Clinton, Obama, e il fondo dell’Emailgate

Il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama inviava email all’indirizzo privato del Segretario di Stato Hillary Clinton, e lo faceva schermandosi dietro a uno pseudonimo. E’ emerso venerdì 23 settembre con la pubblicazione di 189 pagine dall’inchiesta dell’Fbi sul server privato di Hillary Clinton, e terminata lo scorso 5 luglio con una proposta di non incriminazione.

La rivelazione contraddice le dichiarazioni pubbliche di Obama rese alla CBS nell’ottobre del 2015: “Non sapevo che Hillary Clinton usasse un server privato mentre era Segretario di Stato.”

La dicitura “@clintonemail.com” rendeva esplicito, a chiunque comunicasse con lei via email, che il dominio del Segretario di Stato era privato, e non governativo (@state.gov).

Obama, nell’intervista alla CBS aveva affermato anche: “il server privato non rappresentava un problema di sicurezza nazionale”.

Si trattava di un sistema aperto “altamente vulnerabile”, meno protetto di un account G-mail, come ha ammesso il Direttore Fbi James Comey il 5 luglio: un hacker poteva penetrarlo senza lasciare tracce. Come è emerso dalle 189 pagine, Obama e Clinton comunicarono via email mentre quest’ultima si trovava in Russia. E’ praticamente certo, seguendo la logica di Comey, che le email del Presidente degli Stati Uniti, archiviate nella posta elettronica della Clinton, siano state a disposizione di “attori ostili”. Resta da capire se Obama corrispondesse con la Clinton attraverso la sua email governativa o una email privata.

Chiunque abbia penetrato gli archivi email della Clinton, aveva a disposizione anche informazioni classificate, alcune delle quali top-secret, o SAP (Special Access Program), cioè criptate: venivano copia-incollate da cabli governativi per mano dei collaboratori della Clinton, e inviate senza le diciture previste per la classificazione; una procedura ricostruibile grazie alle dichiarazioni del Direttore Fbi Comey, e provata da uno scambio email tra Clinton stessa e Jack Sullivan, un suo assistente (si noti il “@state.gov” dell’indirizzo di Sullivan).

ClSull

L’Fbi, come detto, ha proposto di non incriminare Clinton per l’utilizzo del server:

– non è stata riscontrata da parte sua intenzionalità nel disporre materiale classificato al di fuori di canali federali (si parla di migliaia di email con informazioni classificate)

– non ha avuto alcun ruolo nella cancellazione (via software) di materiale governativo e/o classificato archiviato nel server; né della perdita e/o distruzione dei device nei quali era stato immagazzinato (13 mobile phones, un laptop, una chiavetta, due sim-card).

Nel primo caso, invece, l’intenzionalità è evidente: la prova risiede nella decisione stessa di utilizzare un canale privato per comunicazioni lavorative (vedi scambio di email con Sullivan); e che a volte “nascono” classificate, come ha spiegato Comey. Clinton ha però avanzato delle giustificazioni: pensava che avere un server privato fosse regolare (ma non aveva mai chiesto, ufficialmente, se fosse legale); ignorava le diciture di classificazione presenti su alcune delle email (lei stessa ha firmato cabli classificati); e non immaginava che email riguardanti bombardamenti con droni o operazioni di Intelligence in Libia, contenessero informazioni classificate. L’Fbi, a ogni modo, ha preso per buone queste scuse.

Nel secondo caso la questione è più complicata: di per sé, la perdita o la distruzione di tutti gli archivi delle email assomiglia tanto a un’ostruzione dell’inchiesta, ma è difficilmente comprovabile; è la cancellazione delle email dal server il vero passaggio incriminante.

Combetta e l’insabbiamento mal insabbiato

L’Fbi ha proposto una ricostruzione su chi e perchè ha distrutto almeno 31.000 email dal server della Clinton, quelle giudicate dagli avvocati dell’ex Segretario di Stato “non lavorative”, e quindi mai consegnate al Dipartimento di Stato: è stato stato Paul Combetta, IT specialist della PRN, società di Denver. Ma soprattutto, Combetta è l’administrator che dal 2013 gestiva il server privato della Clinton; senza nessuna autorizzazione a maneggiare informazioni classificate.

