La riforma economica di Bernie Sanders e il grande equivoco di Hillary Clinton

Secondo l’economista Jeffrey Sachs esistono tre grandi problemi negli Stati Uniti: il primo è la stagnazione dei salari, in un panorama post-crisi dove gli straricchi guadagnano sempre di più. Il secondo è la mancanza di investimenti pubblici per l’ammodernamento del Paese; per Sachs e altri economisti, il pacchetto di stimoli del Presidente Barack Obama, varato nel 2009, si sta rivelando insufficiente, e l’entrata in vigore degli accordi commerciali come il TPP e il TTPI è vista come un ulteriore colpo per il mercato del lavoro Usa. Il terzo grande problema è rappresentato dalla sanità: nonostante la riforma di Obama, resta poco accessibile alle fasce più povere degli americani, e risulta ancora molto costosa per le casse pubbliche.

SandersLe risposte dovranno venire da uno dei due candidati democratici alle Presidenziali del prossimo novembre, e non solo perché i sondaggi vedono sia Hillary Clinton che Bernie Sanders avanti contro il probabile vincitore nel campo repubblicano, Donald Trump. Il Partito Repubblicano, infatti, è ideologicamente contrario a un Governo Federale che spenda soldi per la crescita economica; per non parlare degli attacchi alla riforma della Sanità di Obama, che in fondo l’ha mantenuta privata; di sicuro, poi, i Repubblicani non accetterebbero l’innalzamento dei salari per legge.

Per Bernie Sanders questi problemi sono una priorità; nel suo programma propone una serie di politiche per risolverli: a partire da una riforma fiscale che aumenti le tasse alle fasce più abbienti. Sanders, poi, ha intenzione di tassare le grandi multinazionali e grandi banche di investimento, nell’ottica di colpire l’evasione di capitali verso paradisi fiscali; e limitare la speculazione finanziaria, alla base delle grave crisi del 2007-08, e ancora oggi fattore dominante nell’economia reale.

Quella del senatore del Vermont è una politica socialista con un messaggio chiaro: il Governo torni a occuparsi della gente comune, faccia qualocsa per ridurre l’ineguaglianza dei redditi; e soprattutto, basta con un sistema corrotto dai soldi delle multinazionali e di Wall-Street. Un sistema che è diventato socialista, magicamente, proprio nel 2008, con il Tarp, e il salvataggio del sistema bancario e assicurativo grazie ai soldi dei contribuenti americani.

Molti commentatori negli ultimi mesi hanno catalogato Sanders come un populista; il board del New York Times, in un editoriale del 13 marzo in cui finalmente attesta l’esistenza di un secondo candidato alle primarie democratiche, ha spiegato: Sanders vuole una rivoluzione, ma per farla ha bisogno di un Congresso disponibile ad approvare le sue politiche. Il messaggio del quotidiano più influente del mondo è chiaro: la realtà impone che il futuro Presidente democratico trovi accordi con il Congresso a maggioranza Repubblicana. Un obiettivo che nemmeno un Presidente moderato come Barack Obama è riuscito a raggiungere. Potrebbe essere alla portata di Hillary Clinton, qualora salisse alla Casa Bianca; ma le eventuali riforme sarebbero annacquate, e lontanissime dal risolvere i problemi evidenziati da Sachs.

Nella sua analisi l’economista è ancora più chiaro: Hillary Clinton manterrebbe lo status quo, come il precedessore Obama: un Governo Federale in difesa del grande capitalismo e della grande finanza, a costo di tenere decine di milioni di persone nell’indigenza, con salari minimi inadeguati a una vita dignitosa. In un rapporto dell’Unicef del 2013, fra i Paesi sviluppati gli Stati Uniti erano negli ultimi gradini per la percentuale di bambini costretti a vivere in povertà.

