2016-18: dalla rivolta alla restaurazione

Gli storici guarderanno al 2016 come l’anno di una rivolta popolare, ma legittima, attraverso due votazioni democratiche: la vittoria del “Leave” ha attivato l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea; l’elezione di Donald Trump, in teoria, ha segnato la sconfitta di un intero sistema politico ed economico basato sulla globalizzazione. Una rivolta consumatasi nell’arco di pochi mesi, ma che in realtà ha radici molto profonde: a partire dalla deregolamentazione sfrenata della finanza, e l’entrata della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio.

Dalla Crisi alla rivolta: nascita dell’elettore “irrazionale”

Nel dicembre 2012 si riunirono a Bruxelles i ministri delle finanze dell’Unione Europea: dopo mesi di trattative si accordarono sulla supervisione, attraverso la BCE (Banca Centrale Europea), di tutti gli istituti di credito dell’Eurozona. Fu il primo passo verso l’unione bancaria, meccanismo elaborato per evitare il collasso della moneta unica; erano passati appena due anni dallo scoppio della crisi dei debiti sovrani, con la Grecia enormemente esposta con le banche francesi e tedesche. Con quell’accordo, tra l’altro, si sbloccarono 34 miliardi di aiuti ad Atene; e il Capo della BCE Mario Draghi rinnovò l’impegno a sorreggere l’Italia, acquistando titoli di Stato in cambio di riforme strutturali.

Esattamente un mese prima, nel novembre 2012, Barack Obama veniva rieletto alla Casa Bianca sconfiggendo il repubblicano Mitt Romney; questo, nonostante il Presidente in carica avesse riformato solo in modo superficiale il sistema finanziario, colpevole del collasso globale del 2007-2008. Nessun manager aveva pagato a livello giudiziario l’inquinamento del mercato con la cartolarizzazione dei subprime; titoli valutati “spazzatura”, in comunicazioni interne, dalle banche stesse. Tuttavia il suo sfidante, Romney, fondatore del private equity Bain Capital, era percepito come parte del sistema predatorio alla radice della Crisi; e i buchi di Lehman e AIG avevano ancora ripercussioni sull’economia reale.

In quel 2012 molti Paesi europei erano addirittura entrati in una doppia recessione. Anche la Gran Bretagna stava soffrendo, sebbene, tecnicamente, non ci fu il Double Dip. Davanti a un quadro interno fosco, e con la prospettiva di doversi accollare il salvataggio di interi Paesi, prese quota una soluzione drastica: abbandonare l’Unione Europea; secondo i sondaggi dell’epoca, oltre il 50% dei britannici voleva “lasciare”. Il Premier David Cameron, che pur ostacolava l’unione bancaria, diede ascolto a quella rabbia, montante soprattutto fra i Conservatori, il suo partito. Nel gennaio 2013, poche settimane dopo la fatidica riunione di Bruxelles, annunciò: se vinco le elezioni del 2015, indirò un referendum sulla permanenza della Gran Bretagna in Europa.

Nell’ottica di Cameron, il Paese doveva affrontare un dibattito pubblico sulla questione, esorcizzando le idee anti-europeiste in rapida ascesa; al tempo stesso, ricattava l’Ue per rinegoziare la posizione della Gran Bretagna.

Nel 2015 Cameron vinse le elezioni politiche: e quasi subito lanciò la trattativa con Bruxelles per cambiare le regole in favore di Londra. L’economia in Gran Bretagna, per altro, era in ripresa; in Europa, invece, la situazione non migliorava granché. L’Italia rimaneva aggrappata all’intervento della BCE, ma l’austerity inchiodava l’economia. La Grecia era invischiata in sfiancanti trattative per ricevere fondi in cambio di riforme sempre più draconiane; una situazione giudicata insostenibile perfino dal Fondo Monetario Internazionale. Tanto che nell’estate del 2015 il Governo Tsipras si ribellò a Bruxelles: la maggioranza dei greci, con un referendum, rigettò la politica di austerity.

Su Atene, davanti agli occhi dei britannici e non solo, si scatenò la reazione dell’Unione Europea: i greci furono umiliati con la chiusura del circuito bancario nazionale.

In questo clima Cameron, visto lo stallo dei negoziati con Bruxelles, alla fine del 2015 accelerò il processo referendario.

