Orwell: Tu e la Bomba Atomica / Riflessioni su Gandhi

Di seguito si propongono le traduzioni di due saggi di George Orwell: Tu e la Bomba Atomica e Riflessioni su Gandhi. Questo materiale è qui inteso come accompagnamento del saggio proposto su UmaniStranieri: “La traiettoria di Orwell su pacifismo, guerra ed era post-atomica“.

Tu e la Bomba Atomica

George Orwell – Titolo originale You and the Atomic BombTribune, 19 ottobre 1945

Assodato che probabilmente finiremo polverizzati entro i prossimi cinque anni, la bomba atomica non ha sollevato, come ci si sarebbe aspettato, molta discussione. I quotidiani hanno pubblicato numerosi grafici, non molto utili per l’uomo medio, di protoni e neutroni che fanno le loro cose, e c’è stata parecchia reiterazione dell’inutile affermazione che la bomba atomica “deve essere messa sotto controllo internazionale”. Curiosamente, però, almeno sulla carta stampata, poco è stato detto sulla questione più urgente per noi tutti, e precisamente: “Quanto sono difficili da fabbricare queste cose?”

Le informazioni che noi – cioè l’opinione pubblica – possediamo sulla questione, sono arrivate a noi in un modo alquanto indiretto, a proposito della decisione del Presidente Usa Truman di non consegnare certi segreti all’URSS. Qualche mese fa, quando la bomba era solo una voce di corridoio, c’era una diffusa convinzione che spaccare in due l’atomo fosse una mera questione da fisici, e che qualora ’’l’avessero risolta, una nuova e devastante arma sarebbe stata alla portata di quasi tutti. (In qualsiasi momento, così si diceva, un pazzoide qualunque, da un laboratorio, avrebbe potuto polverizzare la civilizzazione con la stessa facilità di quando s’accende un fuoco d’artificio.)

Se fosse stato vero, l’intero corso della storia si sarebbe alterato in maniera brutale. La differenza tra grandi e piccoli Paesi sarebbe stata spazzata via, e il potere dello Stato sull’individuo ne sarebbe uscito grandemente indebolito. Tuttavia, dalle precisazioni del Presidente Truman, e dai vari commenti fatti al riguardo, pare che la bomba sia enormemente costosa, e la sua produzione richieda uno sforzo industriale colossale, uno sforzo fattibile solo da tre o quattro Paesi al mondo. Questo è un punto di cruciale importanza: significherebbe che la scoperta della bomba atomica, lontana dall’invertire il corso della storia, consoliderà semplicemente le dinamiche che appaiono evidenti da una dozzina di anni.

E’ un dato di fatto che la storia della civilizzazione è in larga parte la storia delle armi. In particolare si rimarca da tempo la connessione tra la scoperta della polvere da sparo e il rovesciamento del feudalesimo da parte dei borghesi. So che potrebbero esserci delle eccezioni, ma penso che la seguente regola è da intendersi generalmente vera: le epoche in cui le armi dominanti sono costose o difficili da produrre, tenderanno ad essere le epoche del dispotismo; mentre quando l’arma dominante è poco cara e semplice, la gente comune ha una possibilità. Così, ad esempio, i carrarmati, le navi da guerra e i caccia bombardieri sono armi intrinsecamente tiranniche; mentre i fucili, i moschetti, gli archi e le bombe a mano sono armi intrinsecamente democratiche. Un’arma complessa rende il forte ancor più forte; mentre un’arma semplice – fin tanto che ad essa non esiste una contro-risposta – fornisce gli artigli ai deboli.

