2009-2021: il ritratto dei social media

L’espulsione dai social media del Presidente Usa, nel giorno dell’assalto al Campidoglio, rappresenta una nuova declinazione della libertà di parola in Occidente: nel 2021, esprimere il pensiero ha un prezzo che parte della società non è più disposta a pagare.

Dalla notte delle elezioni Donald Trump, con lo slogan Stop the Steal, denunciava il furto delle elezioni: incitava a “difendere” il processo democratico, non riconoscendo la vittoria di Joe Biden; appellandosi inutilmente prima ai giudici statali; poi alla Corte Suprema e ai parlamentari. Fino a convocare i suoi elettori davanti alla Casa Bianca il 6 gennaio: l’ultimo atto di un ininterrotto monologo su Twitter. Davanti a migliaia di fedeli, il Presidente ha messo pressione sul suo Vice, Mike Pence, perché al Senato ribaltasse il risultato elettorale; e loro hanno reagito facendo irruzione al Congresso. Mentre il Vice-Presidente veniva scortato via dai servizi segreti, gli elettori di Trump occupavano aule e uffici: “Impicchiamo Pence”, urlava qualcuno, con una forca eretta sul prato del Campidoglio. In un video poi rimosso da Twitter, Trump chiamava patrioti chi aveva appena sospeso la vita democratica del Paese; intimandogli di non lasciarsi andare alla violenza, ma di tornarsene a casa.

Finché era su Twitter, la “comunicazione” Trump/base elettorale non era stata intaccata dal black-out televisivo sul Presidente. Sui social media rimbalzavano le sue “verità”; si moltiplicavano interviste ai suoi legali e repubblicani a lui leali, che offrivano “ricostruzioni sulle frodi elettorali”. Su Facebook, Reddit e altre piattaforme, i suoi sostenitori si spalleggiavano nel proposito di “fermare il furto”: il compimento di una radicalizzazione online iniziata da tempo.

A Washington, in quel 6 gennaio, si annusò davvero aria di golpe; irrespirabile anche per il ritrovamento di ordigni nelle sedi del Partito Democratico e del Partito Repubblicano, piazzati da mani ignote. Il bianco Campidoglio resterà per sempre macchiato dall’assalto dei trumpisti; e il candore con cui i social media si erano presentati nella prima decade del millennio, è ormai deturpato.

Pur con dinamiche e tecnologie superate, i social diffusero la sensazione di un processo irreversibile di democratizzazione globale. Oggi quella fiducia è sovrastata dalla paura che vecchie forme di estremismo, annidate dietro alle tastiere, si siano riaffacciate.

Un fenomeno già visto, sebbene non paragonabile ai fatti del 6 gennaio, con l’ascesa dello Stato Islamico; che sui social media ha fatto proselitismo, richiamando giovani trasformati in tagliagole.

La sorte riservata a capi e seguaci dell’Isis, la cancellazione dei loro canali e account online perché pericolosi, è toccata anche al “leader del mondo libero”, e molti dei suoi sostenitori.

La fine della “nuova era”

In poco più di una decade, sono già parecchie le stagioni politiche che hanno mutato l’immagine dei social media. All’inizio era un ritratto bellissimo. Per la prima volta le persone si connettevano con amici, conoscenti e addirittura sconosciuti; non contava la distanza: in maniera immediata, si discuteva di temi triviali; ma pure di elezioni, scandali, guerre, crisi economiche. Con approfondimenti in tempo reale grazie all’accesso istantaneo ad archivi di sapere online.

Fino a quel momento “globalizzazione” veniva usato per definire un nuovo paradigma socio-economico. Con i social media si culla l’ideale di una cittadinanza planetaria: accomunata da uguali aspirazioni, come i diritti umani e civili.

Obama sedusse l’elettorato americano tanto quanto i maghrebini che seguirono online il suo discorso al Cairo nel 2009: accessibile in rete, nel video il Presidente Usa pontificava di riforme non più rimandabili nei Paesi islamici.