E in quel 2015 incominciò ufficialmente la Campagna per le elezioni Presidenziali negli Stati Uniti: uno dei favoriti nel Partito repubblicano era Jeb Bush; fratello di George W. Bush, il Presidente Usa che aveva guidato il Paese verso il disastro, incoraggiando l’erogazione di mutui a clienti subprime. L’altro era il Governatore del Texas Ted Cruz, la cui moglie Heidi Nelson aveva ricoperto ruoli chiave nel Dipartimento del Tesoro durante l’Amministrazione Bush, e lavorava per Goldman Sachs, una delle banche al centro dello scandalo subprime.

Fra i Democratici, ancora alla fine del 2015, c’era un’unica concorrente viabile: l’ex Segretario di Stato Hillary Clinton; che con Obama aveva impegnato gli Stati Uniti in due nuove guerre, in Libia e (appoggiando e armando i ribelli) in Siria. Hillary, la moglie di quel Bill Clinton che, durante i suoi 8 anni di mandato, aveva contribuito a minare il sistema finanziario con l’abolizione della Glass-Steagall, legge che separava banche commerciali da banche di investimento.

I tre candidati rappresentavano l’opposto della volontà di cambiamento che aleggiava nel Paese. Nel giro di pochi mesi il socialista Bernie Sanders, Senatore semi-sconosciuto del Vermont, ha raccolto attorno a sé un movimento di massa; il suo messaggio era semplice: difendere i cittadini e l’ambiente contro il sistema predatorio alla base della Crisi. Un messaggio senza nessuna copertura mediatica, capace però di insidiare la candidatura blindata della Clinton. Un processo dal basso simile a quello che aveva permesso nel 2008 a Barack Obama, semi-sconosciuto Senatore dell’Illinois, di battere alle Primarie proprio Hillary.

Chi invece imperava sui media era Donald Trump. Un fenomeno spiegato dal Presidente della CBS: “Non sarà un bene per l’America, ma è un bene per la nostra emittente”. Mandare in onda il magnate di New York, o discutere le sue dichiarazioni controverse, garantiva ascolti, e incassi pubblicitari, altissimi. Il candidato repubblicano era ossessivamente proposto anche sui programmi liberal per un calcolo molto semplice: indebolire Jeb Bush e Ted Cruz. I Democratici erano convinti che con Trump avversario, Hillary avrebbe avuto la strada spianata verso la Casa Bianca.

Sanders e Trump, con stili antitetici, e storie diverse, agli occhi degli elettori rappresentavano un’alternativa a un sistema politico-economico di cui i Bush e i Clinton, ma pure i Cruz, erano gli artefici.

Dalle urne del 2016, a partire dalla Primarie Usa, non è uscito solo un grido di protesta, ma anche un voto per il cambiamento della politica “globalista”, fallita con la Crisi del 2008. E alla fine la vittoria è andata, pur di rivoltarsi contro il sistema, al peggior candidato nella Storia degli Stati Uniti, così il New York Times ha definito Donald Trump. E’ lo stesso tipo di grido uscito dal referendum in Gran Bretagna: una rivolta verso l’Unione Europea, percepita come entità troppo invadente; e un voto di speranza, per un ritorno a un modello di governabilità autonoma.

Le analisi post-elettorali si sono concentrate sull’emotività di chi ha votato per “brexit” senza capire le conseguenze della separazione dall’Ue; o sull’irrazionalità di ha scelto un bancarottiere senza  esperienza politica al posto del “candidato più qualificato di sempre”, così Obama definì Hillary. Analisi che sembravano aver ignorato l’avanzata populista in Europa; in pochi anni movimenti spuntati dal nulla avevano conquistato spicchi di Parlamento e banchi governativi. I partiti social-democratici stavano pagando più di tutti: deputati a proteggere i lavoratori, hanno tollerato che il costo della Crisi fosse scaricato sulle fasce più deboli; mentre i vertici delle grandi banche ne uscivano con le tasche piene di bonus milionari. I normali cittadini, all’opposto, hanno visto il potere d’acquisto crollare, il welfare scadere, i negozi chiudere, le aziende fallire, e i disoccupati aumentare. Drammi personali e collettivi che segnano vite e generazioni, e che di certo non si dimenticano in breve tempo.