La grande epoca della democrazia e dell’auto-determinazione nazionale fu l’epoca del moschetto e del fucile. Dopo l’invenzione del fucile a pietra focaia, e prima dell’invenzione delle cartucce, il moschetto era un’arma piuttosto efficace, e al tempo stesso così semplice, che poteva essere prodotta quasi ovunque. La sua combinazione di qualità rese possibile il successo della Rivoluzione americana e di quella francese, e rese un’insurrezione popolare un affare più serio di quello che potrebbe essere ai giorni nostri. Dopo il moschetto arrivò il fucile a retrocarica. Questo, in comparazione, era un oggetto più complicato, ma poteva comunque essere prodotto in molti Paesi; ed era poco costoso, facile da trasportare ed economico per le munizioni. Perfino la nazione più arretrata poteva sempre procurarsi fucili da una parte o l’altra: cosicché i boeri, i bulgari, gli abissini, i marocchini – e finanche i tibetani – potevano sollevarsi in armi per la loro indipendenza, qualche volta con successo. Ma da allora ogni sviluppo nella tecnologia militare ha favorito lo Stato contro l’individuo, e la nazione industrializzata su quella arretrata. Ci sono sempre meno centri di potere. Già nel 1939 c’erano solo cinque Stati capaci di muovere guerra su vasta scala, e ora ce ne sono solo tre – essenzialmente, forse, solo due. Questa tendenza è ovvia da anni, ed è stata evidenziata da vari osservatori anche prima del 1914. La sola cosa che potrebbe ribaltarla è la scoperta di un’arma – o, per allargare il discorso, un metodo di combattimento – non legato su enormi concentrazioni di impianti industriali.

Da vari dettagli si può dedurre che i russi non possiedono ancora il segreto per costruire la bomba atomica; d’altra parte, c’è ampio consenso sul fatto che l’avranno a disposizione entro qualche anno. Quindi abbiamo davanti a noi la prospettiva di due o tre super-Stati mostruosi, ognuno dei quali in possesso di un’arma per cui milioni di persone possono essere spazzate via in pochi secondi, suddividendo tra loro il mondo. Da ciò è stato frettolosamente dato per scontato che ci saranno guerra ancor più grandi e sanguinose, e forse la reale fine della sistema della civilizzazione. Ma si supponga – e questo è davvero lo sviluppo più probabile – che le grandi nazioni rimaste facciano un tacito accordo di non usare mai la bomba atomica l’una contro l’altra. Si supponga che l’unico suo uso, o la minaccia del suo uso, sia diretto contro popolazioni che non sono in grado di vendicarsi. In quei casi sono al punto di partenza: la sola differenza è che quella potenza è concentrata addirittura in meno mani, e che la prospettiva per popoli soggiogati e classi oppresse è ancor più senza speranza.

Quando James Burnham scrisse Rivoluzione Manageriale [pubblicato nel 1941 – N.d.R.] a molti americani sembrava probabile che i tedeschi avrebbero vinto il lato europeo della guerra, e di conseguenza fosse naturale desumere che la Germania, e non la Russia, avrebbe dominato le masse del territorio euro-asiatico; mentre il Giappone sarebbe rimasto dominatore dell’Asia orientale. Questo era un errore di valutazione, ma non influisce sull’argomento principale. Perché la raffigurazione geografica del nuovo mondo si è rivelata corretta. E’ sempre più evidente che la superfice della Terra è soggetta a una suddivisione fra tre grandi imperi, ognuno di essi auto-sufficiente e tagliato fuori da contatti con il mondo esterno, e ognuno governato, sotto una maschera piuttosto che un’altra, da un’oligarchia auto-nominatasi. La trattativa su dove le frontiere vadano disegnate è ancora in  corso, e continuerà ancora per qualche anno, e il terzo dei tre super-stati – l’Asia orientale, dominata dalla Cina – è ancora in potenza, più che reale. Tuttavia, la deriva generale è inconfondibile, e ogni scoperta negli anni recenti l’ha accelerata.

Un tempo ci era stato detto che gli aeroplani avevano “abolito le frontiere”; in realtà è proprio da quando gli aeroplani sono diventati una vera arma che le frontiere sono diventate definitivamente insuperabili. Un tempo ci si aspettava che la radio potesse promuovere accordi internazionali e cooperazione; si è rivelata essere un mezzo per insonorizzare una nazione dall’altra. La bomba atomica potrebbe completare il processo togliendo alle classi e ai popoli sfruttati il potere di rivoltarsi, e al tempo stesso collocare su una base di equivalenza militare quelli che possiedono una bomba atomica. Incapaci di conquistarsi l’uno con l’altro, probabilmente continueranno a governare il mondo spartendoselo tra loro; ed è difficile vedere come l’equilibrio possa essere ribaltato, se non con lenti e imprevedibili mutamenti demografici.