Un altro evento del 2009 svelò il potere dei nuovi mezzi di comunicazione: la Rivoluzione Verde in Iran. Nel maggio di quell’anno si tennero le elezioni Presidenziali: poche ore dopo la chiusura delle urne, il Ministero dell’Interno proclamò vittorioso il conservatore Mamhoud Ahmadinejad, scatenando le accuse di brogli da parte dell’opposizione.

Lo slogan di allora suona come quello trumpista: “Where is my vote – dov’è il mio voto”; urlato in manifestazioni convocate tramite Facebook e Twitter, e coperte da filmati caricati su YouTube da semplici cittadini.

Il video amatoriale dell’assassinio della giovane Neda Soltani, colpita da una pallottola durante una marcia, fece il giro del mondo su YouTube: aumentando la solidarietà per i manifestanti iraniani.

Quel sentimento che non è mai arrivato ad Ashli Babbitt, veterana di guerra ammazzata con un colpo di pistola durante l’irruzione in Campidoglio. Per molti la donna era una “terrorista domestica” che se l’è cercata. Al Campidoglio sono stati identificati esponenti dell’estrema destra: armati, muniti di walkie-talkie e manette, con piani eversivi da mettere in atto.

Immagini, quelle dell’assassinio di Babbit, subito disponibili sui nostri cellulari. Oggi siamo abituati; ma nel 2009 sembrava incredibile che gli eventi per le strade di Tehran scorressero sul computer di casa. Bastava una parola chiave su Facebook, o la categoria “politica” associata al Paese “Iran” su YouTube, e lo schermo spiattellava notizie dalle fonti più svariate.

Senza le emittenti televisive, era una dinamica inimmaginabile fino a poco prima: il rapporto con l’informazione entrava in una nuova era; una disintermediazione che – si pensava – scardinava per sempre le macchine propagandistiche dei governi.

In quell’anno si chiudeva una decade in cui la menzogna aveva screditato un’intera classe politica: con il Segretario di Stato Usa Colin Powell che nel 2003 agitò una fialetta durante un’Assemblea Onu per giustificare la guerra unilaterale in Iraq. Un falso ideologico noto agli ispettori Onu, ma che servì per convincere l’opinione pubblica che intervenire fosse questione di sicurezza planetaria.

Un conflitto attraversato da crimini di guerra svelati nel 2010 da Wikileaks, una piattaoforma digitale dove anonimi whisleblowers potevano “soffiare il fischietto” denunciando soprusi di istituzioni governative e aziende private; non più filtrati secondo il giudizio dei colossi editoriali.

Nel 2003, ad esempio, il New York Times aveva appoggiato l’invasione dell’Iraq pubblicando da “fonti di Intelligence” il pericolo di un olocausto nucleare; e il Washington Post aiutò l’Amministrazione Bush-Cheney a colpire chi tentò fino all’ultimo di evitare la guerra, come nel caso “Nigergate“.

Nel febbraio 2003, senza social media, scesero in piazza decine di milioni di persone: la più grande manifestazione di massa globale.

Numeri minori, ma imponenti, si registrarono nel 2011, dal Maghreb al Medio Oriente, durante le Rivolte Arabe; di diverso c’era l’improvvisazione, con i cittadini che attinsero coraggio tramite i social media. La repressione, virale online, obbligò i Governi occidentali a mollare alleati di lunga data.

In quel 2011, come se all’origine ci fosse la facilità di aggregazione grazie ai social media, anche in Europa e negli Usa spuntarono manifestazioni senza insegne partitiche.

Attraverso la rete sono nati movimenti che oggi siedono nei parlamenti; l’attivismo sui social ha effettivamente promosso la democrazia dal basso. Tuttavia è un fenomeno tacciato di populismo, basato su rivendicazioni, più che su progetti politici. Nei regimi illiberali, poi, è durato poco.

In Cina il web è da sempre un obiettivo della censura; con ulteriori giri di vite dal 2008, quando circolò in rete Charta ’08, manifesto politico pro-democrazia. Ancora oggi, non è possibile svolgere attività online nell’anonimato; alcune parole chiave sono proibite; la sorveglianza di massa digitale è quotidiana per tutta la popolazione.

