Un giorno di ordinaria libertà di parola

Sabato 23 Maggio 2015, Milano – Salire in superficie di Piazza Oberdan, coperta da un cielo di nuvole, e trovarsi di fronte a un gazebo agghindato con i simboli e le bandiere di Forza Nuova, movimento politico neofascista. Dentro e intorno, una trentina di militanti intercettano i passanti sulle rotte dello shopping: raccontano degli attentati incendiari che un mese prima hanno colpito la sede del partito, in via Palmieri, e la Libreria Ritter, storico centro di riferimento culturale per l’estrema destra milanese. Nei banchetti sono esposti alcuni dei volumi scampati al rogo: riguardano principalmente agiografia nazi-fascista, la storiografia militare, l’etno-nazionalismo.

Forza Nuova“I libri non si bruciano”, spiega l’ex leghista Mario Borghezio, allungando un volantino che accusa le autorità cittadine di non aver condannato a sufficienza il doppio attentato – il secondo ha costretto allo sgombero alcune abitazioni sopra la libreria di via Maiocchi.

Vicino a Borghezio ci sono altri leader del movimento neofascista, accompagnati da militanti nostalgici, ma anche da giovanissimi: portano avanti l’eredità del nazi-fascismo, un’ideologia che incenerì non solo libri, ma anche milioni di uomini di razze e convinzioni diverse. E prima dei campi di concentramento e di sterminio, come in tutti i regimi totalitari, i nazi-fascisti avevano messo all’indice centinaia di libri, e costretto gli avversari politici, o semplicemente chi non era come loro, a fuggire, a conformarsi o a tapparsi la bocca.

A nemmeno una decina di metri dal gazebo di Forza Nuova c’è un presidio di una ventina di agenti in assetto antisommossa; tre camionette della polizia stazionano sul ciglio della strada, ma non sono le uniche: dall’altro lato della piazza ce ne sono altre; la attraverso, mi lascio alle spalle i neoclassici bastioni di Porta Venezia, e imbocco l’omonimo viale.

“Allah Akbar”, recita un bimbo con fierezza, mentre la madre, una donna velata di hijab, lo accarezza e ride; un uomo accanto a loro, il capofamiglia, riprende la scena con la sua macchina digitale. Si dirigono poi verso un fitto assembramento di egiziani, che occupano parte della carreggiata: sono sostenitori di Mohamed Morsi, leader dei Fratelli Musulmani, movimento politico-islamico transnazionale. Almeno un centinaio di persone sventolano bandiere bianco-nero-rosso, e sorreggono cartelli con l’effige dell’ex presidente, attualmente in carcere, e scritte pro-democrazia.

MorsiNel 2012 Morsi aveva vinto le prime elezioni davvero democratiche dopo la deposizione del trentennale dittatore Mubarak. Appena un anno dopo però, una massa oceanica di persone era scesa in tutto il Paese per protestare contro il cambiamento unilaterale della costituzione; i Fratelli Musulmani, insieme ai Salafiti, un altro movimento islamico, avevano introdotto la sharia, la legge coranica, come base principale di governo del Paese: dal ruolo della donna a quello del parlamento, dalla libertà religiosa alla giustizia, i Fratelli Musulmani stavano trasformando l’Egitto in una teocrazia. Così Morsi è stato deposto durante un colpo di Stato orchestrato dal suo Ministro della Difesa, il Generale Abd Al-Sisi (l’attuale leader egiziano). Nei mesi successivi ci fu una sanguinaria repressione dei simpatizzanti dei Fratelli Musulmani, defraudati della vittoria elettorale. Compreso il massacro di Raba, dove le forze di polizia hanno sgomberato una piazza a colpi di arma da fuoco, assassinando 800 persone, e ferendone 4.000. Dopo due anni agli arresti, il 16 maggio scorso Morsi è stato condannato a morte, una pena toccata a migliaia di militanti dei Fratelli Musulmani.