Negli scorsi quaranta o cinquant’anni H.G. Wells e altri ci hanno avvertito che l’uomo corre il pericolo di autodistruggersi con le sue stesse armi, lasciando solo formiche o qualche altra specie gregaria a prendere possesso della Terra. Chiunque abbia visto le città tedesche in rovina troverà questa idea per lo meno immaginabile. Ciononostante, guardando al mondo nella sua interezza, da molte decadi la deriva non è stata verso l’anarchia, ma verso una nuova imposizione della schiavitù. Potremmo non essere diretti verso un generale collasso, ma verso un’epoca orribilmente stabile come gli imperi schiavisti dell’antichità. La teoria di James Burnham è stata molto dibattuta; ma pochi hanno davvero contemplato le sue implicazioni ideologiche: il tipo di visione del mondo, di convinzioni, e la struttura sociale che probabilmente prevarrebbero in uno Stato inconquistabile e in una condizione permanente di guerra fredda con i propri vicini.

Se la bomba atomica fosse stata a buon mercato e facile da costruire come una bicicletta o una sveglia, avrebbe anche potuto farci sprofondare nella barbarie; ma d’altra parte avrebbe anche potuto significare la fine della sovranità nazionale e dello Stato di polizia altamente centralizzato. Se, come sembra essere il caso, è un oggetto raro e costoso, difficile da costruire quanto una nave da guerra, è più probabile che metta fine alle guerre su vasta scala, al prezzo di prolungare in modo indefinito “una pace che non è una pace”.

Tribune, 19 ottobre 1945

Traduzione di Cristiano Arienti

Il fungo atomico sopra Nagasaki da Koyiagi-jima, 9 agosto 1945

Riflessioni su Gandhi

George Orwell – Titolo originale Reflections on GandhiPartisan Review – Gennaio 1949

I santi dovrebbero sempre essere giudicati colpevoli fino a prova contraria, ma i test da usare, per arrivare a un giudizio, non sono gli stessi per tutti i casi. Per quanto riguarda Gandhi, le domande da farsi sono le seguenti: in che misura Gandhi era mosso da vanità – dalla consapevolezza di se stesso come un vecchio uomo, modesto e nudo, seduto su un tappetino da preghiera, capace di scuotere gli imperi con la sola forza dello spirito – e in che misura scese a compromessi con i suoi principii entrando in politica, che per sua natura è inseparabile dalla coercizione e dall’inganno? Per dare una risposta definitiva uno dovrebbe studiarsi le azioni e gli scritti di Gandhi con minuziosità, visto che tutta la sua vita fu una sorta di pellegrinaggio in cui ogni azione era significativa. Ma questa parziale autobiografia [La Storia dei miei Esperimenti con la Verità], che arriva fino agli anni ’20, offre una solido indizio in suo favore, ancor più perché riguarda ciò che lui chiamerebbe l’irripetibile parte della sua vita; e ricorda che all’interno del santo, o quasi-santo, c’era un individuo scaltro e abile, capacissimo, se avesse voluto, di conseguire una brillante carriera da avvocato, amministratore, o forse perfino come uomo d’affari.