Ecco la ricostruzione ufficiale dell’Fbi offerta nelle 189 pagine d’indagine:

– Nel dicembre del 2014 Clinton consegna al Dipartimento di Stato circa 30.000 email del suo server privato, quelle considerate dagli avvocati di Clinton come “lavorative”. Poi una persona dello staff di Clinton, il cui nome è censurato, ordina a Combetta di cestinare ed eliminare tutte le email (oltre 60.000) nel server; anche quelle mai consegnate, e considerate “private”.

– fino al gennaio 2015 tutte le 60.000 email del server di Clinton erano state conservate. Combetta, però, si sarebbe scordato di inserire il cestino automatico per eliminare le email dal server.

– il 1 Marzo 2015 il New York Times esce con lo scoop dell’esistenza di un server privato attraverso il quale la Clinton inviava e riceveva comunicazioni governative.

– il 4 marzo 2015 la Commissione sui fatti di Bengasi, istituita un anno prima, emette un sub-poena allo Staff di Clinton: ordina che siano conservate tutte le email archiviate nel server, pena sanzioni amministrative.

– il 25 marzo 2015 Cheryl Mills, avvocato di Hillary Clinton e suo ex Capo di Gabinetto al Dipartimento di Stato, chiede alla PRN quante email siano ancora archiviate sul server. E’ in quel momento che Paul Combetta ha un “Oh shit! moment – il momento: Oh ca**o!”. Si ricorda che cinque mesi prima lo staff di Clinton gli aveva chiesto di eliminare le email.

– il 31 Marzo 2015 un impiegato della PRN chiama Cheryl Mills. Il giorno stesso Paul Combetta decide di distruggere con il software BleachBit tutte le email. Comprese, ma questo è emerso solo venerdì scorso, oltre 1000 email tra Clinton e il Direttore della Cia David Petraeus, che non erano mai state consegnate.

In questa ricostruzione, Cheryl Mills emerge come una referente alla PRN riguardo al server di Hillary Clinton; Paul Combetta fa la figura del padre di tutti i pasticcioni: 1) non elimina le email quando glielo chiedono 2) le elimina dopo che il Congresso ha ordinato la conservazione delle email con la minaccia di un sup-poena.

Il quadro è stato ricomposto grazie alla confessione di Paul Combetta resa all’Fbi nel maggio 2016.

Tuttavia questa ricostruzione è contraddetta dalle comunicazioni interne della PRN, reperite durante l’inchiesta e offerte nelle 189 pagine.

Quando nell’agosto 2015 l’Fbi apre un’inchiesta sull’emailgate, alla PRN si drizzano le antenne. La distruzione delle email dal server è definita da Combetta la “cover-up” della Clinton, ovvero l’insabbiamento. Combetta e un suo collega, sempre in comunicazioni interne alla PRN, si pentivano di non aver richiesto ordini per iscritto dallo staff della Clinton per la cancellazione delle email; gli appariva come “some shady shit – un casino per niente chiaro”.

Infatti nel febbraio 2016, di fronte all’Fbi, Combetta ha prima negato di aver cancellato le email; poi, su consiglio dei legali della PRN, si è fatto scudo del 5° emendamento (strumento legale che permette di non rispondere, perchè le risposte potrebbero portare a un’auto-incriminazione).

E’ solo dopo aver ricevuto l’immunità, nel maggio 2016, che decide di collaborare: ammette di aver cancellato le email di propria iniziativa; e definisce quelle affermazioni, “cover-up” e “some shady shit”, come scherzi. Ammetterà perfino di aver cancellato le email pur sapendo che il Congresso aveva ordinato di conservarle attraverso un sub-poena: tanto ormai non lo incriminano più.

A due mesi dalla fine dell’inchiesta, rimane il dubbio che l’FBI non abbia indagato a fondo il ruolo di Combetta nella gestione dell’archivio del server della Clinton. E un pesantissimo indizio è affiorato un paio di settimane dai fondali di internet.

Una citizen journalist ha scovato un post di Paul Combetta sulla piattaforma social Reddit: il 24 luglio 2014, un Combetta sotto-pseudonimo, chiedeva aiuto su come levare la corrispondenza di una “persona molto, molto importante” da un dominio email.

