Trump, l’editoriale del NYT, e Brennan: i pericoli per la democrazia Usa

“Faremo il possibile per sterzare l’Amministrazione Trump nella giusta direzione; fino a quando, in un modo o nell’altro, sarà finita”. E’ la velata minaccia contenuta in un editoriale anonimo del New York Times pubblicato lo scorso 5 settembre; l’intenzione dell’autore, in realtà, era quella di rassicurare: “alla Casa Bianca è attivo un gruppo di persone leali al Paese, che si impegnano per il bene degli americani”; o ancora: “il Presidente è un uomo senza principi, divisivo, e le sue decisioni rischiano di causare disastri a se stesso e alla comunità: ma in qualche modo la “resistenza” interna riesce a raddrizzare le sue scelte umorali, e i suoi peggiori istinti.”

Il New York Times descrive l’autore come un “ufficiale senior” della Casa Bianca; spiega d’aver pubblicato l’editoriale in forma anonima per il timore che potesse perdere il posto, qualora lo avesse firmato.

Una scelta criticata, fra gli altri, da Bob Woodward, giornalista del Washington Post nelle librerie con Fear: la cronaca dei primi 20 mesi dell’Amministrazione Trump basata su confidenze di ufficiali della Casa Bianca, anch’essi celati dall’anonimato. Ci sono però sostanziali differenze, ha spiegato Woodward: l’articolo è privo di riferimenti a fatti specifici, mentre il libro è ricco di dettagli che si rifanno a eventi precisi e riscontrabili. Come ad esempio la mano di Gary Cohn, ex Consigliere della politica economica di Trump, che leva un documento dalla scrivania del Presidente perchè, a suo giudizio, metteva a rischio la sicurezza nazionale. Un aneddoto che confermerebbe il quadro descritto nell’editoriale. Tuttavia, come sottolinea Woodward, quel “messaggio criptico” necessitava approfondimenti: cosa si intende con la frase “fino a quando, in un modo o nell’altro (l’Amministrazione Trump) sarà finita?”

Di sicuro non era un riferimento all’Indagine dell’Investigatore Speciale Robert Mueller, citata in un altro passaggio, e definita come una minaccia incombente sulla Casa Bianca. E desta perplessità un’altra affermazione: il “bisbiglio”, fra gli ufficiali dell’Amministrazione, di mettere in moto il 25° emendamento, e rimuovere il Presidente per motivi di salute; in questo caso, l’instabilità psicologica di Trump. Una notizia che meritava ulteriori precisazioni, visto la gravità dell’accusa: ovvero che gli stessi collaboratori  dubiterebbero sulle capacità mentali del Presidente, arrogandosi il ruolo di manovrarne l’agenda.

L’ex Presidente Usa Barack Obama, durante un discorso alla Illinois University, ha stigmatizzato l’editoriale, e puntato il dito contro quelle persone che agiscono all’ombra di Trump: non è così che funziona una democrazia.

L’attivazione del 25° emendamento, dopo la comparsa dell’editoriale, è un passo pubblicamente richiesto da alcuni leader Democratici, come la Senatrice Elizabeth Warren; testimonianza di una insofferenza collerica nei confronti di Trump, le sue scelte, il suo stile. Da vasti settori della società, attraverso interviste, editoriali e proteste, si lancia l’allarme di una democrazia in deragliamento: a partire dalle forzature in ambito giudiziario e la politicizzazione della pubblica amministrazione. Gli attacchi di Trump alle minoranze, poi, minerebbero la pacifica convivenza costruita in decenni di lotte per i diritti civili; basti pensare alla reazione sui fatti di Charlottesville, quando equiparò le fiaccolate dei suprematisti bianchi alle manifestazioni anti-fasciste e anti-razziste. Oppure, i suoi messaggi al veleno contro la stampa, a cui il Washington Post ha reagito con un nuovo motto: Democracy Dies in Darkness – la Democrazia muore nell’oscurità – in riferimento alle “notizie false” rilanciate dal Presidente, le quali offuscherebbero il dibattito civile.

L’astio montante contro Trump ha già raggiunto vette estreme: come la prestazione dell’attrice Kathy Griffin, che si è fatta fotografare tenendo per i capelli la testa decapitata di Trump. L’operazione è stata travolta dalle critiche: tuttavia è una manifestazione plastica del risentimento che cova, con personaggi pubblici che lo insultano apertamente – del resto, è lo stesso Trump a usare epiteti per attaccare l’avversario di turno.