Mahatma Gandhi, 1930 circa

All’incirca nel periodo in cui l’autobiografia è apparsa per la prima volta, ricordo di aver letto i capitoli d’apertura sulle pagine mal-stampate di un giornale indiano. Mi fecero una buona impressione, cosa che non mi faceva, all’epoca, Gandhi medesimo. Le cose che a lui venivano associate – il pezzo di stoffa per coprirsi, “le forze dell’anima” e il vegetarianismo – non mi destavano interesse; e il suo programma medioevale non era, ovviamente, viabile in un Paese sovrappopolato, affamato e arretrato.  Era altrettanto chiaro che i britannici lo stavano usando per i propri scopi, o pensavano di usarlo. Strettamente parlando, in quanto nazionalista, Gandhi era un nemico, ma siccome in ogni crisi si intrometteva per prevenire la violenza – che, dal punto di vista britannico, significava prevenire qualsiasi azione efficace – poteva essere visto come “il nostro uomo”. In privato, cinicamente, questo veniva ammesso qualche volta. L’attitudine dei milionari indiani era simile. Gandhi si rivolgeva a loro affinché si pentissero, e naturalmente loro preferivano lui piuttosto che i socialisti e i comunisti; i quali, se ne avessero avuto l’opportunità, avrebbe sottratto a quei milionari tutto il denaro. Sull’affidabilità di questi calcoli, sul lungo periodo, ci sono parecchi dubbi; come Gandhi stesso dice, “alla fine chi inganna finisce per ingannare se stesso”; ma a ogni buon conto, la gentilezza con cui fu quasi sempre trattato era in parte dovuta alla sensazione che fosse utile. I Conservatori britannici si arrabbiarono davvero con lui solo quando, nel 1942, stava rivolgendo la sua non-violenza contro un conquistatore diverso [Il Giappone – N.d.R.].  Ma riuscivo a scorgere anche allora come gli ufficiali britannici, che parlavano di lui con un misto di divertimento e disapprovazione, arrivassero ad apprezzarlo genuinamente, e lo ammiravano in un certo qual modo. Nessuno mai lo definì un corrotto, o un ambizioso in un’accezione volgare, o suggerì che una qualunque delle sue azioni fosse messa in atto per paura o malafede. Nel giudicare un uomo come Gandhi, istintivamente, si applica un alto standard, con la conseguenza che alcune delle sue virtù passano quasi inosservate. Ad esempio, è chiaro perfino dall’autobiografia che la sua natura coraggiosa, sul piano fisico, era davvero notevole: la modalità della sua morte è una delle ultime conferme di ciò, visto che un uomo pubblico con a cuore la propria pelle avrebbe chiesto una protezione più adeguata. Di nuovo, sembra che fosse abbastanza libero dalla maniacale sospettosità che, come E. M. Forster giustamente illustra in Passaggio in India, è il difetto che piaga gli indiani, come l’ipocrisia è il vizio dei britannici. Benché fosse abbastanza accorto da individuare la disonestà, credeva, ove possibile, nella buonafede delle altre persone, e trovava in loro una miglior natura attraverso la quale avvicinarle. E sebbene provenisse da una povera famiglia della classe medio-bassa, e i suoi primi passi nella vita fossero stati senz’altro sfavorevoli, e avesse un’apparenza fisica tutt’altro che impressionante, non era afflitto dall’invidia o da un senso di inferiorità. La sensazione del colore della pelle, quando se la trovò davanti nella sua forma peggiore, in Sudafrica, sembra anzi lo avesse scioccato. Anche quando stava combattendo quella che era a tutti gli effetti una guerra sul colore della pelle, non giudicava le persone in termini razziali o di classe. Un governatore di provincia, un milionario del cotone, uno sfruttato indiano mezzo affamato, un soldato semplice britannico: per Gandhi erano tutti esseri umani in egual misura, da approcciare nella stessa maniera. E’ da notare come perfino nelle peggiori circostanze, in Sudafrica quando si rendeva impopolare da leader della comunità indiana, faceva amicizia con europei.