Da notare: due mesi prima era stata istituita la Commissione su Bengasi, che aveva ufficialmente richiesto la corrispondenza email della Clinton al Dipartimento di Stato.

Nelle 189 pagine pubblicate dall’FBI non c’è nessuna traccia di quell’episodio; né se lo staff di Clinton avesse richiesto alla PRN di levare selettivamente email dal dominio della Clinton.

Dal Dipartimento di Stato allo staff della Clinton: immunità per tutti 

La Clinton (o il suo staff) consegnò circa 30.000 email lavorative solo nel Dicembre del 2014.

Prima di allora, contraddicendo il Transparency and OpenGovernment Memorandum di Obama, firmato nel 2009, la Clinton non aveva consegnato nemmeno una email lavorativa alle Agenzie federali. In aperta violazione anche della legge OBM/Nara del 2012 sulla gestione di materiale governativo destinato al pubblico attraverso i FOIA (Freedom of Information Act).

Nell’arco del 2014, il Dipartimento di Stato aveva già ricevuto 17 richieste di visionare la corrispondenza delle Clinton attraverso procedure FOIA; tutte ignorate. Ufficialmente, in quattro anni di mandato, l’ex Segretario di Stato non aveva mai comunicato attraverso l’indirizzo “@state.gov”, messole a disposizione nel 2009; ecco perchè per il Dipartimento di Stato, Clinton non aveva inviato e/o ricevuto email di lavoro.

Con due anni di ritardo, è stato appurato che non era così: John Bentel, Direttore IT al Dipartimento di Stato, era consapevole che la Clinton comunicava con il circuito governativo, e quindi per lavoro, attraverso un dominio privato. Lo ha evidenziato l’Indagine interna del Dipartimento di Stato sul server della Clinton, resa pubblica lo scorso maggio.

Nel 2009 a Bentel era stato fatto presente, da specialisti IT del Dipartimento di Stato, che il server della Clinton violava leggi sulla gestione di materiale federale; ma il Direttore IT dismise la questione, impartendo l’ordine di non parlarne più.

Anche a Bentel l’Fbi ha garantito l’immunità in cambio di cooperazione.

Lo stesso trattamento è stato riservato a Brian Pagliano; è l’IT specialist che settò il server della Clinton, installato nella cantina dell’abitazione a Chappaqua, connettendolo al circuito interno del Dipartimento di Stato. Anche Pagliano ha cominciato a collaborare con l’Fbi solo dopo aver ricevuto, nel marzo 2016, l’immunità. In precedenza, interrogato dalla Commissione Bengasi, si era avvalso del 5° emendamento. Di fronte alla Commission Congressuale Oversight and Governement Reforms, che dallo scorso luglio sta cercando di fare luce sulla mancata incriminazione di Clinton, Pagliano non si è presentato, nemmeno sotto la minaccia di un sup-poena.

Ma all’Fbi Pagliano, con la certezza di non venir incriminato, ha parlato: nel 2009 aveva avvertito Cheryl Mills, Capo di Gabinetto della Clinton, che il server violava procedure e leggi sulla gestione di materiale governativo (possibilmente classificato). Anche la Mills, come Bentel, aveva dismesso tali preoccupazioni.

Mills Clinton

Clinton e Cheryl Mills

Mills è, quindi, la persona che ha supervisionato i problemi di installazione del server relativi alle procedure federali; ha preso parte, quasi certamente, alla selezione delle email da consegnare al Dipartimento di Stato; ed è anche referente della PRN relativamente alla gestione dell’archivio email. Se Clinton, sia nell’inchiesta dell’FBI che nell’Indagine interna del Dipartimento di Stato, emerge come del tutto ignara delle questioni IT, Mills appare come l’incaricata di seguirle, e di risolvere i problemi accumulatisi.

Anche la Mills ha ricevuto l’immunità dall’Fbi in cambio di cooperazione.

Tutte le persone chiave coinvolte nella vicenda hanno ricevuto l’immunità: da chi ha settato il server al Dipartimento di Stato, alla collaboratrice di Clinton che ha supervisionato l’operazione, dal Direttore che ha avvallato l’operazione al Dipartimento di Stato, a chi poi ha materialmente distrutto materiale governativo e/o classificato.