Nel 2016 è questo che avevano in testa, una volta entrati nei seggi, quegli elettori “emotivi” e irrazionali”.

Il ritorno alla razionalità: la restaurazione

Sono passati quasi due anni dalla vittoria del “Leave” in Gran Bretagna, e Londra si trova in difficoltà a negoziare una separazione favorevole, ormai fissata per il 29 marzo 2019. Molte le voci di chi vorrebbe una “brexit” morbida; c’è chi, come l’ex Premier Tony Blair, spinge per l’annullamento del voto del 2016.

Un referendum che oggi viene passato al setaccio con inchieste incentrate su “VoteLeave”, il gruppo che, ufficialmente, ha fatto campagna per la “brexit”. Uno dei suoi membri era Stephen Parkinson, attuale consigliere politico della Premier Theresa May: il quale mise in piedi “BeLeave”, un gruppo fittizio, per pagare Cambridge Analytica, società di consulenza inglese; che a sua volta ha fondato in Canada IQ Aggregate, responsabile della campagna sui social media in favore della “brexit”. Attraverso “notizie false”, questa è l’accusa, IQ Aggregate/Cambridge Analytica persuasero gli indecisi che lasciare l’Unione Europea rappresentava l’opportunità di un futuro più prospero.

L’operazione, secondo le leggi britanniche, è illegale: a “VoteLeave”, i cui membri chiave Michael Gove e Boris Johnson siedono al Governo, non vennero destinati fondi pubblici per fare disinformazione occulta; e creando il fittizio “BeLeave”, di fondi ne sfruttarono più di quanto fosse lecito.

E’ il Guardian ad aver scoperchiato questi legami indecenti: il whistleblower Chris Wylie, insider di Cambridge Analytica, ha fornito documenti su tutta l’operazione, e ha già testimoniato davanti al Parlamento britannico. Wylie ha spiegato che l’obiettivo era spostare circa 600.000 voti affinché il “Leave” la spuntasse; si è detto convinto che senza Cambridge Analytica”, avrebbe vinto il “Remain”.

Dalla testimonianza di Wylie emerge, poi, una specie di cospirazione internazionale per mutare il corso della politica Occidentale. Il maggior investitore di Cambridge Analytica è il magnate americano Robert Mercer, grande finanziatore della Campagna Presidenziale di Donald Trump; e il vice-presidente della società, nel 2016, era Steve Bannon, stratega di Trump. Da neo-candidato repubblicano, Trump si schierò con il “Leave”. Wylie ha spiegato che Bannon supervisionava le attività sia per il referendum in Gran Bretagna che per le Presidenziali Usa. Cambridge Analytica avrebbe anche sfruttato, illegalmente, i dati di oltre 50 milioni di utenti di Facebook per diffondere disinformazione mirata sui social-media: una delle carte vincenti di Trump. Negli Stati decisivi di Michigan, Wisconsin e Pennsylvania, l’ha spuntata per, rispettivamente: 11.000, 23.000, e 44.000 voti.

Il legame Brexit-Cambridge Analytica-Trump è emerso in contemporanea con nuove rivelazioni sui rapporti fra la Campagna Trump, l’Intelligence russa (anche attraverso l’hacker Guccifer2), e Wikileaks, l’organizzazione che danneggiò Clinton pubblicando materiale compromettente. Come ad esempio i suoi discorsi retribuiti presso Goldman Sachs; la Clinton delineò due agende parallele: una privata per banche e multinazionali, e una pubblica ad uso e consumo per gli elettori. La dimostrazione, agli occhi dei cittadini, di quanto crooked – corrotta – fosse la candidata democratica.

L’Investigatore Speciale Robert Mueller starebbe indagando su un consigliere politico di Trump, Roger Stone, e i suoi contatti con Guccifer2 e Wikileak. Secondo la comunità di Intelligence Usa, il presunto hacker russo avrebbe consegnato le email della Campagna Clinton all’organizzazione di Julian Assange. Per adesso Roger Stone, come altri membri della Campagna Trump, è sotto indagine, ma non è ancora stato incriminato.

