Guerra in Libia: il falso intervento umanitario del 2011

Rispetto alla macelleria siriana, la Libia rimane un teatro minore, spezzettato in un caotico quadro dove al governo filo-islamico di Tripoli, si oppone il Generale Haftar e il governo di Tobruk; da anni poi, in vaste aree, si sono radicate fazioni armate fedeli ad Al Qaeda, o ramificatesi dallo Stato Islamico: è una specie di guerra civile tendente al tutti contro tutti.  Il governo di Tripoli, dopo l’insediamento di Fayez Sarraj, ha il sostegno della Comunità internazionale; Haftar, però, ormai controlla la maggioranza delle produzione petrolifera e dell’export, e ha alle spalle un alleato come l’Egitto. Gli sforzi degli ultimi mesi di conciliare le parti sembrano vani: la Libia è al collasso politico ed economico; le conseguenze investono tutta la regione sahariana, con l’espansione dell’estremismo islamico; e travolgono anche l’Italia, con l’immigrazione via mare: un problema irrisolto che sta mettendo in seria crisi la coesione dell’Unione europea.

Lo scenario appena descritto è da imputare all’intervento militare della Nato del 2011, che rovesciò il quarantennale regime dittatoriale del Colonnello Muhammar Gheddafi; a questa conclusione è giunta, fra gli altri, la Commissione degli Affari Esteri del Parlamento della Gran Bretagna, la quale ha il compito di scrutinare le mosse del Governo in politica estera. Lo scorso 14 settembre la Commissione ha pubblicato un Rapporto articolato in 66 punti nel quale, dopo un’accurata indagine, si critica duramente la scelta dell’allora Premier David Cameron di invocare un attacco militare contro la Libia su basi umanitarie, trasformandolo poi in un vero e proprio “cambio di regime”. Le opzioni politiche e diplomatiche per la protezione e la salvaguardia dei civili sono passate in secondo piano rispetto all’urgenza di eliminare il dittatore libico e la sua stretta cerchia di familiari e lealisti. Una strategia ambigua, visto che il Consiglio di Transizione Nazionale (NTC), venne affidato a storiche figure di spicco del Governo Libico, come Abdul Jalil e Mamhud Jibril.

Secondo il Rapporto della Commissione, le stesse ragioni dell’intervento umanitario, la difesa dei civili dalla minaccia di “genocidio”, non erano supportate da Intelligence sul campo; anzi, come emerge dalla pubblicazione delle email del Segretario di Stato Usa Hillary Clinton, agli inizi di marzo Bengasi era saldamente nelle mani dei ribelli: non era teatro di nessuna atrocità da parte di Gheddafi. Per giustificare l’attacco, invece, si era evocato addirittura lo spettro del “massacro” di Srebrenica, nel 1995, il più feroce crimine di guerra commesso sul suolo europeo dai tempi del II Conflitto Mondiale.

In Italia l’allora Premier Silvio Berlusconi e la sua maggioranza furono costretti a mettere a disposizione le basi Nato italiane; i suoi avvertimenti, che un’azione militare rischiava di portare il caos in Libia, furono scansati di fronte all’imperativo di fermare una “nuova Srebrenica”.

Quella narrativa, tesa ad emozionare, come dice esplicitamente il Rapporto, fu cruciale perché Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, i maggiori sponsor dell’intervento insieme alla Lega Araba, ottenessero il 17 marzo la Risoluzione Onu 1973: autorizzava l’uso della forza contro le armate del regime libico ovunque esse minacciassero i civili.

Una dicitura fortemente voluta dal Segretario di Stato Hillary Clinton: chiunque girasse armato ed era fedele a Gheddafi, poteva essere un bersaglio. Questo, sebbene non fossero stati documentati crimine di guerra, e Saif Gheddafi, il figlio del Colonnello, avesse chiesto  di inviare ispettori internazionali per verificare la reale situazione sul campo.