Altre dittature, all’occasione, oscurano la rete attraverso strumenti tecnologici di filtro e censura; ricorrendo perfino al blocco temporaneo dei social media.

Mosse viste in Occidente come il tentativo di imbavagliare la libertà di parola e di assembramento, sacri nelle democrazie liberali.

La preoccupazione maggiore, infatti, riguarda la crisi dei mezzi di informazione “tradizionali”, l’insostenibilità del loro modello di business; rosicchiato da youtuber, blogger, citizen journalists; e affondato dai social media: usati per raccogliere notizie, attirano fette enormi di pubblicità.

Con il tempo, tuttavia, si è materializzato un altro problema: i vari Facebook, Twitter, Youtube, Reddit, non identificati come editori, ospitano anche notizie non verificate, manipolate, anti-scientifiche; che col tempo coagulano movimenti complottisti e anti-sistema. Oggi è la stazza del fenomeno a fare la differenza; tanto che i Governi premono sui colossi della rete per contenerlo.

Il caso 11 Settembre: la (non) censura delle tesi complottiste

Un’avvisaglia si era avuta proprio nel 2009, con la montante attenzione sull’11 Settembre, l’attentato terroristico qaedista del 2001. Testate tradizionali avevano già indagato sulle fragilità della narrativa ufficiale: come il crollo del WTC 7; e il Boeing 757 schiantatosi a volo radente nel Pentagono. In Italia Rai e Mediaset avevano dedicato speciali su spiegazioni alternative rispetto a quelle oggi definite “fattuali”. Nel 2009 fu l’accessibilità a documenti e contenuti visivi a creare una pressione enorme online; che poi si trattava di cittadini bombardati mediaticamente, nel biennio 2002-2003, perché si convincessero che l’Iraq pianificava nuovi 11 Settembre con le atomiche.

A distanza di anni, erano loro a bombardare le Istituzioni con quelle stesse immagini: pretendevano risposte a dubbi atroci. Per niente soddisfatti dal 9/11 Report del Congresso Usa, che ricostruì la storia degli attentati; o dal Rapporto del NIST (National Institute of Science and Technology) sui crolli in quasi caduta libera delle tre torri del World Trade Center.

Su YouTube, nella primavera 2009, nella categoria “politica” correlata a Stati Uniti, l’11 Settembre era stabile fra gli argomenti più discussi.

Fino a quando la casa madre Google epurò decine di video sulle varie teorie complottiste, spazzandole via dalle tendenze. Poco dopo iniziò una trasformazione della piattaforma: con algoritmi che fanno leva sulla fame consumistica; e rendendo YouTube uno spazio privilegiato per la stampa tradizionale.

Il cosiddetto Main Stream Media; che dall’11 Settembre si tiene abbastanza alla larga. Anche quando nel 2016 vennero declassificate le “28 pagine” dell’Indagine Interparlamentare sull’Intelligence pre/post 9/11 – che inchiodava pezzi del Governo saudita, alleati del clan Bush, a responsabilità sul supporto logistico e finanziario ai dirottatori.

Non c’è mai stata una vera campagna mediatica per riscrivere la storia di quella strage. Con parecchie famiglie delle vittime dell’11 Settembre che dopo vent’anni sperano ancora di vedere stabilita la verità in tribunale; ostacolate, finora, dalle Amministrazioni Bush-Cheney, Obama-Biden e Trump-Pence.

Per quella epurazione su YouTube, non si parlò di bavaglio alla libertà di parola: forse perché alcune delle teorie erano bislacche; intanto, però, la pressione “politica” via social scomparì in un battito di ciglia.

In Occidente c’è sempre stata la possibilità di avanzare tesi come la demolizione controllata dei WTC 1-2-7. Ancora nel 2014 C-Span diede spazio a Richard Gage, Presidente di “Architets & Engineers for the Truth on 9/11“.

Era sempre stato lo stigma l’arma per ridimensionare chi promuoveva accuse simili. Gage e la sua associazione, che annovera architetti e ingegneri con carriere accademiche, erano bollati come “complottisti”.

