(H)OLA CHINA dieci anni dopo le Olimpiadi di Pechino

Nel 2006 cantai le ilari imprese di quattro ragazzi alle Olimpiadi di Barcellona, celebrate quattordici anni prima; raccontai, in particolare, di una “grossa cosa” che facemmo io e tre amici nello Stadio del Montjuic: in quello scritto, intitolato (H)OLA CHINA, usai una metafora per associare quella nostra impresa con le Olimpiadi di Pechino, in programma due anni dopo: era il mio contributo per denunciare il mancato rispetto dei diritti umani e civili in Cina.

In fondo, erano trascorsi 15 anni dall’entrata del Paese asiatico nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), voluta fortemente dagli Stati Uniti; quel processo avrebbe dovuto aprire la Cina alla globalizzazione, non solo economica: si sperava che il Governo di Pechino allentasse la morsa sulla libertà di pensiero, di parola, di assembramento e di culto. Quei diritti a cui aspiravano gli studenti di piazza Tienanmen, nel 1989: con un immenso, pacifico sit-in, vicino al mausoleo di Mao Zedong, chiedevano maggior diversificazione e inclusione, e veri processi democratici. La repressione, cieca e sanguinaria, sconvolse il mondo intero.

Se in quella notte fra il 3 e 4 giugno 1989 in migliaia persero la vita, e decine di migliaia vennero poi incarcerati, nel 2006 ancora si perseguivano i reati di pensiero e di opinione. Le Olimpiadi di Pechino, assegnate nel 2000, dovevano simboleggiare un premio per il progresso democratico del Paese; invece pareva sempre più chiaro l’opposto: il regime sferrava ancora la brutalità per schiacciare ogni dissenso.

In quel marzo 2008, Pechino intervenne in Tibet per reprimere i moti di piazza guidati dai monaci buddisti; decine le vittime, migliaia gli arresti, con gli internati costretti a seguire programmi di rieducazione. Da allora il Governo cinese esercita pressioni fortissime affinché le Nazioni evitino di accogliere ufficialmente il Dalai Lama, considerato un sobillatore e un criminale.

Nel maggio 2008, poi, la Cina fu colpita dal terremoto del Sichuan, che provocò la morte di 80.000 persone: in maggioranza erano bambini e adolescenti, sepolti nei crolli degli edifici scolastici. L’artista Ai Wei Wei, attraverso un blog e le sue opere, cercò di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla corruzione di una intera classe politica: in molti lucravano sulle scuole pubbliche, costruite con materiali scadenti. A causa del suo attivismo, Ai Wei Wei fu incarcerato, segregato, e torturato; e perseguitato anche dopo l’esilio. Proprio Ai Wei Wei era stato il consulente artistico per il progetto dello Stadio Olimpico “Nido d’Uccello”.

Nel dicembre 2008, nel sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, centinaia di personalità firmarono Charta ’08, un manifesto che chiedeva riforme improrogabili nel sistema politico e sociale cinese. Il coordinatore del manifesto, il letterato Liu Xiaobo, venne trattenuto dalla polizia, arrestato, e processato; nonostante l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace, Xiaobo ha vissuto da prigioniero politico anche i suoi ultimi giorni di vita.

Il vero, grande balzo da celebrare, per il Governo cinese, non era nel campo dei diritti umani e civili.

Le Olimpiadi del 2008 segnarono il trionfo di un Paese che, abbracciato il capitalismo, si stava imponendo come potenza globale in vasti settori dell’economia e della finanza; un capitalismo dirigista, con una moneta perennemente svalutata, e un debito nazionale in mano, principalmente, a banche e aziende cinesi con partecipazione statale. E poche settimane dopo la fine dei giochi Olimpici, il mondo fu scosso da un altro terremoto: l’Amministrazione Bush-Cheney lasciò fallire la Lehman Brothers, dando inizio a quello che sembrava, a tutti gli effetti, il crollo del sistema bancario. Senza il denaro dei contribuenti americani, si rischiava di polverizzare il sistema capitalista. Da quel settembre 2008 è partito uno sciame sismico nell’economia occidentale, per cui ancora oggi in Italia si trema. E ormai possiamo solo contare le macerie provocate dalla competizione cinese nel campo manifatturiero: molte imprese italiane hanno chiuso i battenti; o hanno delocalizzato la manodopera per rimanere su un mercato inquinato dal “dumping” dei distretti industriali di Shangai e Suzhou, solo per citare i principali. Dieci anni dopo lo scoppio della Crisi, aziende cinesi detengono importanti quote azionarie di grosse industrie e imprese italiane. ChemChina, ad esempio, ha acquisito la maggioranza della Pirelli; per altro sponsor ufficiale dell’Inter, al 100% in mano a Suning, colosso dell’elettronica con sede a Nanchino. Dal 2008 a oggi, l’acquisto di aziende europee da parte di proprietà cinesi ha raggiunto un giro d’affari per 255 miliardi di $. Senza contare la massiccia presenza della Cina in Africa; ma soprattutto il possesso dell’8% del debito pubblico americano (dato al 2014).

Si sarebbe tentati di dire: in quel 2008, come su una pista Olimpica, si assistì alla staffetta fra gli Stati Uniti e la Cina per il primato del XXI secolo.

La globalizzazione ha effettivamente elevato dalla povertà decine di milioni di cinesi, e il Paese è proiettato verso il futuro con urbanizzazioni avveniristiche, e grandiose opere d’ingegneria civile. Rover cinesi sono atterrati sulla Luna, ed è ormai noto il piano di una rapida transizione energetica verso le rinnovabili. Ed è vero che nel 2008, dopo anni di far-west nell’occupazione, in Cina entrò in vigore una legge sui contratti di lavoro, e accordi fra categorie e aziende; negli anni sono aumentate le protezioni per i lavoratori, sebbene i sindacati siano parte integrante del Partito Comunista.

Un partito saldamente al potere, composto da una casta di politici, burocrati e professionisti, i quali mantengono uno status sociale ed economico superiore alla maggior parte dei loro concittadini; molti dei quali saranno anche usciti dalla povertà, ma vivono con mezzi molto inferiori rispetto alla nuova classe alto-borghese. Esiste infatti un ampio solco nella distribuzione della ricchezza; lo dimostra un recente studio firmato, fra gli altri, dall’economista Thomas Piketty: le diseguaglianze fra le classi in Cina, negli ultimi 40 anni, sono aumentate, somigliando sempre più al divario sociale negli Stati Uniti. Un problema che, unito alla diffusa corruzione, non cessa di fomentare malumori e frustrazione, soprattutto nelle aree rurali e periferiche.

E neutralizzare qualsiasi moto di protesta è il principale obiettivo in ottica sicurezza nazionale: dall’isolato proprietario espropriato per fare spazio a una diga, ai gruppi di parenti delle vittime di piazza Tienanmen, che chiedono notizie sui figli, o giustizia; fino agli Uiguri, etnia turcofona oppressa per via della fede islamica. Il Governo centrale ha raffinato, anche grazie alle tecnologie e al web, metodi di sorveglianza di massa sui cittadini, e censura capillare nell’informazione e sui social media; il dissenso nei confronti della linea ufficiale è raro – a eccezione della questione “ambientale”; e viene punito con “sparizioni”, arresti domiciliari, minacce, licenziamenti. La sorte di coloro che, per i motivi più svariati, protestano o manifestano, è un promemoria di come la Cina sia a tutt’oggi una dittatura: i reati di opinione e di pensiero vengono perseguiti come nel 1989, e come nel 2006.

Il pugno duro sui diritti civili si è appesantito con l’ascesa al potere del Presidente Xi Jinping, rappresentante di un’ala “aristocratica” all’interno del Partito Comunista. Recentemente, è stato tolto il termine dei due mandati, e l’attuale Presidente potrà restare in carica senza limiti. In patria, Xi Jinping è visto come il leader giusto per proiettare la Cina nel XXI secolo; in molti, però, temono l’inaugurazione di un culto di personalità” alla Mao Zedong.

Per altro, il padre della Cina comunista non è stato evocato nemmeno per sbaglio nelle manifestazioni di apertura e chiusura delle Olimpiadi ’08: la sua figura controversa, con tutti gli errori e crimini commessi, non doveva turbare l’armonia dei Giochi di Pechino; i quali si sono svolti in un clima sereno e di festa – guastato, purtroppo, dallo scoppio della guerra in Georgia, con le regioni dell’Ossezia del Sud e l’Abkazia invase dai carri armati russi.

Una festa in cui non poteva mancare la “ola”: l’onda di uomini viaggiò sugli spalti dello Stadio “Nido d’Uccello”, con il suo caratteristico e allegro frastuono.