Era il 19 marzo 2011 quando i caccia della Nato cominciarono a bombardare i convogli armati dell’esercito libico appostati fuori Bengasi, la città dove, dalla metà di febbraio, erano scoppiati moti di piazza. Anche i libici, come accadeva dalla Tunisia all’Egitto, dalla Siria allo Yemen, chiedevano più libertà, più giustizia, più diritti. Gheddafi aveva risposto con il pugno duro; si riportavano, un po’ da tutto il Paese, notizie di arresti, violenze, black-out dei social-media, soppressione delle proteste anche attraverso sparatorie. I morti cominciavano a contarsi nell’ordine di decine. L’epilogo in Libia sembrava molto diverso dal rovesciamento, non incruento ma abbastanza veloce, di Ben Alì e Mubarak: il dittatore libico prometteva “di spazzare via i suoi nemici, come ratti, casa per casa”: li accusava di approfittare delle Rivolte Arabe per spodestarlo e conquistare il potere. Comprese fazioni di estremisti islamici fedeli ad Al Qaeda.

Se all’Onu lo scenario era proteggere una città in rivolta contro un dittatore, i Gheddafi denunciavano il tentativo di terroristi di destabilizzare il Paese. E’ un fatto che a un anno dalla fine della guerra libica, l’11 Settembre 2012, il fortino del consolato americano a Bengasi venne messo a ferro e fuoco dalle milizie qaediste: l’Ambasciatore Chris Stevens e altri tre connazionali furono trucidati.

Il Rapporto lo evidenzia come un fallimento: David Cameron e la coalizione Nato-Lega Araba sottovalutarono i rischi che i radicali islamici, spodestato Gheddafi, prendessero il potere. Non c’è mai stata una strategia post-bellica aderente al panorama etnico e politico della Libia: in 40 anni di dittatura si era oliato un sistema di suddivisione della ricchezza petrolifera; il suo crollo, da un giorno all’altro, ha portato al disfacimento della macchina statale. Basti dire che a oggi la produzione petrolifera è passata a 200.000 barili al giorno, dal 1,6 milioni pre-guerra civile del 2011, con tutto l’impoverimento che ne consegue.

E la Commissione è stata particolarmente dura su un altro punto: l’ex Premier avrebbe completamente ignorato la diplomazia sotterranea messa in atto da Tony Blair, all’epoca Inviato speciale del Quartetto per il Medio Oriente. Gli sponsor dell’intervento militare snobbarono lo sforzo dell’Unione Africana nel promuovere un piano di transizione democratica che escludesse Muhammar Gheddafi dalla vita politica del Paese. Quando nell’aprile del 2011 il Colonnello accettò il piano, garantito dal Premier Sudafricano Jacob Zuma, il Consiglio di Transizione Nazionale, con personalità assurte a ruoli di primo piano grazie a Saif Gheddafi, lo rigettò. Nemmeno l’Onu lo aveva mai preso in seria considerazione: Gheddafi e la sua famiglia dovevano andarsene dal Paese; così si diede sempre la precedenza ai bombardamenti Nato.

In poche settimane le forze leali a Gheddafi vennero spazzate via dall’aviazione angloamericana e francese (anche grazie alle basi aeree italiane), lasciando il campo libero ai ribelli, armati da potenze straniere via Egitto.

Nella loro avanzata di “liberazione” delle città libiche, i ribelli aderenti all’NTC, si lasciarono dietro una lunga scia di sangue con esecuzioni sommarie di immigrati sub-sahariani e libici neri, considerati mercenari di Gheddafi, e accusati di stupri di massa addirittura dall’Ambasciatore Usa all’Onu Susan Rice; crimini mai sostanziati da prove o testimonianze dirette, come appurato da Donatella Rovera, Senior Crisis Response di Amnesty International, tra le fonti del Rapporto.

Gheddafi stesso venne linciato il 20 ottobre da un gruppo di ribelli, dopo che la sua carovana motorizzata era stata bombardata dall’aviazione francese (il presunto esecutore materiale dell’assassinio trovò poi rifugio in Francia, alimentando le voci che fosse un agente dei servizi segreti di Parigi).

Come ha messo nero su bianco la Commissione degli Affari esteri britannica, la Nato aveva imbastito una vera e propria caccia all’uomo: in nome di ragioni umanitarie, è stato portato avanti un “cambio di regime” con una scarsa considerazione del destino dei libici. Anche quando su Bengasi non pendeva più la minaccia di un genocidio, e le forze armate libiche venivano neutralizzate giorno dopo giorno, la campagna aerea non si fermò.

