Uccisione di Osama Bin Laden: la menzogna come metodo

Domenica 10 maggio il London Review Books ha pubblicato un lungo articolo di Seymour Hersh, noto giornalista d’inchiesta americano, in cui si offre una versione alternativa dell’uccisione di Osama Bin Laden. Le fonti sono una figura di primo piano nell’Intelligence americana, di cui Hersh non svela l’identità, e uomini di rilievo delle forze armate pakistane; la ricostruzione, poi, si avvale di dichiarazioni ufficiali, articoli e notizie di dominio pubblico. Questa inchiesta smonta la versione ufficiale di Washington sull’uccisione del leader di Al Qaeda.

Secondo Hersh, Bin Laden fu giustiziato a sangue freddo da un’unità speciale di soldati americani all’interno del fortino di Abbottabad, Pakistan; lì, i Servizi Segreti di quel Paese (ISI) lo tenevano di fatto prigioniero da almeno 5 anni, finanziati dall’Arabia Saudita per “proteggerlo”: in realtà Ryyad temeva che Bin Laden, una volta in mano agli Stati Uniti, avrebbe rivelato il sostegno di alcuni membri della famiglia reale ad Al Qaeda.

Non fu la Cia, con o senza le torture ai sospetti qaedisti, a risalire al nascondiglio dell’uomo accusato di aver mosso guerra agli Stati Uniti con l’attacco dell’11 Settembre: Bin Laden fu “venduto” nel 2010 da un ufficiale dell’Intelligence pakistana in cambio della taglia da 25 milioni dollari. Ci vollero molti mesi prima che Ashfaq Kayani e Ahmed Pasha, leader militari pakistani, iniziassero a collaborare con Washington: in troppi ormai erano a conoscenza dell’illustre inquilino nel fortino di Abbottabad per mantenere il segreto. Fu raggiunto un accordo: gli Usa potevano mettere le mani su Osama Bin Laden, ma ad alcune condizioni: che il leader di Al Qaeda fosse ucciso sul posto, che il Pakistan risultasse estraneo all’intera operazione, e all’oscuro della presenza del leader qaedista ad Abbottabad; e infine, che la famiglia di Bin Laden fosse estradata in Arabia Saudita.

In realtà i vertici militari pakistani offrirono piena collaborazione per la preparazione e l’esecuzione dell’operazione: permisero a più elicotteri delle forze militari Usa di entrare lo spazio aereo del Pakistan, e di raggiungere indisturbati Abbottabad, una delle città meglio protette del Paese;  il fortino di Bin Laden (oggi raso al suolo) distava pochi chilometri dalla sede dell’Accademia militare, e dal quartier generale dei Battaglioni da combattimento dell’esercito; inoltre, si trovava a quindici minuti di elicottero da Tarbela Ghazi, la Scuola di addestramento per le unità di difesa dell’arsenale atomico del Pakistan.

Il raid delle forze speciali Usa, con partenza e ritorno da una base in Afghanistan, durò alcune ore. Uno degli elicotteri, durante la manovra di atterraggio nel fortino, si schiantò, ferendo alcuni soldati; non ci furono né sparatorie, né vittime precedenti all’esecuzione di Bin Laden: il leader di Al Qaeda non tentò di difendersi, né si fece scudo con una donna, come narra la versione ufficiale; invece, fu letteralmente fatto a pezzi dai colpi delle armi automatiche. I suoi resti vennero raccattati e deposti in una sacca. Ci vollero alcuni minuti prima che un altro elicottero sopraggiungesse sul luogo e i soldati evacuassero da Abbottabad. In quel lasso di tempo, un abitante della città twittava in diretta le fasi del raid. Eppure gli elicotteri Usa ebbero il tempo di uscire dallo spazio aereo pakistano senza ostacoli.