Oggi lo stigma non basta a marginalizzare posizioni lontane dalla “verità fattuale”. Le tesi di Gage sono innominabili, definite fakenews – notizie false, o manipolate ad arte; opposte a un’informazione basata sulla deontologia professionale del giornalismo e dell’accademia.

Fakenews è un termine affacciatosi nel 2016 per dare un senso all’ascesa elettorale di Trump.

Lungo i due mesi fra le elezioni e la certificazione del voto al Congresso, il termine “falsità” è stato ripetuto per scardinare le accuse del Presidente uscente; eppure non ha silenziato i sospetti, e sopito la rabbia.

Il futuro dei social media post-Trump

In seguito ai fatti del 6 gennaio, Trump ha subito un processo di impeachment per incitazione all’insurrezione, ma il Senato lo ha risparmiato. Durante le udienze, la difesa ha sottolineato come l’ex Presidente più volte usò il termine “peacefully – pacificamente” mentre invitava a protestare.

Questo non basta ad annacquare l’incendiaria retorica dell’ultima parte del suo mandato: come riassunto da NPR, dubitare della validità delle elezioni è parso una strategia. Prima e dopo del voto, Trump non ha portato prove consistenti di frode, tali da ribaltare i risultati elettorali.

Una casistica compilata dalla PBS nel 2016 evidenzia come frodi elettorali accertate siano molto rare. E’ pur vero che nel 2020 la percentuale di schede per posta annullate, pur con numeri assoluti di molto superiori, è parecchio minore rispetto a precedenti tornate. E la Corte Suprema federale si è spaccata sulla richiesta di giudicare se la Pennsylvania – uno degli Stati attaccati da Trump – avesse sbagliato o meno nel contare i voti per posta giunti ai seggi dopo la conclusione dell’election day.

La difesa di Trump, durante l’impeachment, ha ricordato che nel gennaio 2017 vari rappresentanti democratici, durante la certificazione delle elezioni, non riconobbero la vittoria di Trump, per via del Russiagate. All’epoca il Presidente eletto era già stato indicato come il manchurian candidate del Cremlino: una campagna mediatica “main stream” durata quattro anni; con toni, da parte di esponenti democratici, simili a quelli di Trump: incitando i cittadini a lottare contro un “Presidente illegittimo“.

C’è stata anche un’indagine speciale, guidata dall’ex Direttore FBI Robert Mueller, sfociata in una sostanziale assoluzione: non è stato dimostrato il complotto fra la Campagna Trump e i russi per battere Hillary Clinton nel 2016.

Nessuno ha preteso l’esclusione dai social media di chi, per anni e senza prove conclusive, ha dipinto Trump come un asset russo; ad esempio James Comey, il Direttore FBI che gli minò il mandato istruendo indagini basate sullo Steele Dossier: una raccolta di intelligence inattendibile e finanziata dalla Campagna Clinton.

Per Trump è sempre accaduto l’opposto. Addirittura prima delle elezioni, Kamala Harris, oggi Vice-Presidente degli Stati Uniti, ne aveva chiesto la sospensione dai social media.

L’effettiva espulsione di un Capo di Stato dalle piattaforme online solleva perplessità: persino la cancelliera tedesca Angela Merkel ha definito problematico il fatto che Twitter abbia chiuso l’account del Presidente Usa.

Non significa assolvere Trump da responsabilità morali e politiche rispetto ai fatti del 6 gennaio; ma evidenziare il potere di un privato di mettere il bavaglio a un leader politico in assenza di ingiunzioni giudiziarie, o di comprovate responsabilità di carattere penale; agendo in base a un codice etico interno, o su pressione dell’opinione pubblica. Un potere, in un’epoca in cui i social media sono centrali nell’informazione globale, di enorme rilevanza.

Insieme a Trump, sono stati banditi molti suoi sostenitori; la discriminante non è più la libertà di parola, ma le conseguenze che un ragionamento può avere sulla vita democratica del Paese. E questo, da oggi, potrebbe non essere più limitato a un politico con tendenze autoritarie; o movimenti di estrema destra, come il suprematismo bianco; o seguaci di Q-Anon, etichetta apparsa online all’improvviso, e che si è trasformata nel contenitore di teorie infondate o millenaristiche. Nel mirino potrebbe finire chiunque sia accusato di incitare all’odio, o diffondere disinformazione, o promuovere fakenews; o fare propaganda per Stati ostili.