Scritto con la brevità delle puntate destinate al giornale, l’autobiografia non è un capolavoro, ma è molto ben riuscita perché la maggior parte del materiale offre una quotidianità. E’ bene ricordare che Gandhi partì dalle normali ambizioni di un giovane studente indiano, e adottò le sue opinioni più estreme con gradualità e, in qualche caso, un po’ contro la sua volontà. C’è stato un periodo, cosa interessante da sapere, in cui indossava un cappello borghese, prendeva lezioni di ballo, studiava francese e latino, salì sulla Torre Eiffel e provò perfino a imparare il violino. Non era uno di quei santi mossi da una incredibile pietà fin dalla tenera età, né apparteneva all’altro tipo, di quelli che si lasciano alle spalle le cose terrene dopo grandi dissolutezze. Fa una piena confessione dei suoi errori di gioventù, ma in realtà non c’è granché da confessare. Come frontespizio del libro c’è una copertina di ciò di cui aveva addosso Gandhi al momento della sua morte. Il tutto poteva costare circa 5 sterline; e i peccati di Gandhi, per lo meno i peccati della carne, avrebbero lo stesso scarso valore se ammucchiati insieme. Qualche sigaretta, pochi bocconi di bistecca, qualche moneta rubacchiata alla domestica da bambino, due visite al bordello (in entrambe le occasioni se n’è andato via “senza aver fatto niente”), una sbandata senza conseguenze per la sua padrona di casa a Plymouth, un eccesso di rabbia – e questo è quanto. Sin quasi dall’infanzia aveva una profonda onestà, un’attitudine etica piuttosto che religiosa; fino ai trent’anni, però, non aveva ancora intrapreso una direzione ben definita. Il suo primo passo in qualcosa associabile alla vita pubblica lo fece attraverso il vegetarianismo. Al di sotto delle sue qualità meno ordinarie, si percepisce sempre l’ombra dei concreti uomini d’affari della classe media quali erano i suoi antenati. Si percepisce che sebbene avesse abbandonato le ambizioni di carriera, doveva essere stato un avvocato energetico e pieno di risorse, e un pragmatico organizzatore politico, attento a tenere basse le spese, un abile responsabile di comitati e un infaticabile cacciatore di iscritti. Il suo carattere era straordinariamente vario, ma non c’era quasi niente che si poteva indicare e definire cattivo; credo che perfino i peggiori nemici di Gandhi ammetterebbero che fosse un uomo insolito e interessante, che arricchiva il mondo semplicemente vivendo. Non sono mai stato pienamente sicuro che fosse anche un uomo amabile, e che i suoi insegnamenti avessero molto da dare anche a coloro che non accettano le credenze religiose su cui tali principi sono fondati. Negli ultimi anni c’è stata la tendenza a parlare di Gandhi come se fosse stato non solo favorevole al movimento della sinistra occidentale, ma che egli ne fosse parte integrale.  Anarchici e pacifisti, in particolare, lo hanno raffigurato come uno dei loro, notando solo che lui fosse in opposizione allo Stato centralizzato, e ignorando le sue dottrine dalle tendenze irreali e disumane. Ma si dovrebbe capire, credo, che gli insegnamenti di Gandhi non possono essere conformati con il principio che l’Uomo è la misura di tutte le cose, e che il nostro lavoro è rendere la vita degna di essere vissuta su questa Terra, che è la sola Terra che abbiamo. I suoi insegnamenti acquistano un senso solo con il presupposto che Dio esiste, e che il mondo degli oggetti solidi è un’illusione da cui fuggire. E’ utile ricordare la disciplina che Gandhi si autoimponeva e che – sebbene non insistesse affinché ognuno dei suoi discepoli la osservasse al dettaglio – lui considerava indispensabile se uno voleva servire Dio o l’umanità. Prima di tutto, non si deve mangiare carne e, se possibile, nessun cibo animale in qualunque sua forma. (Gandhi medesimo, per la sua salute, dovette scendere a compromessi sul latte, ma pare che lo considerasse un cedimento). Niente alcolici né tabacco, nessuna spezia o condimento, perfino di tipo vegetale, visto che si dovrebbe ingerire cibo non per il suo gusto ma solo per mantenersi in forze. Secondo: se possibile, nessun intercorso sessuale. Se proprio ci devono essere rapporti sessuali, questi dovrebbero avere il solo scopo di concepire bambini, e presumibilmente inframezzarli con lunghi intervalli. Gandhi stesso, sui trentacinque anni, fece voto di Brahmacharya, che significa non solo completa castità ma eliminazione del desiderio sessuale. Questa condizione, pare, è difficile da rispettare senza una specifica dieta e frequenti digiuni. Uno dei pericoli del bere latte è la sua qualità di aumentare il desiderio sessuale. E infine – questo è un punto cruciale – per colui che persegue la bontà non ci deve essere nessuna amicizia stretta, e nessuna relazione amorosa esclusiva di qualunque tipo.      