E con la risacca di questa onda, ritorno a dodici anni fa, quando scrissi (H)OLA CHINA.

Rileggere questo pezzo è stata l’occasione per analizzare le promesse, mantenute o mancate, della Cina; e constatare che l’entrata del Paese asiatico nel WTO, per certi versi, si sia trasformata in uno tsunami per la manifattura in Italia e altrove. Inoltre, mi permette di riflettere su quegli ideali che, nel 2006, provocavano in me tanta indignazione per i Giochi di Pechino. Alla base, vi era una fiducia piena nei valori “universali” della democrazia e della libertà, da esportare ovunque; anche a quel miliardo e trecento milioni di cinesi, con la forza delle idee e della solidarietà. Una visione tipicamente filo-Occidentale, che trascurava quanto possano essere lunghi, e tortuosi, i tempi di pacifica evoluzione di un Paese-Continente come la Cina. Una visione che cominciava a confrontarsi con le contraddizioni di un Occidente impegnato nelle guerre post-11 Settembre: come è possibile esportare “democrazia” e “libertà” con le bombe e gli eserciti? Fino al brusco risveglio causato dalla Crisi del 2008: il sistema economico su cui si era incardinato l’Occidente, il neoliberismo a trazione finanziaria, era fallito.

Quella base di ideali, però, è ancora solida; soprattutto in questo 2018, che vede il risorgere di tendenze autoritarie perfino in Europa e negli Stati Uniti: ogni essere umano nasce libero, e da cittadino dovrebbe vivere nella libertà di opinione, di parola, di assembramento e di culto. Questo è il vero confine, interiore e politico, per cui valga la pena lottare; contro ogni deriva dittatoriale, e il conseguente tsunami sui diritti umani e civili.

E la risacca di questa onda, però, mi riporta anche a Barcellona, e alla mia Olimpiade; rileggendo (H)OLA CHINA ho rivissuto le emozioni provate in quel 1992; quando, da semplici spettatori, io e tre amici ci trasformammo in piccoli Poseidoni, e lo Stadio del Montjuic diventò il nostro oceano.

E come cantava il poeta Lucio Dalla, “il pensiero è come l’oceano, non lo puoi bloccare.”

di Cristiano Arienti

 

(H)OLA CHINA*

di Cristiano Arienti

(scritto nel Giugno 2006)

*In spagnolo “ola” significa “onda”, “hola” significa “ciao”

 

I

Aspettando Pechino 2008…

…Barcellona 1992. Al termine di una marcia cominciata più di 2000 anni prima in Grecia, gli ultimi tedofori conducono la fiamma olimpica lungo i tornanti del colle Montjuic. Fra un tripudio di grida e calore, la torcia entra nell’arena; ad attenderla, un arciere. Il tedoforo gli si accosta e porge la torcia: l’uomo attizza la freccia nella fiamma tremula e, in un sospiro, la scaglia alta nel tramonto catalano, verso la colonna in cima alla quale poggia un braciere. S’apre lassù il fuoco che veglierà su Barcellona per tutta la durata dei Giochi Olimpici. Per quattordici giorni il pianeta si ferma, si stringe e si scalda attorno alla fiamma. Per due settimane i cinque cerchi tornano a essere ombelico del mondo. E io, comodo sugli spalti del secondo anello dell’arena, ho diciotto anni, e sto per fare la cosa più grossa della mia vita.

A quel tempo le Olimpiadi del 1992 vengono considerate un evento davvero speciale: il muro di Berlino è caduto e milioni di persone si liberano dalla dittatura comunista filo-sovietica. Si tende a considerare i moti di Piazza Tienanmen come doloroso preludio dell’avvento improcrastinabile di libertà e democrazia. La guerra del Golfo è alle spalle da un anno, e nessuno sembra preoccuparsi ancora del tiranno Saddam Hussein. L’Europa non crede di dover prevenire gli scontri militari e le pulizie etniche in Jugoslavia, men che meno di intervenire. Si limiterà a osservare, burocraticamente.

Non manca nessuno, come a Seoul ’88: solo il Sudafrica è ancora bandito dal Comitato Olimpico Internazionale, poiché persevera nella politica dell’apartheid.

La decennale esclusione di Johannesburg è la prova che i Giochi Olimpici non sono solo sport, ma un evento “civile” in cui gli uomini del mondo s’incontrano, si conoscono e si riconoscono; si affratellano grazie a un senso condiviso di umanità, al di là delle religioni, delle etnie e delle culture. E vogliono convivere insieme.

Si, vicini all’alba del terzo millennio, si respira la speranza: niente guerre fredde, boicottaggi o pericoli d’attentati: davvero Barcellona appare la festosa parata della specie umana pacificata, dopo troppe edizioni politicizzate.

Berlino ’36: il moro Hitler non concede la stretta di mano al “negro” Jessy Owen, l’uomo più veloce del mondo – per altro nato nell’Alabama, terra di figli del vento, dove la segregazione razziale terminerà giuridicamente negli anni sessanta.

Dopo Yalta ’46 e la spartizione del globo in due emisferi politici, scatta la corsa agli armamenti nucleari; da quel momento in avanti, per decenni, il cielo sarebbe potuto diventare il campo di battaglia di un conflitto dinamico-termonucleare. Melbourne ’56: pur morto Stalin, la misera sorte degli ungheresi è un monito per chiunque voglia prendere le distanze dal comunismo di Mosca: subire repressione, epurazione e restaurazione.

Città del Messico ’68, l’anno della protesta giovanile; ma soprattutto della “primavera” di Praga strangolata dal duro pugno sovietico. Sul podio Smith e Carlos alzano il pugno in pelle nera delle Pantere durante l’inno, per rivoltarsi contro la condizione della comunità afro-americana negli Stati Uniti.

Un nero che aveva un sogno viene assassinato, mentre un altro nero salta in lungo dove l’uomo nemmeno si sognava. Nel 1968 perfino la Luna appariva più vicina di quegli 8 metri e 90; e una conquista più prossima rispetto al giorno in cui i neri d’america avrebbero convissuto in condizioni di pari opportunità.

Monaco ’72: il terrorismo palestinese rabbuia lo spirito di pace; i Giochi, attoniti e insanguinati, per la prima volta si fermano. Montreal ’76: il continente Africano, ormai scatenato, non partecipa alle Olimpiadi: è la protesta anche contro il perdurare delle ingerenze politiche ed economiche post-coloniali.

Mosca 1980: gli Stati Uniti e una sfilza di altri Paesi boicottano i Giochi. Los Angeles 1984: L’URSS e i Paesi comunisti filo-sovietici boicottano i Giochi.

Seoul 1988: la Corea occidentalizzata e la Corea comunista sfilano sotto un’unica bandiera, quella dei cinque cerchi olimpici. C’è qualcosa di nuovo sulla Terra, un tremore ormai inarrestabile che scuote muri e muraglie.

II

In quel 1992 il mondo finalmente cova speranze di pace tra i popoli, e di sconfitta del razzismo. E, più bello di un sogno, io e tre miei coetanei, con le facce pitturate di tricolore e le bandiere annodate al collo, strepitiamo dal secondo anello dello stadio. Ce la ridiamo solo perché siamo lì, al Montjuic.

Per me, il mitico Stadio Olimpico del Montjuic! E’ un grande ovale con diffuso color sabbia: dalle mura esterne, alle pareti interne, fino all’alto braciere dove arde la famosa fiamma. Distende il brillante prato verde, e si estende all’orizzonte l’azzurro del cielo sopra la Catalogna.

Due anelli da 45.000 spettatori. Le gradinate del primo anello digradano a venti-venticinque gradi. Il secco declivio del secondo raggiunge almeno i trenta; per questa pendenza sono state piantate balaustre d’acciaio a ogni fila. La gente ci appoggia le pance e i vessilli.

Lo spalto dà sulla pista, e il grande campo ammantato di luce è lì, apparentemente a una sassata di distanza. Ma è un gioco ottico: il proscenio delle Olimpiadi è lontano da noi, e vediamo omini che corrono, lanciano e saltano.

Barcellona è Babilonia!

Passeggiare e principiare a parlare con lo straniero che cammina al fianco tuo. L’inglese è il passepartout per il dialogo internazionale; ma giovano anche i gesti per farsi capire.

Discorsi, cori e parole in decine di lingue diverse, anche se le bocche e occhi sono uguali sulle facce: dal latte al petrolio, tra deserto e cuoio, mille tonalità di epidermide, stesse labbra sorridenti, stesse palpebre ridenti.