Jason Chaffetz, Presidente della Commissione Congressuale Oversight and Government Reforms del Congresso Usa, ha avuto parole molto dure: “l’Fbi ha distribuito immunità come se fossero caramelle”. Perciò ha messo in dubbio la validità dell’indagine che, pur con un quadro indiziario pesantissimo, è terminata con la non incriminazione di Clinton.

L’Fbi, in particolare, ha ignorato lo Statuto 18 US Code § 798: il trasferimento di dati classificati su canali non governativi è un reato (al di là dell’intenzionalità o meno di chi lo commette). Lo scorso 7 luglio Comey, davanti alla Commissione Congressuale presieduta da Chaffetz, si è difeso spiegando che le condanne penali per questo tipo di reati sono pochissime (quelle amministrative invece sono numerose).

Lo scorso 13 luglio la Commissione ha ascoltato, durante una tesissima sessione di quattro ore, anche Loretta Lynch, Segretario alla Giustizia; Lynch aveva il ruolo di accogliere, o rigettare, le indicazioni dell’Fbi sull’incriminare, o meno, Hillary Clinton. Ecco la scaletta degli eventi che ha generato una marea di critiche sull’operato della Lynch:

– Il 30 giugno 2016, quando ancora l’inchiesta era in corso e Clinton non era stata nemmeno interrogata, la Lynch aveva accettato un incontro privato con Bill Clinton; una chiara violazione etica nel rapporto giudice/indagato. Tanto che la Lynch aveva affermato: “capisco lo scandalo che ha suscitato l’incontro; per questo mi aspetto di accettare le conclusioni dell’Fbi”. Invece di ricusare la sua persona, il Segretario alla Giustizia ha cancellato ogni suo giudizio di merito sull’esito dell’inchiesta.

– Il 2 luglio 2016 l’Fbi ha interrogato Hillary Clinton; era presente anche Cheryl Mills, sì testimone chiave del caso, ma lì in qualità di avvocato dell’ex Segretario di Stato.

– Il 5 luglio 2016 il Direttore dell’Fbi ha comunicato l’intenzione dell’Fbi di non incriminare Clinton.

– La decisione viene accettata dal Segretario alla Giustizia.

Durante l’audizione al Congresso, il Senatore Jim Jordan, nel suo question-time con la Lynch, ha affermato: “nel caso della Clinton, è saltata la gerarchia su chi doveva prendere l’ultima decisione; il sistema giudiziario, per la Clinton, non ha funzionato come per tutti gli altri.”

Emailgate: lo scandalo che fa tremare la Casa Bianca

U.S. President Barack Obama is joined by Democratic Nominee for President Hillary Clinton on stage at the Democratic National Convention in PhiladelphiaCome riportato dal New York Times, le dichiarazioni di Obama dell’ottobre 2015 riguardo all’emailgate avevano scatenato l’ira degli investigatori dell’Fbi: a inchiesta iniziata da poco, il Presidente Usa entrava nel merito delle accuse, ridimensionandone la gravità. Un’ingerenza plateale, visto che l’Amministrazione Obama (vedi Lynch) avrebbe dovuto esprimersi sull’incriminazione o meno della Clinton. E’ stata un’ingerenza anche nella politica del Paese: all’epoca le Primarie Democratiche non erano nemmeno cominciate: il rivale della Clinton, Bernie Sanders, e i potenziali contendenti, il Vice-Presidente Joe Biden e la Senatrice Elizabeth Warren, potevano trarre vantaggi dall’emailgate. Invece il Presidente degli Stati Uniti, entrando a gamba tesa nel regolare svolgimento di un’inchiesta, diventava il primo difensore della Clinton.

A distanza di 11 mesi, con la pubblicazione delle 189 pagine dell’Fbi, le ragioni di quell’ingerenza diventano più chiare: Obama ha cercato di proteggere prima di tutto sé stesso, di fronte al rischio di un suo coinvolgimento in un eventuale processo a carico della Clinton.

In un’aula di tribunale, il nome del Presidente degli Stati Uniti risuonerebbe sicuramente: che Obama sapeva, sarebbe una delle linee difensive dell’ex Segretario di Stato; ben dimostrabile, visto l’esistenza di scambi email tra i due.

E Obama, di questo rischio, ne è sempre stato cosciente.