Le amicizie strette, dice Gandhi, sono pericolose perché “gli amici reagiscono l’uno per l’altro”; e a causa della lealtà all’amico, uno può essere indotto a fare cose sbagliate. Questo è senza ombra di dubbio vero. In più, se uno deve amare Dio, o amare l’umanità nella sua interezza, non può dare la propria preferenza a nessun individuo in particolare. Questo è altrettanto vero, e marca il punto dove l’approccio umanistico e quello religioso non sono più conciliabili. Per un normale essere umano, l’amore non significa nulla se non significa amare qualcuno più di altri. L’autobiografia non dissolve il dubbio se Gandhi avesse condotte sconsiderate nei confronti della moglie e dei figli; a ogni buon conto, chiarisce che in tre occasioni era disposto a lasciare morire sua moglie o un figlio piuttosto che amministrare il cibo animale prescritto dal dottore. E’ vero che il pericolo di morte non occorse mai, e pure che Gandhi – con una buona dose di pressione morale a percorrere la via opposta, come emerge da prove documentali – diede sempre al paziente la scelta di rimanere vivo al prezzo di commettere un peccato: eppure, se la decisione fosse dipesa solo da lui, avrebbe proibito il cibo animale, qualunque fosse il rischio. Ci deve essere, diceva, un qualche limite a quello che possiamo fare al fine di rimanere in vita, e il limite e ben al di qua del brodo di pollo. Questa attitudine è forse nobile: ma è, nel vero senso che – penso – la maggior parte delle persone dà alla parola, disumana. L’essenza dell’essere umano non è cercare la perfezione; uno ha qualche volta l’intenzione di commettere peccati in nome della lealtà; uno non si spinge nell’ascetismo fino al punto da rendere i rapporti di amicizia impossibili; uno alla fine è preparato ad essere sconfitto a distrutto dalla vita, la qual cosa è il prezzo inevitabile di mettere l’amore per un’altra persona al di sopra degli altri individui umani. Non c’è dubbio che l’alcol, il tabacco e così via sono cose che un santo deve evitare, ma la santità è altrettanto qualcosa che gli esseri umani devono evitare. C’è un modo scontato di ribattere a questo, ma si dovrebbe fare attenzione nel provarci. In questa epoca tormentata dallo yogi, si fa presto a dire che il non-attaccamento alla vita terrena non solo è migliore di una sua piena accettazione, ma che l’uomo ordinario rigetta questa pratica solo perché è troppo dura: in altre parole, si vuol dire che l’essere umano medio è un santo fallito. E’ dubbio che questo sia vero. Molta gente davvero non aspira a diventare santa, ed è probabile che qualcuno che abbia raggiunto la santità, o l’abbia aspirata, non abbia mai provato molta tentazione nella dimensione dell’essere umano. Se si potesse seguire il percorso fino alla sua radice psicologica, si troverebbe, credo, che il principale motivo per il “distacco” è il desiderio di sfuggire al dolore di vivere; e soprattutto, sfuggire all’amore, il quale, sessuale o non sessuale, dà un gran daffare. Ma non è necessario qui dibattere se sia più alto l’ideale ultraterreno o quello umanista. Il punto è che sono incompatibili. Uno deve decidere tra Dio e l’Uomo, e tutti i radicali e i progressisti, dal più moderato liberale fino all’anarchico estremista, hanno di fatto scelto l’Uomo. Tuttavia, il pacifismo di Gandhi può essere separato in una certa misura dagli altri suoi insegnamenti. La motivazione era religiosa, ma aveva anche dichiarato che si trattava pure di una tecnica definitiva, un metodo, capace di produrre i desiderati risultati politici. L’approccio di Gandhi non era quello di un pacifista