Cinque iridi, grandi coriandoli colorati; bandiere a decine: facce pitturate e striscioni; musica agli angoli e ai crocicchi: la gente vuol reclamare un’identità, una nazionalità; una diversità che però si integra allegramente in una comunità. Si, Barcellona è Babilonia a Carnevale.

C’è Spagna giallo-rossa ovunque sotto il sole della Catalogna. E c’è Euzkaudi per tutta la città. Io e gli altri tre, vedendo le sottili croci bianco-rosse su sfondo verde, ci chiediamo da quale Asia provengano quegli uomini che sfilano per le vie e le piazze. Alcuni spiegano che sono spagnoli, ma che in realtà non lo sono.

I baschi rivendicano al mondo la loro identità di popolo; per quelle strade, pacificamente. Solo otto anni dopo, in Costa Blanca, frequentando baschi in vacanza durante la “noche” di Torrevieja, avrei compreso la potente identificazione di questa gente in un popolo di fatto, e una nazione mancata. Lo stesso sarebbe capitato nel 2002, quando uomini e donne di Barcellona mi spiegavano che loro sono catalani e basta.

Ma allora, nel 1992, io e i miei tre amici non percepiamo questa diversità tra le genti iberiche. Siamo solo tra uomini che sventolano bandiere, festosamente.

C’è l’invasione brasiliana che macchia di giallo la calle catalana: voce di fado, tamburi e lambada; passi di samba e sonagli per le ramblas; Brazil contagia “d’alegrìa” e “fiesta” la città. Al termine della finale di pallavolo, con i verde-oro vittoriosi sugli “orange” olandesi, un cristo imbandierato di “ordem i progreso” percorre il perimetro del campo sulle ginocchia: braccia grate e occhi al cielo, compie il suo voto a Gesù per la medaglia d’oro.

Lo Stadio Olimpico è il mondo dentro un’arena.

Tra la miriade di persone che incrociamo, conosciamo due maturi finlandesi con indosso una maglietta celebrativa di tutte le edizione dei Giochi, a partire da Helsinki ’52: da allora non se n’erano persa una, ripromettendosi che avrebbero partecipato a tutte le edizioni finché morte non li avrebbe separati.

E ci sono i britannici, a centinaia, con l’inseparabile Union Jack, e le immancabili pinte di birra a qualunque ora del giorno. Una sera, sullo spalto, siede dietro di noi una famiglia biondo-paglia, con la pelle lattea e le lentiggini in faccia. I due ragazzini, vent’anni in due, sospingono un loro podista con grida terrificanti; per minuti le loro voci si spiegano come sirene, allarmano e intimoriscono. Anni dopo, a Bournemouth, avrei richiamato alla mente il barbaro urlare di quei due britannici in miniatura; quando, al riparo dalla pioggerella agostana, mi trovai a osservare i bambini che nudi si rincorrevano sulla battigia; entravano e uscivano dal grigio e gelido mare della Manica, mentre io stringevo le braccia al petto per il freddo.

La sera in cui il duecentista Mike Marsh manca d’un centesimo il record mondiale rallentando platealmente negli ultimi venti metri, siedo di fianco a un uomo: ha la guancia a bande arancio-bianco-blu, ma in mezzo ci sta un lettering, un piccolo pasticcio nero. Scambio la bandiera boera per quella olandese. “I come from South Africa!” mi corregge l’uomo, disciplinato nel proprio orgoglio. Così il Sudafrica c’è sugli spalti, se non nelle competizioni sportive. Attorno a noi siedono persone di colore. E mi chiedo se lui le giudichi esseri inferiori. Controllo come li osserva distrattamente: non traspare né odio né niente, da credere che li reputi uomini come lui. Gli afrikaaner non sanno che i trenta milioni di neri stanno per abbattere l’apartheid, perché Mandela libero è ormai questione di mesi. E come possono immaginare che li perdoneranno tutti, se non per un crimine però per l’ignoranza, con il più esemplare processo di riconciliazione civile che l’umanità conosce e ricorda. E la Federazione Internazionale di Rugby, fuori dal CIO, premierà questa novella Nazione affidandole l’organizzazione del primo campionato mondiale. Gli “springboks” trionferanno, e il capitano bianco Francois Pienaar riceverà la coppa del mondo dalle mani del suo primo tifoso, il Presidente Nelson Mandela.

Lo sport si fa leggenda per le generazioni a venire. Vincitori, vinti e spettatori, diventano attori e testimoni di una realtà che si tramanda come parabola di valori universali.

Noi quattro italiani tifiamo nelle gare d’atletica in cui competono gli azzurri; ma da veri sportivi, ci appassioniamo anche quando non c’è Antibo da spingere verso il traguardo, per un podio che purtroppo non arriva. Osserviamo e incitiamo tutti i corridori sul ring di tartan granata. Ammiriamo i lanci di pesi e giavellotti sull’erboso rettangolo verde; e ci esaltiamo per le misure, qualunque sia l’ostacolo o l’atleta che le raggiunga. Durante la gara del Salto in Lungo non sappiamo per quale americano parteggiare, se per Lewis figlio del vento o per Powell, che l’anno prima, a Tokio, camminò in aria e atterrò a 8.95.

Eccitati, viviamo di emozioni in continuazione, giorno e notte, in una girandola di suoni, colori, contatti umani e prodezze sportive.

Ci commuoviamo insieme agli altri quarantamila quando il quattrocentista Derek Redmond, il favorito della competizione, si accascia al suolo per lo strappo della coscia, ma si rialza e prova a concludere il giro di batteria, scacciando rabbiosamente i giudici pronti a sorreggerlo. Solitario e fuori dai giochi, taglia il traguardo saltellando s’un piede, ricevendo l’urlo e l’ovazione che nessuno riuscirà più a sollevare in quello stadio. Solo un altro rumore eguaglierà il festeggiamento per Redmond: i fischi e gli ululati per il fondista marocchino Khalid Skah, colpevole di aver giocato sporco; corse per minuti dietro a un connazionale doppiato per tirare il fiato, in vista dell’ultimo giro in cui, favorito allo sprint, batterà l’avversario keniota. Spavaldo, salì sul podio salutando a mani aperte la salva di fischi; ma pianse come un bambino, quando non riuscì a udire le note dell’inno nazionale, coperto dal frastuono di un’arena indignata.

L’Olimpiade, grazie al senso di regole comunemente accettate e condivise, quelle sportive, coglie la realtà con un alto senso di giustizia civile.

Ma ritorno al mio primo giorno di Montjuic e alla cosa più grossa che io abbia mai fatto.

Dopo ore di gare, finalmente arriva un tempo di calma e quiete. Non un atleta in pista o in pedana; nessuna voce d’altoparlante; solo il brulicante vocio di 40.000 spettatori seduti al loro posto, ognuno intento a farsi i fatti suoi. Io, Luca, Stefano e Daniele, nel centro esatto della curva, ci guardiamo negli occhi come complici, e ci capiamo al volo, senza parole; solo, i petti e le teste in tumulto, i fiati corti per la tensione dell’impresa da compiere. Ne avevamo parlato per giorni prima di partire per Barcellona; l’avevamo studiata come un colpo, una “zingarata”, una cosa storica! Finché ci dichiarammo tutti d’accordo: OLA! E ora era arrivato il momento di alzarla la ola, questa “onda umana” da stadio. Così, noi i primi, ci leviamo in piedi e, vedette in alto mare, dispieghiamo lo sguardo sugli spalti dell’arena catalana: lungo le paraboliche e i rettilinei adiacenti, fino a raggiungere la muraglia sulla curva in faccia a noi, variopinto domino di uomini sospeso da terra come per incantesimo. Per dei secondi fissiamo e ammiriamo gli anelli, per dirci che ce la faremo, o per ammettere che è impossibile; o forse fu lo sguardo dei surfisti, che sdraiati sulla tavola nuotano verso i giganti del mare.

Noi, visionari, già ci sentivamo l’onda addosso?

“Ola… Ola… Ola… Ola…”, quattro giovani voci, quattro rivoli pazzerelli, prendono a serpeggiare tra la gente. Incomprese parole d’incomprensione: le nostre per chi non capisce che cosa andiamo dicendo; e non afferrano perché guardiamo in faccia le persone ed esclamiamo “Ola”. O forse lo intuiscono e sono increduli che lì, proprio vicino a loro, qualcuno voglia sollevare la famosa onda umana. Esclamazioni; modulazioni in idiomi sconosciuti, ma ne comprendiamo il significato grazie ai gesti, e al capo scosso in rifiuto: in molti non volevano partecipare a quella che sembrava a tutti gli effetti una impresa impossibile. Perché finché non la vedi con i tuoi occhi, “ola” è una parola.