Il primo vero problema per Washington fu proprio la cronaca via twitter dell’ignaro citizen journalist; dopo qualche ora, la Casa Bianca decise di annunciare la morte di Bin Laden, perchè la notizia rischiava di diffondersi incontrollata; di fatto fatto, rovinò la storia già pronta da consegnare al mondo:  il leader di Al Qaeda era stato ucciso in un bombardamento con i droni sui monti del Waziristan. Tuttavia, durante il messaggio televisivo in diretta, Obama si lasciò scappare, tra le altre cose, un dettaglio importante: che il corpo di Bin Laden era sotto la custodia degli Americani.

Un altro problema, secondo la ricostruzione di Hersh, erano le condizioni del cadavere, ridotto a pezzi e irriconoscibile: di qui la necessità di inventare di sana pianta la versione della “sepoltura” in mare di Osama Bin Laden. La mancata esibizione di immagini del defunto leader di Al Qaeda venne giustificata con il pericolo di proteste o insurrezioni da parte dei simpatizzanti di Bin Laden, non pochi in Paesi come il Pakistan o l’Arabia Saudita.

Un’altra invenzione è la raccolta di computer e documenti che, secondo gli Usa, dovevano dimostrare come Bin Laden fosse ancora il leader di Al Qaeda, e dal fortino di Abbottabad guidasse gli attentati contro gli Stati Uniti e i loro alleati. In realtà Bin Laden, senza connessione internet e di fatto prigioniero dei Pakistani, era tagliato fuori dall’organizzazione terroristica dal 2006.

Se la ricostruzione di Hersh è vera, il film Zero Dark Thirty del premio Oscar Kathryn Bigelow, basato su fonti ufficiali della Cia e della Casa Bianca, risulterebbe un’opera di propaganda per sviare l’opinione pubblica da alcune verità scomode: l’Arabia Saudita era connessa ad Al Qaeda, e il Pakistan “proteggeva” Osama; ma soprattutto, in dieci anni di War on Terror, con oltre 1 milione di vittime accertate, gli Americani non avevano la più pallida idea di dove si nascondesse l’ispiratore dell’11 Settembre.

Seymour Hersh termina la sua inchiesta con un’accusa gravissima: “la menzogna ai più alti livelli rimane un modus operandi nella politica degli Stati Uniti.”

Non sarebbe la prima volta che Hersh svela operazioni o crimini mistificati o tenuti segreti dai vertici politici e militari Usa: nel 1969 vinse il Pulitzer per aver ricostruito il massacro di My Lay, in Vietnam, e il tentativo da parte dell’esercito di insabbiare la vicenda. Nel 2002 rivelò come l’amministrazione Bush-Cheney si preparasse a invadere l’Iraq. Nel 2004 accusò il consigliere alla Casa Bianca Richard Perle di aver spinto per la guerra in Iraq utilizzando fonti di intelligence palesemente inaffidabili. Nel 2004 descrisse prima di tutti le atrocità nel carcere iracheno di Abu Ghraib. Nel 2013 svelò che in Siria non fu solo l’esercito di Assad a usare le armi chimiche, ma anche i ribelli, tesi comprovata dall’inviata dell’Onu Carla Del Ponte, ex giudice della Corte Penale Internazione dell’Aja.

Molti giornalisti hanno già svilito l’inchiesta di Hersh perchè non darebbe un’identità all’alto ufficiale dell’Intelligence americana, la sua principale fonte. Tuttavia la sua ricostruzione riempie la scarsità di logica e di prove offerte dai vertici politici e militari Usa per avvallare quella che Hersh chiama “una storia degna di Lewis Carroll: una “favola” a cui finora hanno creduto anche i maggiori organi di informazione americani ed europei. Ed è forse il principale motivo di così tanto scetticismo nei confronti dell’inchiesta: come ha spiegato il giornalista Kevin Gosztola, mette in crisi il lavoro di autorevoli giornalisti che da anni si fidano di “versioni ufficiali” e “fonti amiche” su cui basare articoli, analisi e carriere. Forse anche per loro, e soprattutto per chi li segue, è tempo di uscire dal Paese delle Meraviglie.

di Cristiano Arienti

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