Il Rapporto è stato paragonato, in scala minore, al Rapporto Chilcott: quest’ultimo, reso pubblico lo scorso luglio, ha denunciato le falsità del Governo Blair per lanciare una guerra di occupazione contro l’Iraq, nel 2003. Anche nel 2011, secondo questa visione, la Gran Bretagna cercò di manipolare l’opinione pubblica con false prove per giustificare una guerra di aggressione. Del resto Cameron spingeva per una No-Fly-Zone, cioè un vero e proprio intervento militare, ad appena una dozzina di giorni dallo scoppio delle prime proteste di piazza.

La differenza con il caso iracheno, dove le prove erano state realmente artefatte o manipolate, è che per la Libia le “prove” erano semplicemente voci incontrollate e gonfiate dai media. Nessuno, infatti, può affermare con certezza che non vi sarebbero stati massacri contro la popolazione di Bengasi. Molti si sono spinti a un’altra ipotesi: l’intervento militare della Nato ha evitato che la Libia si riducesse alla macelleria siriana.

Alcuni analisti, come Patrick Kingsley del Guardian, hanno criticato la Commissione: avrebbe utilizzato fonti, documenti e testimonianze in modo disinvolto per supportare le conclusioni. E avrebbe ignorato un rapporto di Amnesty International del settembre 2011, nel quale si descrivono con minuzia le atrocità compiute dal regime di Gheddafi contro i civili (ma anche quelle commesse dalle fazioni ribelli).

Rimane un fatto: la riconquista di altre città ribelli da parte delle truppe di Gheddafi, al netto delle vittime negli scontri bellici, non ha registrato le esecuzioni di massa evocate per Bengasi. Il coinvolgimento dei civili in atti di guerra, poi, avvenne durante l’attacco militare della Nato, quando ormai appariva chiaro che i bombardamenti aerei avevano l’obiettivo di distruggere l’esercito libico e le infrastrutture del Paese.

A cinque anni di distanza, però, esiste una narrativa ben definita degli interessi in gioco nella guerra per eliminare Gheddafi: la Francia voleva difendere il franco Cfa, la valuta usata nelle 14 ex Colonie francesi in Africa, e che il dittatore libico voleva sostituire; e l’allora Premier Sarkozy si sbarazzò di un uomo che forse lo teneva sotto ricatto, visto che gli aveva finanziato la campagna elettorale del 2007 con 50 milioni di euro. La Gran Bretagna voleva proteggere gli interessi delle compagnie petrolifere anglosassoni Shell e BP in Cirenaica, proprio la regione di Bengasi. Gli Stati Uniti hanno fatto fuori una figura scomoda come Gheddafi: fino al 2003, anno in cui aveva rinunciato alle armi di distruzione di massa, e aveva iniziato a collaborare contro il terrorismo, la Libia era ancora considerata uno “Stato canaglia”. I Paesi del Golfo hanno tolto di mezzo un leader musulmano eccentrico e imbarazzante per l’Islam salafita.

Di fronte a questo scenario, risulta difficile pensare che il primario obiettivo fosse liberare i libici da un dittatore dispotico.

Quella guerra venne fatta in nome di interessi economici e strategici, ma è stata giustificata evocando lo spettro di Srebrenica, una ferita ancora aperta in Europa. In quella cittadina bosniaca tutti gli uomini dai quindici anni in su vennero massacrati a sangue freddo dai paramilitari serbo-bosniaci; quegli 8000 musulmani vennero di fatto consegnati al boia Ratko Mladic dai soldati dell’UNPROFOR, la Missione di Pace Onu per la Bosnia.

Allora in Bosnia, di interessi strategici ed economici, ce n’erano ben pochi. Forse è questa la vera discriminante tra un intervento “umanitario” e un mancato intervento “umanitario”.

Di Cristiano Arienti

In copertina: Bombardamento del Porto di Tripoli, maggio 2011 – Foto di Mamhoud Turkia (AFP/Getty Image)

http://www.counterpunch.org/2011/08/31/the-top-ten-myths-in-the-war-against-libya/

http://www.corriere.it/esteri/15_luglio_05/saif-figlio-gheddafi-metafora-libia-61d85e32-2326-11e5-85fc-cb21ea68cb1f.shtml

http://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2016/03/19/libia-misurata-appoggia-governo-sarraj_c896e8eb-ba1c-4860-8a78-4cb47c0290ae.html

http://www.theatlantic.com/politics/archive/2015/10/hillary-clinton-debate-libya/410437/

 

 

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