Noi, intanto, vedette rimaste in piedi, ci guardiamo negli occhi e ci facciamo coraggio; alziamo il volume, allarghiamo il raggio delle nostre occhiate, e incrociamo gli sguardi di gente che si volta ad ascoltar la voce giovane: “Ola… Ola… Ola… Ola…”. E ancora: “Ola! Ola!”. Finalmente l’attenzione di una ventina di persone è nostra. Ci decidiamo: “Ora!”. Ci accomodiamo sui sedili. Fremiamo; ci sincronizziamo. “Vai!”, “Adesso!”, “Ora!”. Alzo la mano, il mio pugno lo starter, e le dita il ‘pronti partenza via’:  “UNO… DUE… E TREEE!”; urlando, balziamo in salto possente, slanciando corpo e braccia verso l’azzurro e l’orizzonte. Il grido appena rompe il brusio attorno.

Atterriamo, e alla nostra destra non s’è mosso nessuno, ma proprio nessuno. Noi quattro rimaniamo attoniti, colpiti da tale battuta d’arresto; con i nostri salti barbari non abbiamo smosso una scossa di spavento nemmeno tra chi ci stava accanto.

Attorno ci guardano; alcuni con le braccia larghe di chi si discolpa; altri con il sorriso beffardo di chi sta assistendo alla pagliacciata di quattro ragazzi italiani. Molti mantengono distanza e indifferenza, come con chi fa chiasso in un luogo pubblico.

“E ora?”, chiede uno di noi. Da copione, lo sappiamo. “Ancora!”, “Si, ora!”, “Ola… Ola… Ola… Ola…”. Scorre la voce, cascatella tra i gradini degli spalti, e si fa domanda e passaparola. “Ola?”, “Ola!”. Tante persone s’accorgono di ciò che sta accadendo. Si interessano, ma esitano. E noi ci riaccomodiamo più decisi che mai; e ricontiamo: “UNO… DUE… TREEEEEEE!”; e gridiamo lo scatto ai nostri vicini, nei nostri occhi l’implorazione: saltate in piedi. Si alzano pigramente una manciata di uomini e donne sparsa qua e là, in un raggio di cinque metri. Molti di quelli che restano seduti intorno a noi, cominciano a ripetere “No… Que no… Mais no… No way… Nein”; ma altri si parlano tra loro e ci fissano; e annuiscono. Noi quattro e questi trenta, c’intendiamo con uno sguardo.

Rabbiosi, ognuno di noi puntato in un diverso punto cardinale, sfidiamo i bronci e gli sbuffi di gente già annoiata di questi italiani; a gran voce cominciamo a incitare, quasi ordinare e impartire il comando: “Vamos! Allez! Come on! Dai! OLA… OLA… OLA… OLA!”. Almeno un minuto a invogliare, sollecitare ed esagitare. Tutti son seduti; ci sediamo anche noi. Quattro-voci-quattro, un-due-e-tre: “Olaaaaa!”; la mossa si fa molla veloce: i talloni s’impuntano e spingono, e sale tutto il corpo, e s’allungano le braccia alte sopra le nostre teste, sdraiate verticali per raggiungere questa metafora marina.

Atterriamo, e immediatamente le facce sono schiaffate a destra. Come se una folata di vento frustasse lo spalto, per una ventina di metri i corpi saltano, e si diramano in alto le paia di braccia; fino a quando s’estingue il soffio, e resta l’uniforme prateria di teste.

Urliamo d’emozione, come se avessimo già vinto. Siamo meno buffoni agli occhi dei vicini i cui lombi sono rimasti ben pesanti sui seggiolini. A loro non li degniamo: scambiamo i nostri sguardi con chi ci segue nei movimenti, e ci fissa; attendono che “los italianos” ripetano il conto alla rovescia, la scossa originale. Una decina di file sopra di noi delle ragazze di Chicago, con cui abbiamo già scambiato parole e sorrisi, si protendono, e generose ci credono e ci urlano: “Yes guys! Yes! Come on! Come on guys! Go on!”

E noi, ormai tremanti per l’eccitazione, le accontentiamo subito.

“Uno! Due! Tre! Olaaaa!”; e come un compatto tappo di spumante, salta in alto un piccolo boato di persone. E accade; eccola la ola: la cresta creata da braccia sopra la testa. Piccola, cavallina, corre e dura secondi lunghi come un profondo stupore; fino a quando l’indifferente marasma laggiù in curva inghiotte il moto dell’onda.

E’ stato uno spettacolo.

La gente attorno a noi è tutta in piedi, carica, aizzata da questa cosa dell’onda. Ma appena ode “Ola… Ola… Ola…”, disciplinatamente si risiede e si sistema; sintonizza sguardo e concentrazione verso i quattro italiani, gli unici a restare in piedi in quel settore. Ci ricomponiamo, ognuno verso la propria visuale cardinale: nord-sud-est. Siamo al centro dell’attenzione di un intero spalto dell’arena; la gente è sospesa, in attesa di un nostro gesto e di una mossa: le dita che scattano per il “pronti-partenza-via”. Noi ci guardiamo esterrefatti; quasi, ci spaventiamo per il teatro che abbiamo messo in piedi. Restiamo sospesi anche noi, come se per primi non sapessimo più che fare: se ridere o impaurirci, andare avanti o far finta di niente. Ma siamo lì! Non è uno scherzo! Stiamo coordinando una folla come quattro direttori d’orchestra. Giungono voci giovani, elettriche, fanatiche: ci incitano a sbrigarci, a contare, a fare questa ola. Trenta file verticali sotto di noi c’è un ragazzo che si sbraccia come un pazzo; in testa indossa la bandiera spagnola arrangiata a mo’ di copricapo saudita; al collo, un secondo vessillo giallo-rosso che gli fa da tunica: ci appare come un beduino andaluso. Urla “Ola” e “Italianos”; poi, a gesti e grida castigliane, ci fa intendere che conterà all’unisono con noi quattro. Da lì in avanti lui è Spain: farà da capopopolo in quella zona di settore, dove molta gente non ha ancora capito che se vuole vedere l’onda, deve scattare in piedi e levare le braccia al cielo come per tuffarsi in un mare capovolto.

“Spain!”, urliamo, “ahora, la ola!”. Il beduino andaluso annuisce. L’aria diventa veramente elettrica, da storia che si compie.

Alziamo le braccia per contenere e sedare l’euforico fermento. Ricominciamo a recitare la litania: “Vamos, Ola… Ora! Allez, Ola… Maintnant! Come on, Ola… Now! Dai, Ola… Ahora!”. Sotto, Spain è già con un piede sulla balaustra, e attende il destino con le braccia a evviva. Sarà l’atmosfera da casbah babilonese che si crea, o l’ossigeno catalano che respiriamo, o l’intenzione di farci meglio intendere da Spain: ma noi quattro, “los italianos”, partiamo con il conto alla rovescia in castigliano. Un braccio alto, frustato all’UN, frustato al DOS, frustato al TRES, mossa imitata da Spain e anche dalle ragazze di Chicago. Un “Un…Dos…Tres” terremoto che spacca verticalmente lo spalto. La faglia sinistra è la calma piatta. Da destra respira e si gonfia un’onda rapida che travolge chiunque sieda alla nostra destra, sull’anello superiore dell’arena. Per secondi la Ola viaggia inarrestabile, accompagnata da un clamore totale. Ma alla curva l’onda si allunga, come su battigia, e si estingue. Tutto torna a tacere, pacifico.

Troppe persone sono rimaste sedute per i fatti loro, imperterrite. Una volta ricevuta la corrente dal vicino di sinistra, balzato in piedi, l’hanno imprigionata nelle chiappe incollate al seggiolino; non alzandosi in piedi, non l’hanno condotta al vicino di destra. Hanno interrotto la Ola semplicemente rimanendo fermi, indifferenti.

Cala il silenzio nel nostro settore; sale la rabbia muta di chi non ci sta. Noi quattro osserviamo avvelenati quel tratto di stadio che s’è ingoiato il frutto del nostro lavoro; e con noi lo fissano impotenti centinaia di persone che si sono levate in piedi convinte che avrebbero visto l’onda volare per tutto il ring.

