington in politica estera si è manifestato anche con il sostegno al colpo di Stato in Honduras, da parte di una élite violenta favorevole alle multinazionali occidentali. All’inizio Obama aveva condannato il golpe; poi aveva poi fatto un passo indietro, lasciando gestire la situazione al “più esperto” Segretario di Stato. Oggi gli attivisti e gli oppositori politici in Honduras vengono assassinati a decine, e i loro killer sono assoldati dai sostenitori del governo filo-americano.

Lo stesso balletto si è verificato nel 2009, per il surge in Afghanistan, ovvero l’aumento di 30.000 truppe sul territorio per opporsi ai Talebani. Anche in quel caso, le insistenze della Clinton ebbero la meglio sui dubbi di un Obama da poco insediatosi alla Casa Bianca, e alle prese con la crisi economica. In Afghanistan, pochi giorni fa, i Talebani hanno attaccato il Parlamento di Kabul; nel 2015 lo avevano assediato.

La politica estera Usa, dal 2009 e il 2013 è stata all’insegna di una sostanziale continuità con l’amministrazione Bush per le prese di posizione di Hillay Clinton; è lo stesso Presidente Usa a raccontarlo, come emerge nell’articolo dell’Atlantic. 

L’unica grande vittoria di Obama, oltre all’uccisione di Bin Laden (su cui la versione ufficiale non sta in piedi), è stato il ritiro delle truppe dall’Iraq, peraltro richiesto dal premier sciita Al Maliki.

Oggi in Iraq sono presenti almeno 5.000 truppe americane; Hillary Clinton, da candidata alle presidenziali, promette di dispiegarne molte di più, per combattere l’Isis.

Solo dopo l’uscita di scena della Clinton, Barack Obama ha di fatto cominciato a perseguire una sua agenda, partendo dal nucleare iraniano. Quando al Dipartimento di Stato c’era la Clinton, la diplomazia americana era appiattita su quella di Israele e di Benjamin Netanyahu: Tehran abbandoni il suo programma nucleare, altrimenti sarà guerra. Uno scenario continuamente evocato dalla Clinton, la quale ha usato l’espressione “obliterare l’Iran”.

La veterana di guerra Tulsi Gabbard, Rappresentante al Congresso Usa, si è dimessa dal Comitato Nazionale Democratico per appoggiare il candidato Bernie Sanders. Per giustificare la sua scelta, la Gabbard ha spiegato: con Hillary Clinton avremmo sostanzialmente la continuazione di una politica di interventi militari con l’obiettivo di cambiare regimi; una politica estera che si è rivelata disastrosa in termini di vite umane, in termini finanziari, e anche sul piano strategico. Non è questo ciò di cui gli americani hanno bisogno.

Le conseguenze della politica americana in Europa

A quindici anni di distanza dagli attentati dell’11 Settembre, diversi analisti, come ad esempio Alberto Negri del Sole24Ore, affermano che la “guerra al terrore” condotta dagli Stati Uniti è stata un fallimento: il terrorismo di matrice islamica si è diffuso in tutto il Medio Oriente, e non solo per la recrudescenza dei conflitti in cui Washington è coinvolta con truppe di terra, con cacciabombardieri o con i droni. I gruppi fondamentalisti sono stati supportati e finanziati da Stati come l’Arabia Saudita e i Paesi del Golfo, ma non per spargere terrore, come lo percepiamo noi, ma perché tra loro esistono affinità settarie e culturali.

Questi fondamentalisti islamici hanno trovato varchi in una vasta area del Medio Oriente grazie al vuoto di potere creatosi dopo la dissoluzione dell’Iraq. Una rovina giustificata con l’11 Settembre, ma in realtà perpetrata per la proiezione di potenza dei neo-conservatori americani: abbattere un nemico di Washington, e controllare la quinta riserva petrolifera del mondo.

Dopo che nell’aprile 2003 la missione venne dichiarata conclusa da Bush, l’Italia di Berlusconi spedì un contingente militare in Iraq: era lì anche per “difendere” i contratti dell’Eni relativi ai pozzi petroliferi di Nassirya, firmati nel 1995 quando ancora erano in vigore le sanzioni dell’Onu contro Saddam.

La difesa delle concessioni petrolifere dell’Eni è uno dei motivi per cui l’Italia ha deciso, dopo molto tergiversare, di unirsi alla coalizione per abbattere Gheddafi. Come ha ben documentato Alberto Negri, gli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna presero al balzo i moti di piazza di Bengasi per abbattere un interlocutore scomodo, e firmare nuovi contratti per il pregiato petrolio libico.