Resta nel reame delle speculazioni se Obama, tra il 2009 e il 2013, sapesse che Clinton comunicava unicamente attraverso un dominio privato. Al Dipartimento di Stato lo sapevano in molti. La National Security Agency (Nsa) era nel pieno della sorveglianza di massa del sistema di posta elettronica in America.

Tuttavia, appare chiaro perchè Obama, successivamente, non abbia mai preso le distanze dal suo ex Segretario di Stato anche di fronte ad accuse gravissime; perfino quando diventava sempre più evidente l’associazione tra il server privato e gli affari della Fondazione Clinton.

Il sospetto è confermato dalle dichiarazioni di Huma Abedin, durante il procedimento civile sul suo doppio ruolo di assistente di Clinton al Dipartimento di Stato e impiegata alla Clinton Foundation: l’utilizzo del server era un modo per sottrarsi allo scrutinio pubblico.

Cosa aveva da nascondere Hillary Clinton? D’altronde, una delle linee difensive dell’ex Segretario di Stato, è che nelle email cancellate dal server (con BleachBit), c’erano solo calendari delle lezioni yoga, o saluti tra familiari. Ormai, invece, è appurato che la Clinton, da Segretario di Stato, continuasse ad occuparsi degli affari della Fondazione Clinton; anzi, ne ha approfittato per incrementarli. Varie inchieste, dall’Associated Press all’International Business Times a Politico, a Mother Jones hanno già rivelato come la Clinton Foundation abbia ricevuto notevoli benefici e donazioni da contractors e Paesi che facevano accordi commerciali con il, o grazie al, Dipartimento di Stato guidato dalla Clinton.

Tutto questo, in violazione dell’accordo tra Obama e la Clinton, stipulato nel dicembre 2008, con il quale il designato Segretario di Stato si impegnava a non sfruttare la sua posizione, evitando conflitti di interesse.

Durante l’audizione davanti al Congresso, lo scorso 7 luglio, il Direttore Comey si è rifiutato di rispondere se l’Fbi stia indagando sulla Fondazione Clinton. Il Dipartimento di Giustizia, negli anni passati, ha bloccato diverse richieste di incriminazione dagli uffici territoriali dell’Fbi.

L’emailgate, quindi, non riguarda solo la pubblicazione di alcune email private che invece potrebbero essere lavorative: è lo scandalo di un Segretario di Stato che, pur di occuparsi degli affari della sua Fondazione, ha messo a rischio la sicurezza nazionale degli Stati Uniti facendo transitare informazioni classificate su canali altamente vulnerabili. Il Presidente Obama, pur sapendo, 1) ha tollerato una aperta violazione di leggi federali, e di accordi di buon governo: 2) non è stato in grado di gestire la minaccia alla sicurezza nazionale, compreso il possibile hacheraggio di un suo indirizzo email; 3) ha minato, insieme a un membro della sua Amministrazione, un’inchiesta dell’Fbi.

Il New York Times, nel recente endorsement all’ex Segretario di Stato, ha ammesso che si tratta di uno scandalo: ma lo ha definito risibile di fronte ai rischi di un Donald Trump, rivale di Clinton alle prossime elezioni, alla Casa Bianca.

Jason Chaffetz, repubblicano a capo della Commissione che sta seguendo l’emailgate, ha promesso che andrà in fondo alla questione; ha già minacciato di mettere in stato d’accusa la Clinton perfino se diventasse l’inquilina della Casa Bianca. La storia si ripeterebbe: una procedura di impeachment nei confronti di un Clinton.

A meno che Barack Obama, come ultimo atto della sua Presidenza, non decida di perdonare tutte le persone che a vario titolo sono coinvolte nell’emailgate: dall Clinton alla Mills; e compreso, indirettamente, se stesso.

Di Cristiano Arienti

In copertina: Barack Obama in campagna elettorale con Hillary Clinton, 27 giugno 2016 – foto di Scott Audette, Reuters

http://abcnews.go.com/US/fbi-releases-189-pages-hillary-clinton-email-probe/story?id=42319084

http://www.zerohedge.com/news/2016-09-09/oh-shit-guy-wiped-hillarys-server-bleachbit-has-immunity

http://www.americanthinker.com/blog/2016/09/sharyl_attkisson_provides_an_essential_guide_to_the_fbis_report_on_hillarys_emails.html

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