Poi la gente, come un banco di pesci che devia in sincronia, si volta verso “los italianos”. E noi non ci tiriamo indietro, sappiamo: siamo noi la scossa. Balziamo in piedi,  capocchie di spillo sullo spalto seduto. Congiungiamo le mani a megafono e urliamo “Ola” una volta sola. Alziamo il braccio con la mano a pugno. Spain ci imita e attende. Le ragazze di Chicago ci guardano e attendono; tutti attendono, mentre ci guardano devotamente. Non gridiamo nemmeno troppo forte; recitiamo “UN… DOS… TRES!” come l’attacco di un canto provato e riprovato. Lo spalto nostro si frattura violentemente di un metro e mezzo, la distanza tra le dita di mani slanciate al cielo e la testa di chi, alla sinistra, resta seduto al suo posto. Ogni persona che si leva diventa una goccia, e s’ingrossa un’onda di dimensione paurosa che sfuria lungo tutta la curva, e cieca travolta chiunque. Ola vorace vola veloce, ma fino a frantumarsi contro un frangiflutti invisibile nel tratto rettilineo.

Allora dal nostro settore, come bengala, partono bordate di fischi rivolte verso quella parte d’anello. La salva, spontanea, arrabbiata, dura almeno un minuto. Appena si cheta la folla, noi quattro ripetiamo ipnotici una conta sola: “UN… DOS… TRES”. Lo spalto nostro salta a comando, come una molla. E, simile alla precedente, sull’anello rolla un’onda maestosa che corre e s’infrange contro lo stesso invisibile scoglio. Come spruzzi e schizzi, decine di metri più avanti rispetto all’impatto tra la ola e l’idea di muraglia, si levano persone sparse lungo il primo tratto di rettilineo.

“Non è possibile!” dice uno di noi, sgomento. L’onda non va avanti laggiù; come se seduti in quei settori ci fossero manichini attraverso cui la scossa non si trasmette.

Un’ondata di fischi e di bù si eleva da tutto lo stadio; assorda e subissa. Sono interi minuti di rivolta contro quel testardo rifiuto di lasciarsi coinvolgere, e travolgere. Il piccolo mondo olimpico è furibondo per quel gruppo di uomini fermi, duri, intransigenti, che disilludono chi cerca di realizzare un sogno condiviso.

“Avranno capito?”, chiede uno di noi, mentre i fischi e i bù fustigano la muraglia di gomma. Non c’è risposta negativa che tenga: sappiamo quello che va fatto. E sappiamo che andremo fino in fondo, nonostante alcuni accanto a noi ancora proveranno a dissuaderci, a ostacolarci.

Già sa anche Spain, che matto va urlando “Vamos! Vamos Italianos!”. “Go guys! Come on!”, strillan da lassù le ragazze di Chicago.

Ci ergiamo tra gli altri, le nostre facce pagliacce serie e agoniste.

Di nuovo sotto gli occhi dello spalto tutto.

A gesti plachiamo la sibilante protesta dei più. Le nostre braccia alte sono avvisaglie di nuova scossa; così la gente lungo la faglia torna a seguirci con occhi attenti, fermi su di noi. Ma c’è chi ancora scuote la testa: calmiamo alcuni maturi vicini che sbuffano disturbati. Non credono più a noi quattro, ma alla loro esasperazione. “Come on! Ola!”, incitiamo noi.

Così, di nuovo, riversiamo la numerica parola d’ordine nello spalto.

Ormai alziamo l’onda come luna la marea. “UN… DOS… TRES…”

La ola riaffiora dalla fossa e respira alla destra. E viaggia. La fola diventa vento tra la folla; e vento spiega i corpi verso l’alto. Ancora le braccia in sù, ad acchiappare al cielo; e poi, come canne di bambù, ricascano giù.

E’ straripante, solida e uniforme. Un “OH” continuo e omogeneo assorda, la ola!

Forte onda curva.

Salta la muraglia di gomma, come se argine non esistesse.

S’alza un mugghio di mar mosso sul rettilineo, e vediamo uomini che paiono acqua.

Solca e sussulta la ola, spalto dopo spalto, pettinando il lato dello stadio. Curva parabolica, si riversa nei due anelli, allagandoli ad altissima velocità, per poi slanciarsi all’altro lato. Durevole stupore, gran sonoro di “OH!”.

Rapidissimo, il flutto assalta e avanza, pettinando tutto il secondo rettilineo. Inarrestabile. Parabolica, la ola curva, s’avvicina corale il fluido “OH” di chi scatta alto e poi, senza più respiro, spiove a sedere. In domino, uomo dopo uomo, il maremoto ritorna e arremba fino a noi.

E’ come vulcano; è come un uragano: siamo investiti da energia folle, e allegria.

Noi, “los italianos”, con Spain e le ragazze di Chicago, saltiamo dai seggiolini ed esultiamo impazziti di gioia. E con noi s’alzano matti tutti; quelli che ci hanno creduto immediatamente, e anche quelli che no, ostinatamente.

Passa alla destra la scossa, e pure l’OH urlato, con la mossa d’andare su in alto, per poi cascare seduti. E, meraviglia, corre lo sguardo a inseguir l’onda, che in moto perpetuo vortica nello stadio in tumulto.

Ola! E gira! Irrigata fiumana,

come se 40.000 fossero lì

per far da cresta all’onda umana.

Gira! E ring! Va e corre la scossa;

ognuno la fissa e a sé la chiama

fin quando tocca a lui la mossa.

Ola sonora a Barcellona,

colora i due anelli dell’arena;

festosa, travolge la flemma di re

e capi di Stato in tribuna d’onore.

Ola in un mare di persone;

Ho l’amore nel cuore.

Noi, “los italianos”, addominali diciottenni appoggiati alle balaustre, non ci sediamo. Restiamo vedette. Osserviamo la scena ammutoliti e stupefatti. Come davanti alle cascate del Niagara. Alle nostre Niagara Falls!

Eppure è difficile cogliere appieno la gioia che mi pervade; che ci pervade. La contentezza e l’emozione ci dovrebbero allargare i sorrisi, ma non accade; siamo ancora troppo eccitati per godere, per capire; siamo troppo storditi per realizzare cosa abbiamo realizzato. E l’adrenalina è torrente. E corrente è nel cuore e nella mente.

E’ così che l’immaginazione giunge al confine tra fantasia e follia.

Ma in verità ci sentiamo “toccati”; ci sentiamo “titanici”.

Non ricordo chi di noi quattro dice: “facciamola dall’altra parte”. E non ricordo una vera obiezione alla proposta d’invertire il flusso della corrente umana da destra a sinistra. Solo, “che non s’è mai vista una roba del genere”.

E allora sì, allora sì, guardandoci in faccia di nuovo complici, ridiamo: “Dai!”; “Si fa!”; “Ora!”; “Muoviamoci!”.

Appena la gente attorno, alzatasi per il passaggio dell’onda, ricasca seduta, noi quattro montiamo con un piede sulla balaustra, alla Spain. Cominciamo a sbracciarci indicando la sinistra. “Y Que?”, chiede uno spagnolo. Alla risposta, impallidisce; scuote la testa: “Estais Locos! Nunca se ha visto al mundo! Locos Italianos!”

Noi gli ridiamo in faccia annuendo; è vero, non s’è mai visto al mondo.

Accompagniamo i gesti puntando a sinistra con un’invocazione comandata al nord, al sud, e all’ovest: “OLA! OLA!”; ecco cosa urliamo come pazzi mentre indichiamo il verso da seguire, l’opposto dell’est.

In molti allora tornano a guardare noi e non più la ola, che rapida rolla salda.

La gente è apparentemente ipnotizzata, come se pronunciassimo l’abracadabra.

A Spain non gli diciamo niente. E’ lui che, siccome è un altro pazzo, intuisce e ci imita; s’alza in piedi sulla balaustra, e comincia a urlare e gesticolare tarantolato: “OLA! Vamos! A la Izquerda!”, istruisce il beduino andaluso; “OLA”, e indica verso la sinistra.

Intanto l’onda vortica; la sentiamo muggire nella curva opposta. E sappiamo che s’avvicina veloce. Ancora, puntiamo le braccia a sinistra, disperati. La gente del nostro spalto è attonita; forse la perdiamo; vediamo molti, troppi che si voltano per capire quanto disti la ola. E forse per ignorarci.

“OLA! OLA! A sinistra! To the left!”, gridiamo proprio alla gente che sta alla nostra sinistra. Molti non ci vedono nemmeno, gli occhi attenti sul cavallone in arrivo. Ma altri, tanti, gli attori che alla prima ola son rimasti tristi, seduti come mar piatto, e han visto nascer l’onda a poche braccia da loro, ci sorridono stralunati.

Buon auspicio in quel tramonto da matti.

Ecco la frastagliata cresta di corpi e di braccia avvicinarsi irrefrenabile, con il suo gioioso rantolo sonoro. Sempre più vicino, sempre più vicina, fin quando è il tuo vicino a sferrare in alto il corpo, le braccia; e gridare l’OH euforico, che da minuti riempie l’aria e l’arena olimpica.