A nulla valsero i dubbi dell’allora premier italiano Silvio Berlusconi; oltre a difendere gli interessi economici e strategici dell’Italia in Libia, Berlusconi metteva in guardia dal rischio di un vuoto di potere con la caduta di Gheddafi.

Lo stesso dittatore libico avvertiva: non vi illudete, dopo di me avrete a che fare con i fondamentalisti islamici.

E’ la stessa minaccia lanciata da Assad e dalla classe politica di Damasco.

Con questi fondamentalisti islamici noi siamo già in guerra, come nota Negri, da oltre un decennio; gli attacchi terroristici di Madrid nel 2004, e Londra nel 2005, furono la diretta conseguenza dell’intervento militare di Spagna e Gran Bretagna in Iraq. Oggi vengono colpite Parigi e Bruxelles, come conseguenza di un interventismo in Siria contro il sedicente Stato Islamico.

Quello che fa più paura, è l’identità di molti degli attentatori: sono europei addestratisi nelle guerre in Yemen, Siria, Iraq, Libia, territori diventati scuole di combattimento per gli jihadisti. Sono figli delle comunità musulmane da tempo radicate nelle periferie delle nostre città. Hanno vissuto tra noi.

Al di là del profilo sociologico dei terroristi, spesso disadattati, cannabinoidi, o con un passato di piccoli criminali, non può essere ignorato il proselitismo dei fondamentalisti islamici: la diffusione di un islam intransigente è sponsorizzato da Paesi come l’Arabia Saudita e i Paesi del Golfo, con il finanziamento di moschee, madrasse e centri culturali, dalla Bosnia al Belgio. Tuttavia è scomodo parlarne in pubblico, perché le economie europee sono intrecciate con le loro: la nostra compagnia di bandiera, l’Alitalia, è stata salvata dagli Emirati Arabi Uniti. Sono Paesi che, a parole e con le bombe, vorrebbero esportare la democrazia in Siria o in Libia, ma sono governati da re e principi, e impongono l’ordine con la stretta osservanza dell’Islam “che non perdona”, come lo definisce Obama.

E se Obama, anche a causa dell’involuzione dell’Islam, auspica il disimpegno degli Stati Uniti dal Medio Oriente e dal Nord Africa, l’Europa non può defilarsi: sono due regioni per noi cruciali perchè confinanti. La nostra strategia, però va rivista, non si possono ripetere gli errori commessi in Iraq, in Libia, o in Siria. Gli interventi militari, soprattutto unilaterali o senza una chiara visione post-bellica, finora hanno sortito l’effetto contrario all’idea di esportare la democrazia. Una democrazia a cui tanti arabi e musulmani, con le rivolte del 2011, hanno dimostrato di voler aspirare, e che invece oggi sembra sempre più lontana; perfino in Paesi secolari come la Turchia, o in Paesi come l’Egitto, che un po’ di libertà e speranza l’aveva assaporata.

E’ chiaro, inoltre, che le guerre combattute lì, sono guerre che importiamo in casa nostra, nel tessuto sociale delle città europee; i musulmani sono nostri concittadini, e musulmani sono molti dei profughi di guerra che stanno arrivando a ondate dal Nord Africa e dal Medio Oriente: l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è alimentare uno scontro di civiltà bombardando musulmani in giro per il Medio Oriente e il Nord Africa. Il rischio è di tornare indietro di decenni, quando nei campi di concentramento vennero internati gli ebrei e gli oppositori politici; o di secoli, quando in nome della religione si combatterono guerre fratricide.

Questo non significa arrendersi di fronte al fanatismo, all’intransigenza, all’Islam che non perdona.

Mantenere i valori che ci piace pensare nostri, dalla libertà alla laicità, dalla giustizia alla parità, sarà una sfida anche legata al rapporto con l’Islam: dal tipo di musulmani che cresceranno qui in Europa, e dal nostro rapporto con gli Stati del Medio Oriente e del Nord Africa. E’ una sfida legata anche alla nostra idea di esportazione dei diritti umani e dei diritti civili; e quanto siamo pronti a lottare in nome di questi diritti, a costo di perderci sul piano economico.

In questa equazione così complessa, per noi europei, c’è una variabile ulteriore: gli Stati Uniti, e il futuro presidente Usa.

di Cristiano Arienti

In copertina: L’attacco di Al Qaeda al consolato americano di Bengasi, l’11/9/2012.

http://hillaryisaneocon.com/

http://www.counterpunch.org/2016/03/08/pink-slipping-hillary/

https://tcf.org/content/commentary/around-aleppo-its-not-peace-just-a-break/

 

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