In questo abbruttimento dialettico si fanno prendere la mano anche figure che, per ruoli istituzionali ricoperti, si pensa dovrebbero mantenere atteggiamenti più distaccati. Come ad esempio John Brennan, ex uomo forte dell’Amministrazione Obama, prima come Consigliere alla Sicurezza Interna, e poi come Direttore Cia; agenzia nella quale ebbe incarichi di primo piano anche nelle Amministrazioni Clinton e Bush figlio.

Durante un intervento sulla MSNBC, emittente per cui lavora come analista, Brennan ha commentato così l’editoriale anonimo del New York Times: “E’ consistente con le voci che circolano sull’instabilità di Trump, e la sua inadeguatezza a ricoprire l’incarico di Presidente. Dimostra anche che attorno a Trump stia crescendo una straordinaria preoccupazione per i disastri che incombono sulla nazione, a causa della sua irresponsabilità.”

E quando gli è stato riportato il giudizio del Segretario di Stato Mike Pompeo, ovvero che il tentativo dei media di minare l’attuale Amministrazione disturba, Brennan ha rincarato la dose: “La situazione sta raggiungendo un boiling point” – ovvero, scorrendo la definizione del Collins: le persone stanno diventando così rabbiose da non riuscire a rimanere calme e in controllo delle proprie azioni.

Dichiarazioni che fanno seguito a tweet, sempre di Brennan, di questo tenore: “La prestazione di Trump a Helsinki è assimilabile nientemeno che a un tradimento”;

O anche: “Quando la piena estensione della tua turpitudine morale e della tua corruzione politica verrà esposta, occuperai il giusto posto di disgraziato demagogo, nella spazzatura della storia – non distruggerai l’America; l’America trionferà su di te.”

Parole allarmanti, perché gli Stati Uniti hanno una scia di omicidi politici, da Robert F. Kennedy a Martin Luther King, o quello tentato contro il Presidente Reagan, per mano di persone fuori controllo. E richiamano l’armamentario dialettico che nutrì la placenta del colpo di Stato del 1963, quando John F. Kennedy fu assassinato a Dallas. Anche allora alcuni settori della società civile e delle istituzioni vedevano il Presidente come un traditore e una minaccia: e fu proprio l’ex Capo della Cia Allen Dulles, licenziato da Kennedey, a farsi garante per il commando assassino che agì in Dealy Plaza.

Lo scorso agosto Trump ha revocato a Brennan l’accesso a informazioni classificate governative; una mossa senza precedenti, che assomiglia a una vendetta; e non solo per le critiche mossegli dagli studi della MSNBC, o via Twitter. Brennan, nell’aprile 2016, dopo aver ricevuto un’informativa su un passaggio di denaro diretto a Trump via due banche russe, supervisionò l’istituzione di due task-force governative, una estera e una interna, per indagare i legami fra Trump e Putin. Ed è sempre Brennan che, subito dopo l’apertura dell’indagine di contro-spionaggio Crossfire Hurricane su un membro della Campagna Trump, allertò le più alte cariche dello Stato, compreso il Presidente Obama: la Russia sta lavorando per far eleggere Trump alla Casa Bianca.

Durante l’intervento alla MSNBC, l’ex Direttore Cia ha fatto riferimento proprio all’indagine di Mueller; dopo aver  descritto il Presidente come un “leone ferito, e un leone ferito è un animale molto pericoloso”, ha avvertito: “ancora non sappiamo cosa uscirà fuori” dal Russiagate.”

Affermazioni che trasformano l’indagine di Mueller nel mezzo per dare il colpo di grazia all’Amministrazione Trump. E richiamano lo scandalo Watergate, scoppiato dopo una campagna mediatica portata avanti proprio da Bob Woodward. A cadere fu il Presidente Richard Nixon, anch’egli giudicato instabile e inadeguato.

La vicenda dell’editoriale del New York Times, e i commenti che ha generato, portano a una conclusione: negli Stati Uniti vi è un’attesa spasmodica perché la Presidenza Trump finisca in anticipo, in un modo o nell’altro.

di Cristiano Arienti

In copertina: Donald Trump e John Brennan

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