Alla manifestazione in Viale Venezia ci sono uomini, donne, bambini, famiglie: chiedono il supporto dell’Italia e dell’Unione europea per favorire la scarcerazione di Morsi, e ripristinare l’ordine democratico in Egitto. Mi allontano mentre un uomo comincia a parlare dal microfono, un po’ in arabo e un po’ in italiano.

Entro nei Giardini Montanelli, dove la rivista Wired ha organizzato la terza edizione del Wired Next Fest, un’occasione per parlare di tecnologia e innovazione nella società globalizzata.

WiredUn enorme schermo trasmette in diretta l’intervento (in inglese) di Michael Fertik, esperto di reputazione on-line: “i giovani si preparino: tra pochi anni le università e i datori di lavoro si cercheranno da soli i candidati più idonei grazie ai curriculum digitali; saranno in grado di giudicare le potenzialità di un ragazzino, o le competenze di un giovane, studiandone le attività su internet: dall’abilità nei videogame alle letture preferite, dall’ascolto di tutorial alla redazione di un testo sui social media.”

Fertik non specifica che questo tipo di sorveglianza è possibile grazie alla vendita di dati on-line da parte dei giganti della Rete: Facebook e Google stanno trasformando gli internauti in target commerciali; saranno questi i filtri del domani – oltre all’eterno potere corruttivo del denaro – per selezionare studenti e lavoratori. E’ Andrew Keen, autore di Internet non è la risposta, a sottolinearlo in un successivo dibattito – pure questo in inglese.

Noi utenti, spiega Keen, siamo diventati una merce per i colossi del web; ci rivendono ad aziende che cercano clienti per i loro prodotti e servizi. Nel nuovo sistema economico, generato dalla Rivoluzione digitale, la maggior parte del profitto va solo a poche aziende, anche piccolissime, e non viene condiviso, come e’ stato con la Rivoluzione industriale, da chi produce, cioè noi: quei dati sono il risultato della nostra attività in Rete.

Questo modello economico, continua Keen, è destinato a impoverire il mercato del lavoro, già minacciato dagli enormi progressi della robotica, ed è in ultima analisi insostenibile. E’ necessario quindi un grande dibattito sulla regolamentazione della Rete; i governi, espressione del volere democratico, devono poter intervenire sulla gestione dei dati: sia per il loro valore economico, ma anche per il rischio che diventino un domani motivo di discriminazione o peggio di persecuzione. Questo deve avvenire prima che i colossi del web entrino in empirei inavvicinabili per i governi: i cittadini non avrebbero più la possibilità di proteggere i loro diritti e i loro interessi.

Il rischio sottinteso, è che i cittadini avrebbero la libertà di fare e dire tutto quello che vogliono su internet. ma la loro parola non conterebbe più nulla nei processi decisionali: le regole della convivenza civile sarebbero ad appannaggio di poche persone, cioè gli alti dirigenti e gli azionisti di maggioranza delle multinazionali del web; passeremmo a una plutocrazia. E invece il confronto trasparente è necessario affinché l’innovazione rimanga nell’ambito delle garanzie costituzionali di una società democratica: il tipo di struttura sociale che meglio si presta al progresso scientifico e sociale.

Concluso il dibattito, m’incammino per i viali alberati dei Giardini Montanelli; la manifestazione pro-Morsi è già finita; in compenso mi capita l’occasione di scambiare qualche battuta con Andrew Keen, che vaga alla ricerca della sua auto a noleggio. Mi chiede un giudizio sul dibattito, vuole sapere la mia opinione sui temi toccati.

Al termine del sabato pomeriggio, mi godo la vitalità di Milano, e la sua difesa del diritto di parola: una difesa garantita agli eredi di chi la parola la tolse per ragioni politiche, nella convinzione di una superiorità razziale; garantita a chi cerca di toglierla per motivi religiosi, nell’allucinazione di una superiorità divina. Mi rassicura l’idea di poter discutere di come la libertà di parola rischi di svuotarsi di significato: a causa dell’abbaglio di chi pensa che l’innovazione tecnologica possa trascurare i diritti e le necessità dei cittadini.

di Cristiano Arienti

In copertina: Corso Garibaldi, MilanoAcquarello di Lorenza Pasquali

 

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