Così sfuria anche attraverso “los quatros”.

Quando le persone alla nostra destra scattano in piedi, noi ci rivolgiamo a quelli alla nostra sinistra; si sono appena seduti, e su di loro riversiamo la nostra giovane follia.

All’unisono, a squarciar la gola, urliamo un unico e furibondo: “UN! DOS! TRES!”; e noi quattro saltiamo in alto con le braccia al cielo; e ricadendo le pieghiamo come canne di bambù, frustate nel verso contrario alla corrente che ci aveva appena travolti. E imprechiamo-imploriamo il “Dai! Ora! Ahora! OLA!”

Giovani Eoli che ruggiscono e generano vento e corrente.

Piccoli Poseidoni che giocano con un oceano di persone.

Una seconda onda riaffiora dalla fossa e respira alla sinistra, verso un ovest. E viaggia, mentre alla destra viaggia l’altra, la prima, verso un est.

Se l’originale rolla salda e sicura attraverso un mar di gente che l’attende, il duplicato stenta inizialmente, come chi fatica a far un addominale. Ma man a mano che mastica metri e spalti, la ola anomala prende a travolger uomini con la medesima furia della prima. Forse, addirittura, più procellosa, più festosa; perché è inattesa, perché è incredibile, perché non s’è mai vista al mondo una roba del genere. La marea di gente ormai la vede arrivare e si prepara stordita; già esulta.

E’ semplicemente strabiliante, vedere una e una-due “olas” insieme!

Come ali, si dispiegano per le paraboliche della curva nostra.

Onde forti curvano, e gemelle partono in competizione lungo i rettilinei; sembrano volare sull’arena davanti a noi.

Allora s’alza un doppio mugghio, uno dalla destra e l’altro dalla sinistra; e davanti a noi, come mare diviso, due muri d’uomini vengono attraversati dalle ondate. Due creste opposte di teste; e paia di braccia alte e mani al cielo, come per salutare i dirimpettai lontani un centinaio di metri.

Rapidissimi, i due flutti assaltano e avanzano, pettinando i due i rettilinei. Paiono irrefrenabili; paiono inarrestabili. Paraboliche onde curvano: una da destra, una da sinistra; si riversano nei due anelli, allagandoli ad altissima velocità.

Due piene si lanciano una verso l’altra e sono per sbattere contro.

Le due onde, come il plauso di due mani gigantesche, confluiscono l’una nell’altra; le due creste s’intrecciano come dita. Lì, lungo quell’abbraccio verticale, si raggiunge l’apice della baraonda: l’OH corale di quella linea verticale, confine delle due piene, si confonde con lo strillo di uno stadio che non crede ai propri occhi, e si chiede cosa stia per accadere. E poi…

…e poi gli spettatori si placano. Le spinte delle onde umane si sono come esaurite in quell’abbraccio.

L’arena tutta resta seduta, una tavola piatta e uniforme. E’ tornata a essere una folla di gente calma e pacifica; 40.000 persone che si guardano, perché hanno appena condiviso un momento comune, un grande evento.

Si ode un silenzio. Dura secondi che diresti lunghi, perché prima il vociare, assordante, corale; perché prima il clamore e l’ondeggiare.

E ora mare piatto, il suo calmo respirare.

Noi quattro, io Luca, Daniele e Stefano, osserviamo lo stadio di nuovo seduto, come rannicchiato ed esausto; e lo ascoltiamo, quel silenzio.

Finché la gente comincia ad applaudire, spontaneamente; applausi e grida di gioia e giubilo, perché è stato formidabile. “E’stato formidabile”, ci diciamo.

Diciotto anni e sentirsi in cima a qualcosa, lassù sul colle del Montjuic: chiamiamolo mondo.

III

Si potrà fare la Ola a Pechino 2008? Sarà concesso a quattro diciottenni di piantare un tale teatro sugli spalti dell’arena? E convincere uno stadio intero a scattare in piedi al passaggio di una corrente umana? Una corrente nuova? Che non sia lo scattare a comando ed eseguire la perfetta coreografia ordita dall’organizzazione? Già m’aspetto programmi spettacolosi, e massima efficienza a Pechino: grandi origami umani e monumentali scenografie di massa. Ma in Cina si potrà convincere uno stadio a fare qualcosa che non sia ordinato o predisposto dalle autorità? Ad esempio che s’alzi spontaneo un grido e un urlo: “Freedom! Freedom for China, now!”

Quattro o quattrocento studenti potranno urlare “Zìyòu – Freedom” dagli spalti? Magari in mondovisione? Senza nessuna conseguenza? E nessun massacro?

Sono riflessioni che mi pongo ormai da tempo; da quando ho cominciato a mal sopportare l’idea che la prossima Olimpiade abbia luogo in un Paese dove vigono rigide restrizioni civili, entro cui si è costretti a muoversi acritici e allineati.

Si, accadrà che l’onda percorra gli spalti e travolga d’entusiasmo gli spettatori olimpici. Sarà geometrica, come marina, e sarà l’evento che ormai accompagna ogni grande manifestazione sportiva. Ma la parola libertà, la frase “libertà per il popolo cinese” potrà essere pronunciata?

Nel 1992 Jang Zemin avanza pubblicamente la teoria che il Comunismo Cinese può benissimo convivere con il sistema capitalistico. Nel suo discorso ha invitato i Cinesi a perseguire la prosperità individuale, perché non è accettabile l’uguaglianza nella povertà, ma sarebbe auspicabile più ricchezza per il maggior numero di “compagni”.

Da allora Pechino, da un decennio all’avanguardia in vari settori dell’economia, si è offerta come sponda privilegiata nel nascente mercato globale. Molti osservatori hanno previsto la nascita di una nuova Cina, dove oltre alla conquista dell’intraprendenza, si sarebbe arrivati presto al rispetto dei diritti umani e civili; perchè Piazza Tienammen era solo il doloroso preludio della prossima conquista di libertà.

E gli osservatori osservano, ma forse non vogliono vedere. Tanto che nel 2000 il Comitato Olimpico Internazionale “premia” la Repubblica Popolare Cinese affidandogli l’organizzazione delle Olimpiadi 2008. La comunità internazionale applaude la scelta, auspicando un’ulteriore virata verso l’occidentalizzazione del Paese asiatico, soprattutto nella politica dei diritti civili, appunto. Questo auspicio è il leit motif da otto anni a questa parte.

Erano passati appena undici anni dalla strage del 4 Giugno 1989, quando migliaia studenti, scesi pacificamente per chiedere cambiamenti, vennero massacrati. Massacrati.

Giovani, uomini e donne, con fermezza ed estrema civiltà, rivendicavano più libertà. Le autorità invitarono i manifestanti a sciogliersi e ritornare nelle proprie case. Gli studenti, a cui ben presto si unirono i lavoratori, restarono seduti sul loro angolo di asfalto, ripetendo la stessa disperata richiesta: più libertà. Disperata, perché i giovani a Piazza Tienammen erano sconvolti, increduli di fronte alla stolida fermezza con cui le autorità invitavano a sciogliersi senza nessun tipo di concessione.

Zhao Ziyang, Segretario Generale del Partito Comunista ed ex Primo Ministro, affermò che gli studenti erano espressione dell’ala riformatrice, e che bisognava dialogare con loro, aprire un tavolo delle trattative. Le autorità, invece, rinnovarono l’invito ai manifestanti di tornare a casa, senza pronunciare una parola sul merito della protesta, se non che era illegale.

Gli studenti, e molti altri civili che si erano uniti al moto di piazza, restarono seduti sul loro angolo di asfalto, ripetendo la stessa commossa richiesta: più libertà. Dico commossa, perché conoscevano la storia di quel loro tentativo; o andava a qualche buon fine, o di tentativi non ce ne sarebbero più stati.

Passarono dei giorni, e le autorità non emisero più comunicati; fecero circondare la piazza dall’esercito.

Una colonna di carri armati avanza nell’assolata piazza fattasi deserto. Lo ricordiamo tutti, e l’immagine ci martella da quindici anni e più, perfino nelle pubblicità di orologi.

Dall’alto dell’inquadratura televisiva sembra un lungo anfibio che striscia sulla battigia. Gli studenti si stringono ai lati: sanno che i comandi militari sono capaci di tutto e del contrario di tutto: di arrotarli tutti, e poi fare marcia indietro per essere certi che non un avambraccio si levi dall’asfalto e, puntato in alto, possa ricordare un moto di protesta. Questa è la raggelante sensazione che cala dal cielo estivo di Pechino.