In mancanza di un sistema giudiziario tempestivo, la soluzione di purgare la presenza online di chi è accusato di colpe simili sarà sempre più frequente. Anche per fattori esterni ai codici etici: come la minaccia delle multinazionali di non pubblicizzarsi più su un social media privo di filtri censori adeguati; e la paura che i Governi colpiscano le piattaforme che ospitano “fakenews” e contenuti che inciterebbero all’odio.

Rischia di diventare secondario che magari fra i purgati vi saranno movimenti legittimi, ma avversi al governante di turno; o le notizie da silenziare siano sgradite a una maggioranza di cittadini, in un sistema dove conformarsi diventerebbe consigliato.

Di solito, sono in pochi a solidarizzare con chi viene colpito da tali misure; perché promotori di idee estreme, controverse, isolate, scomode; o additati come una minaccia, un pericolo.

Non sorprende la sorte del fondatore di Wikileaks Julian Assange, da anni bersaglio di campagne di discredito. Accusato dagli Usa di aver sottratto materiale classificato a scopi di spionaggio, è da anni in carcere a Londra, in attesa di una sentenza definitiva sulla richiesta di estradizione; una persecuzione perpetrata nel disinteresse, nonostante il servizio alla collettività di Wikileaks.

Nel caso di Trump, per la maggioranza degli americani la sua espulsione a vita da Twitter è accolta con un sospiro di sollievo; poco importa che l’ex Presidente potrebbe ancora avere una rilevanza nel Partito Repubblicano. Forse è anche questo il motivo di un avvallo per tale misura: che l’esclusione di Trump da piattaforme online coincida con la sua fuoriuscita dalla vita politica del Paese.

I social media, se queste tendenze dovessero confermarsi, potrebbero migliorare il loro aspetto, oggi così deturpato: riflettere l’immagine di una società al riparo dall’odio, dall’antagonismo, dalla rabbia; e perfino dalle interpretazioni false di una verità ritenuta “fattuale”. Le piattaforme online diventerebbero un ecosistema sociale liberato dalle fakenews.

Non è però detto che in futuro rimangano, in Occidente, il ritratto di una società inclusiva, libera, democratica, aperta.

di Cristiano Arienti

Foto di copertina: Leah Millis/Reuters

Fonti e link utili

Approfondimento su TheNewStatesman rispetto alla disinformazione sui social media e la sua diffusione.

Problematiche del voto per post negli Usa dal 2000 al 2018.

Approfondimento del blog EpsylonTheory sulle restrizioni imposte da Facebook

https://eu.usatoday.com/story/entertainment/tv/2021/01/11/dc-riots-how-newsmax-oan-conservative-outlets-fueled-mob/6589298002/

Giudice in Wisconsin chiede di deferire i legali che per conto di Trump hanno mosso causa per presunte frodi elettorali durante le elezioni Presidenziali 2020.

Nota di dissenso del giudice della Corte Suprema Thomas sulla dismissione delle cause intentate da Trump riguardo ai sospetti di frode elettorale.

Glenn Greenwald sulla “censura” richiesta dal Congresso Usa alle piattaforme di social media

undicisettembre.blogspot.com: Sito che smonta teorie definite complottiste sull’11 Settembre.

https://www.reuters.com/article/us-usa-trump-lawsuit-idUSKBN2AG1WD

https://www.npr.org/2021/02/08/965342252/timeline-what-trump-told-supporters-for-months-before-they-attacked

Report della Cia del 2010 su possibili disordini nei Paesi arabi

https://www.wweek.com/news/2020/08/27/in-purge-of-extremists-facebook-removes-page-of-portland-protest-organizers/

Le tesi del giornalista Craig Unger su Trump descritto come un asset dell’Intelligence russa da oltre 40 anni.

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