Già cinque persone vicine a Trump si sono dichiarate colpevoli per falsa testimonianza all’FBI; fra di loro Rick Gates, vice Capo della Campagna Presidenziale e Direttore dell’inaugurazione alla Casa Bianca. Gates avrebbe mantenuto rapporti, durante il 2016, con Kiril Kilimnik, operativo dell’Intelligence russa; e attualmente starebbe cooperando con Mueller. Chi invece si rifiuta di collaborare è l’ex boss di Gates, Paul Manafort; per anni consulente del Governo filo-russo in Ucraina, poi Capo Campagna di Trump, Manafort è stato incriminato per frode, evasione, falsa testimonianza, e altri numerosi capi d’imputazione. Attualmente si trova agli arresti domiciliari, e rischia molti anni di prigione.

A un anno dall’inizio dell’indagine, non si sa quando Mueller arriverà a delle conclusioni, né se partiranno incriminazioni contro Trump; ipotesi che comporterebbe le dimissioni del Presidente Usa, o la sua deposizione per via giudiziaria. Molti negli Stati Uniti, ma non solo, sperano in un destino simile per l’inquilino della Casa Bianca: soprattutto chi avversa le aperture di Trump verso Mosca, e le sue decisioni in campo economico e geopolitico; o lo spera chi, semplicemente, detesta la sua persona. Senza contare che Trump ha deluso molti dei suoi elettori, imbarcando nell’Amministrazione top-manager di Goldman Sachs.

Anche in Gran Bretagna il voto del 2016 potrebbe avere dei risvolti giudiziari, con inevitabili impatti politici. Le pressioni su Theresa May erano già forti per l’improvvisazione nei negoziati con Bruxelles; a causa dello scandalo Cambridge Analytica, potrebbero diventare insostenibili.

A pochi giorni dalle rivelazioni di Wylie, da più parti si pretendono le dimissioni di Stephen Parkinson; per ora la Premier Theresa May ha fatto scudo al suo consigliere. Tuttavia non si possono escludere indagini, né eventuali incriminazioni di esponenti del Governo: allora tornerebbe in gioco l’intero processo di uscita della Gran Bretagna dall’Ue.

Intanto a finire nel mirino è Facebook: il boss Mark Zuckerberg è stato chiamato a testimoniare davanti al Parlamento britannico, e il suo rifiuto a presentarsi ha sollevato reazioni negative. Negli Stati Uniti la Commissione sul Commercio Federale, un’Agenzia governativa, indagherà il colosso del web in relazione ai 50 milioni di utenti i cui dati sono stati trasferiti senza consenso a Cambridge Analytica. Una pratica, non per forza illegale, comune ad altri giganti del web e dell’high-tech: i dati vengono poi rivenduti a chiunque, sia a scopi commerciali che politici. Altre società di consulenza potrebbero aver sfruttato i dati degli utenti delle piattaforme social per definire strategie elettorali favorevoli al “Remain”, o pro-Clinton.

Finora è stata ignorata un’altra “interferenza” nelle elezioni Usa, emersa dalle email di John Podesta, Capo Campagna della Clinton, e pubblicate da Wikileaks. Già dal 2015 Sheryl Sandberg, Direttrice Operativa di Facebook, si dichiarava disponibile ad aiutare Hillary per la conquista della Casa Bianca. A oggi non è ancora chiaro che tipo di sostegno Sandberg avesse offerto; né si saprà mai se la Direttrice Operativa di Facebook sarebbe diventata Segretario del Tesoro di un’Amministrazione Clinton, come implicato alla vigilia del voto.

Ed è anche trascurato un altro lato della “brexit”: se Cambridge Analytica puntava a spostare qualche centinaio di migliaia di voti, è altrettanto vero che i seggi sono stati disertati da 13 milioni di britannici, quasi il 30% di elettori registrati.

Tuttavia sembra contare una sola conclusione: il referendum in Gran Bretagna e le Presidenziali Usa del 2016 furono due eventi fraudolenti; ed è una narrativa che punta, in modo nemmeno troppo velato, a ribaltare una realtà inaccettabile per chi credeva nel “Remain”, o a una nuova Presidenza Clinton (o Bush).

Alla luce degli ultimi eventi, e di quello che riserveranno le indagini giudiziarie, gli storici potrebbero anche valutare la “brexit” e la vittoria di Trump come esiti di elezioni delegittimate. Se questo fosse il caso, il 2018 sarà da considerare l’anno in cui è partita la restaurazione.

Di Cristiano Arienti

In copertina: Trump e Johnson visti da “We are Europe”

Link utili

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