Un uomo che alla mattina è uscito di casa impiegato vede, capisce. Reagisce. Decide che se questo è il destino dei rivoltosi, lui sarà il primo a impastarsi sotto i cingoli. Si fa incontro alla colonna con una falcata umile, giacchetta sottobraccio e ventiquattrore nell’altra mano. L’uomo è una sbarra che blocca il rettile metallico, perché il carro alla testa inchioda. Uomo e macchina sono a due metri di distanza: si guardano per dei secondi. La macchina avanza mezzo metro e l’uomo protende in avanti il braccio magro, l’alt con l’unico mezzo che ha: il corpo. La macchina scarta a destra e sinistra; come un’immagine riflessa allo specchio, l’impiegato ne segue le mosse, senza arretrare. Fin quando il carro arriva al petto dell’uomo; allora dalla cima della macchina sbuca un l’elmetto che incornicia un volto. Un uomo in uniforme grida disperatamente all’impiegato di spostarsi, di levarsi.

L’impiegato scuote la testa, non si leva; anzi: salta su sul carro e vuole parlare con l’uomo in uniforme.

E’ il principio di una lunga e simpatetica trattativa tra studenti in rivolta e soldati comandati. Si parlano da fratelli che implorano i fratelli a non compiere nessun fratricidio. Ricordo di donne che accarezzano le guance bagnate dei soldati in lacrime, perché non vogliono uccidere; di soldati che abbracciano gli studenti, perché sono passati dalla parte dei manifestanti.

Dopo questi episodi, i comandi politici e militari della Repubblica Popolare Cinese non hanno più dubbi: macellare gli studenti, e giustiziare chiunque si rifiuti di macellare gli studenti.

Non c’è stato niente di personale nell’esecuzione della repressione; sarà metodo sommario applicato alla massa.

Mi viene in mente “colpirne uno per educarne cento”; colpirne decine di migliaia per educarne un miliardo, come effettivamente avvenne durante la “Rivoluzione Culturale” del 1967, quando liceali e matricole, armati del Libretto Rosso di Mao Zedong, roncole e pistole, seminarono morte e portarono terrore puro nella società cinese.

La repressione dell’89 viene eseguita con una velocità tale che in Piazza Tienanmen, nel giro di poche ore, rimangono solo cadaveri e colonne di fumo. Poi solo polvere e sangue.

L’eroico impiegato? Prelevato e tradotto in un tribunale, subisce il processo del popolo: noi lo sapremo dopo anni, ma a lui lo freddano, come ammesso dall’ex Presidente Jang Zemin. Stessa sorte per il graduato più alto all’interno del carro armato che guidava la colonna.

Ancora oggi intellettuali occidentali, a destra e sinistra, ci ripetono che Deng Xiao Ping fece del giusto, e non aveva altra scelta: mettere a tacere la protesta di piazza Tienanmen, per quanto orrore susciti, evitò un bagno di sangue ben più grande, se la sollevazione popolare si fosse estesa.

Alcuni sono gli stessi che hanno salutato con grande favore l’assegnazione delle Olimpiadi 2008 a Pechino.

Ancora oggi molti di loro considerano Piazza Tienanmen un fatto limitato nello spazio – la piazza appunto – e nel tempo, l’anno 1989. Non una svolta totalitaria nella politica del Paese, dove saranno cancellate anche le più deboli spinte riformiste rispetto ai diritti umani e civili.

Incarcerazioni; torture; vessazioni; processi sommari; condanne esemplari; pene spropositate; esecuzioni capitali; persecuzioni; esili. La politica è Partito Comunista e basta.

Furono esautorati da ogni potere i membri che solidarizzarono con gli studenti. Zhao Ziyang venne messo al bando dalla vita pubblica, e tenuto segregato in casa fino alla morte, avvenuta pochi mesi fa. Sedici anni di reclusione alla massima carica del Partito per aver cercato di evitare il massacro di migliaia di giovani. I vertici dello Stato hanno emesso un laconico comunicato per informare la stampa estera del decesso del vecchio esponente comunista, a funerali già celebrati in forma privata.

Nello stesso periodo quei vertici rendono noto il rilascio prima del tempo di un detenuto condannato per i fatti di piazza Tienanmen. La colpa del ragazzo: aver lanciato un uovo su un’immagine di Deng Xiao Ping e Mao Zedong.

A migliaia restano nelle galere cinesi per atti di simile gravità. A milioni sono perseguitati per reati di opinione e di pensiero.

Lo sa il mondo intero, ma non c’è  possibilità di esercitare alcuna efficace pressione; molti Paesi occidentali sono ormai compromessi finanziariamente con la Cina. Si temono ritorsioni economiche qualora vengano intavolate discussioni sulla concessioni di elementari diritti umani, civili e sociali. Ci sono accenni, mezze frasi, auspici; i famosi auspici: cadono nel vuoto come se non vi fosse traduzione nella lingua cinese.

Da anni il Presidente Usa George W. Bush, durante ogni incontro ufficiale con le autorità cinesi, esprime questo concetto: “chiediamo più rispetto dei diritti civili nella Repubblica Popolare Cinese”. Durante l’ultima visita negli Stati Uniti, il Presidente Hu Jintao ha prima voluto incontrare i vertici della Microsoft; poi si è concesso al suo omologo americano.

Con le autorità cinesi non si può parlare dell’occupazione del Tibet e del genocidio perpetrato sulla popolazione. Con i rappresentanti cinesi non si può parlare di Cristianesimo – in realtà esiste una Chiesa Cattolica di Stato: i vescovi sono nominati direttamente dalle autorità. Nessuno può accennare al riconoscimento di Taiwan nemmeno in sede ONU. I diritti umani e civili sono considerati un affare interno, estensione dei dogmi comunisti, e non condizioni di uno stato di natura.

In Cina non si può pronunciare la parola “libertà”.

Plaude poco, ora, l’Occidente, per l’entrata del Paese asiatico nel mercato globale. A causa dei prodotti cinesi, in Italia e altrove sono entrati in crisi vari settori dell’industria e del commercio. Non c’è competizione: le economie, quella cinese e quella occidentale, si reggono su due diversi sistemi: il secondo poggia su una concertazione sindacale – sebbene gli Stati Uniti lascino libertà alle singole aziende di istituire privilegi per gli operai, seguendo comunque una regolamentazione del Diritto del Lavoro che diventa legge caso dopo caso.

In Cina il sistema capitalistico è prossimo a quello della rivoluzione industriale del primo ottocento in Inghilterra. Engels e Marx basarono la loro teoria materialista osservando e studiando le condizioni degli operai nelle fabbriche e nelle città inglesi. Ecco dove si trova la Cina di oggi: proiettata verso il futuro come economia globale, con la tecnologia, il programma spaziale, la bomba atomica, e le grandi opere; indietro di secoli per quanto riguarda i diritti dei lavoratori e dei cittadini. Indietro non rispetto a noi occidentali; bensì indietro rispetto agli obiettivi dello stesso Partito Comunista, che proclama di avere a cuore nella stessa misura tutti i lavoratori e i cittadini.

Per esempio, un operaio assunto in una fabbrica non può abbandonare il posto di lavoro in catena di montaggio – nel senso che lì mangia e dorme – se non vuole perderlo. Altrimenti dovrebbe rifare la trafila per l’assunzione. Le strutture sono fatiscenti, e le condizioni sono umilianti, a detta di osservatori europei e comuni viaggiatori. A maggior ragione sono incomprensibili le politiche del lavoro di Pechino, se si tiene conto che i macchinari delle fabbriche sono il meglio che la tecnologia offre su scala mondiale. Ed è allucinante la disparità fra questi operai e i dirigenti, i professionisti e i quadri di partito. In Cina oggi esiste un proletariato sottomesso e una borghesia dominante.

La situazione nelle regioni rurali è tema di dibattito in Cina, perché è impossibile nascondere il fenomeno della corruzione. La stampa interna ha il bavaglio alla bocca, ma alcune voci talvolta riescono giungere a noi.

La corruzione dei quadri di partito è un cancro che infetta la società, con le fasce più deboli sempre più impotenti di fronte all’affermarsi di un’alta borghesia. Satrapia, nepotismo, autoritarismo sono il comune denominatore dei governi di città e province. Si conoscono casi di proteste e sommosse contro le autorità locali, puntualmente represse nel sangue. Sventagliate di mitra sulla folla; arresti; persecuzioni. Purtroppo non si sa quante rivolte effettivamente abbiano avuto luogo in questi anni in cui l’economia del Paese sta procedendo a diverse velocità: ricchezza in città e fame in provincia.