Per Sachs non sarebbe solo un problema di approccio, legato alla volontà di legiferare con un Congresso a maggioranza repubblicano: è l’ideologia della Clinton, e la sua carriera politica, che la rendono inadeguata di fronte alla sfida di migliorare la condizione della classe media e delle fasce più deboli. Le sue politiche proteggerebbero il neo-liberismo anche con un Congresso a maggioranza democratica.

Quando Bill Clinton era alla Casa Bianca, venne approvata una legge per il welfare (Personal Responsability and Work Opportunity) con il voto repubblicano, ma senza il voto dei democratici: quelle misure consegnarono alla povertà milioni di persone in mancanza di riforme del mercato del lavoro vere e profonde. E’ di Bill Clinton la celebre frase: il tempo del “Big Government” è finito, chiudendo l’era del New Deal lanciata da Franklin Delano Roosevelt, proprio in risposta alla grande crisi del 1929.

La Clinton, come il marito, crede nella capacità del mercato non solo di auto-regolamentarsi, ma di portare e distribuire ricchezza sempre e comunque. I piani di deregolamentazione di Wall-Street del marito Bill non furono altro che la prosecuzione delle politiche del suo precedessore George H. W. Bush, il quale aveva in mano le riforme in campo finanziario anche durante l’amministrazione Reagan. E’ infatti dalla fine degli anni ’80 che scoppiano a orologeria devastanti bolle speculative.

Nel 2010 Obama ha varato la Dodd-Frank, la legge quadro di riforma della finanza: ma è è stata divelta piano piano dal lobbismo di CityBank, Goldman Sachs, e delle altre grandi banche d’investimento. Le operazioni sospette che hanno scatenato la crisi, come la vendita di prodotti spazzatura spacciati per sicuri, o la pura e semplice frode fiscale, come la manipolazione dei tassi di interesse, non hanno avuto conseguenze penali: le grandi banche hanno patteggiato somme pecuniarie che per quanto esorbitanti, sono poco in proporzione ai guadagni ottenuti grazie a quei crimini.

Non c’è nulla nel programma di Hillary Clinton, che indichi l’alchimia finanziaria di Wall Street come uno dei veri problemi del Paese. Come se la Crisi del 2007-2008 fosse piombata sugli americani dal nulla, e non a causa di quelle operazioni sospette, e di quei comportamenti fraudolenti.

Sanders si dichiara con orgoglio un pericolo per banche come Goldman Sachs.

Come ha scritto Ryan Lizza sul New Yorker per spiegare il fenomeno Sanders, il Senatore del Vermont sta ridando fiducia a un elettorato depresso, che si è sentito tradito da come è stato gestito il periodo post-crisi. Sta ritornando la fiducia in campo democratico, e sta nascendo soprattutto tra i giovani, che del grande capitalismo, finora, hanno conosciuto solo gli aspetti peggiori e penalizzanti. Come Lizza, altri analisti politici ritengono che il successo riscosso da Sanders in queste primarie stia mutando il panorama politico americano: se il partito democratico ha perso molti Rappresentanti al Congresso, forse il merito non è di un Partito Repubblicano in lite con la realtà: i primi quattro anni di Barack Obama sono stati una delusione per molti che aspiravano a un vero cambiamento in campo sociale, economico, ambientale.

E’ una piattaforma politica, quella di Sanders, a cui in molti stanno aderendo; indipendentemente dall’esito di queste primarie, su cui pesano gli oltre 400 super-delegati intenzionati a dare il voto alla Clinton, tutti rappresentanti di quel lobbismo che ha impedito delle vere riforme. La gara per la Casa Bianca senza quei voti sulla bilancia, già oggi sarebbe molto più equilibrata.

E’ solo con la speranza, forse, che il Partito Democratico può richiamare alle urne i suoi elettori, e riconquistare il Congresso: affinché si possa iniziare quella rivoluzione a cui il New York Times non crede, ma di cui forse il Paese sente un disperato bisogno.

di Cristiano Arienti

 

http://linkis.com/edition.cnn.com/2016/EERHZ

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