La decadenza professionale e strutturale nelle zone rurali non risparmia la sanità. E’ documentato l’episodio di pandemia di Aids ed Epatite nell’Henan. In tre anni, 700.000 nuovi sieropositivi, perché i medici hanno utilizzato aghi non sterilizzati durante prelievi di sangue con cui rimpinguare le scorte di plasma nelle grandi città, o da rivendere alle multinazionali farmaceutiche. Le autorità, a oggi, non hanno aperto nessuna inchiesta.

E’ recente la notizia che le cure ospedaliere non sono più coperte al cento per cento. Chi ha i soldi paga per cure migliori.

E si scopre che l’iscrizione di promettenti figli alle università più prestigiose è un miraggio per le famiglie meno abbienti. Le rette annuali infatti si sono quadruplicate, quintuplicate nel giro di pochi anni. C’è disparità tra figli di poveri e sfortunati, e figli di ricchi e burocrati.

I colossi telematici occidentali hanno ottenuto la concessione di operare in Cina solo a patto di non diffondere la parola “libertà” in ogni sua accezione e versione linguistica; inoltre sono “invitate” a collaborare per operazioni di polizia. Come Yahoo, che ha fornito lo scambio di posta elettronica tra Shi Tao, caporedattore di Changsha, e un suo amico. In una e-mail Shi Tao criticava le autorità per aver impedito qualsiasi celebrazione dei fatti di Piazza Tienammen – come se mai fosse stato versato del sangue nel 1989 – e di aver messo a tacere qualsiasi forma di dibattito sui mezzi di informazione. Per questo pensiero è stato condannato a dieci anni di reclusione. In Cina la Polizia telematica ha un corpo di decine di migliaia di agenti. Questo è Stato di Polizia nella forma che solo autori di Science Fiction si erano arrischiati a rappresentare.

Echelon, il grande orecchio telematico degli Stati Uniti, ascolta tutto e passa tutto al setaccio; controlla chi crede di dover controllare, ma non persegue nessuno per reati d’opinione e di pensiero. In Cina invece ogni giorno vengono censurati o chiusi siti internet, blog, pagine web, indirizzi e-mail; si finisce in carcere per una parola, per un’immagine, per un’associazione di idee.

Non esiste uno stato di diritto in cui un cittadino possa difendersi dalle accuse, se il tribunale del popolo inquisisce. Si chiede perdono al “popolo” prima di essere condannati e subire poi la pena.

In Cina le pene capitali sovrastano il numero degli altri Paesi dove si pratica questa estrema forma di giustizia. Tuttavia a Pechino i detenuti, una settimana prima dell’esecuzione, pagano visite e subiscono controlli medici, in vista dell’espianto degli organi dopo il delitto. Di fatto, il condannato è proprietà dello Stato già prima del decesso.

In Cina si viene condannati a morte per reati politici.

Ma qualcosa si muove grazie a una fondazione internazionale senza fini di lucro, la “Dui Hua”, creata dall’imprenditore americano John Kamm. La “Dui Hua”, che vuol dire “dialogo” in mandarino, svolge un’opera di mediazione tra le autorità cinesi e le imprese occidentali: procura ai primi affari vantaggiosi in cambio di detenuti politici condannati per reati minori, la cui sorte è stata presa a cuore da amministratori delegati di New York, Los Angeles e Londra.

Come si potrebbe chiamare questa pratica? Intercessione? O baratto?

Gli eredi della Lunga Marcia sono disposti a intercedere sulla vita umana in cambio di affari con i capitalisti.

Noi occidentali barattiamo vite umane con il Paese che ospiterà i Giochi Olimpici del 2008.

IV

Da qualche anno in Italia è vivo il dibattito sulla “questione cinese”; finalmente non più influenzato dall’ideologia comunista e post-comunista, o condizionato da un’analisi basata sull’anti-comunismo. Non verte più, o non solo, sulla Cina come “Sistema” da opporre a un altro “Sistema”; bensì sulla popolazione cinese riunita in una società dinamica, che si evolve.

La stessa prospettiva occidentale e italiana nei confronti della Cina è mutata, perché è cambiata la sensibilità civile e politica dopo la caduta del muro di Berlino.

Sicuramente è aumentata l’attesa per le mosse del neo-colosso mondiale; la Cina incide sul mercato internazionale e altera l’equilibrio della nostra società: si veda, ad esempio, la crisi del tessile nella Provincia di Varese.

In realtà si sta approfondendo una riflessione molto accorata sul singolo individuo, sulla sfera intoccabile di diritti inalienabili, garantiti ad ogni terrestre da strutture sovra-nazionali.

Si sta affermando una sensibilità civile universale di fronte ai grandi problemi della Terra: la fame; la povertà, la salute e le malattie – l’AIDS su tutte, non esistendo vaccino; l’inquinamento; la condizione della donna; il diritto all’istruzione; il terrorismo; la proliferazione nucleare; lo sfruttamento minorile; lo schiavismo; il rispetto dei diritti civili. L’Occidente si sta responsabilizzando, non per pagare colpe del passato, ma per seguire un progetto di sviluppo mondiale rivolto al futuro. Oggi si fanno piani con scadenza decennale. L’Occidente sente questi problemi come delle sfide da vincere su un piano civile, non già politico. Il trattato di Kyoto sulla riduzione delle emissioni inquinanti, e il Tribunale Internazionale dei Crimini di Guerra sono degli esempi.

E la Cina non rispetta i diritti umani e civili.

Oggi si conosce bene la sua tormentata eredità: collettivizzazioni costate milioni di morti per fame, rivoluzioni culturali, la tirannide di Mao, gli eccidi delle opposizioni, le purghe all’interno del Partito. Si ascoltano le storie degli operatori umanitari, dei dissidenti, degli esiliati, degli immigrati, dei viaggiatori. Alcuni media contribuiscono a svelare il quadro: con costanza forniscono informazioni, documenti e testimonianze sulle brutture della società cinese; giorno dopo giorno le notizie si intensificano. Io stesso le ho raccolte leggendo i giornali, ascoltando le voci che raccontano di questa realtà. Non le tengo per me. Non si può più tacere quando tra due anni quel Paese ospiterà la prossima edizione dei Giochi Olimpici.

Oggi, rivolgendosi al Paese asiatico, si deve discutere di libertà negate; e di diritti individuali inalienabili, riconosciuti dall’ONU, sistematicamente cancellati. Non si può parlare solo di economia e globalizzazione; o dei progressi nelle scienze, nelle tecniche, nell’edilizia, nell’educazione, nelle arti, nello spettacolo, nello sport.

Se si giudicano con favore i miglioramenti in vari campi della vita pubblica, si levano anche voci di dissenso e sdegno nei confronti delle rigide restrizioni civili in Cina. Movimenti e partiti politici, intellettuali, e settori dell’economia, lanciano appelli per sensibilizzare l’opinione pubblica di fronte al “problema” cinese.

Voglio accogliere questi appelli: mi alzo seguendo l’onda del dibattito, e rilancio quel che so, e il giudizio che ne do, per passarlo a chi mi sta vicino.

Non si può più far finta di niente: la Cina non rispetta i diritti umani e civili.

Si ascolta; si riflette; ci si indigna. Se ne parla.

La Repubblica Popolare Cinese organizza la prossima edizione dei Giochi Olimpici; è lo stesso Paese che tiene ancora chiusi in carcere i manifestanti di Piazza Tienanmen.

Io ho ascoltato, ho riflettuto, e davvero m’indigna; ma quale De Coubertin, “l’importante è partecipare”! Io mi alzo dal mio posto, non me sto seduto e tranquillo a guardare le prossime Olimpiadi. Scatto in piedi e passo la scossa che m’attraversa quando penso: le feste d’apertura e chiusura, con le competizioni in mezzo – e il preteso clima di gioia e fratellanza – si svolgeranno dove sono ancora rinchiusi i ragazzi dell’89. Dove il giornalista Shi Tao sconta 10 anni di galera per aver espresso, in privato, l’opinione che è sbagliato il silenzio sull’anniversario di Piazza Tienanmen.

Se scossa corre lungo la schiena, ci si alza dal proprio posto, e la si passa al vicino. Non importa sapere se lui s’alzerà, e urlerà, e passerà la scossa a sua volta. L’importante è sentirla, la scossa, e farsi coinvolgere

Io spero che arrivi un’onda a Pechino 2008, un’indignazione che possa mitigare le rigide restrizioni sui diritti umani e civili. Ola Cina. Hola Cina.

di Cristiano Arienti

Giugno 2006. Pubblicato sulla rivista L’Angolo. 

In copertina: Lo Stadio Olimpico “Nido d’Uccello”, a Pechino

 

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