occidentale. Satyagraha, elaborato per la prima volta in Sudafrica, era una specie di guerra non-violenta, un modo di sconfiggere i nemici senza fargli del male, senza essere mossi dall’odio o senza generare odio. Implicava cose tipo la disobbedienza civile, gli scioperi, sdraiarsi davanti ai binari dei treni, sopportare le cariche della polizia senza scappare via e senza contrattaccare, e altre cose del genere. Gandhi obiettava all’espressione “resistenza passiva” come traduzione del termine Satyagraha: in lingua gujarati pare che il termine significhi “fermezza nella verità”. In giovane età Gandhi servì come portantino nella guerra anglo-boera, per i britannici; ed era pronto a fare lo stesso nella guerra del 1914-1918. Anche dopo aver abiurato totalmente la violenza era abbastanza onesto da capire che in guerra, di solito, è necessario propendere per una parte. Non fece sua – chiaramente, visto che la sua intera vita politica era centrata intorno alla lotta per l’indipendenza nazionale – la sterile e disonesta linea di pensiero secondo cui in ogni guerra entrambi i lati sono la stessa esatta cosa, e non fa differenza chi vince. E la sua specialità, al contrario della maggior parte dei pacifisti occidentali, non era rifuggire dalle domande scomode. In rapporto all’ultima guerra, una domanda a cui ogni pacifista aveva il chiaro obbligo di rispondere era: “Che cosa ne sarà degli ebrei? Sei pronto ad assistere al loro sterminio? Se non lo sei, che cosa proponi per salvarli senza ricorrere alla guerra?”. Devo dire che non ho mai sentito, da nessun pacifista occidentale, una risposta onesta a questa domanda, sebbene abbia ascoltato un sacco di ribattute evasive, del tipo “ma parli proprio te”. In realtà è successo che a Gandhi venisse fatta una domanda simile nel 1938 e che la sua risposta è agli atti nel libro di Louis Fischer Gandhi e Stalin. Secondo Fischer la visione di Gandhi era che gli ebrei tedeschi avrebbero dovuto commettere un suicidio collettivo; la qual cosa “avrebbe sollevato il mondo e il popolo tedesco contro la violenza di Hitler”. Alla fine della guerra si giustificò così: gli ebrei sono stati comunque ammazzati, quindi avrebbero potuto morire anche in modo significativo. Si ha l’impressione che questo atteggiamento sbalordì perfino un sincero ammiratore come Fischer, ma Gandhi era se stesso nella sua onestà. Se non si è preparati a uccidere, spesso si deve essere pronti a perdere delle vite in un modo o nell’altro. Quando, nel 1942, spronò alla resistenza non-violenta contro un’invasione giapponese, era pronto ad ammettere che questo avrebbe potuto costare la vita a molti milioni di indiani. Al tempo stesso c’è ragione di ritenere che Gandhi, dopotutto nato nel 1869, non capisse la natura del totalitarismo, e vedesse ogni cosa nei termini della sua lotta contro il Governo britannico. Il punto importante non è tanto che i britannici lo trattassero con pazienza, quanto il fatto che fosse sempre in grado di suscitare attenzione. Come può essere desunto dalla frase sopra citata, credeva nell’idea di “mobilitare il mondo”, il che è possibile solo se il mondo ha la possibilità di conoscere quello che stai facendo. E’ difficile immaginare come i metodi di Gandhi potrebbero essere applicati in un Paese dove gli oppositori di un regime spariscono nel mezzo della notte e di loro non se ne sa più niente. Senza una stampa libera e il diritto di radunarsi, è impossibile non tanto il semplice appello all’opinione pubblica estera, ma dare vita a un movimento di massa, o perfino rendere note le tue intenzioni all’avversario. C’è un Gandhi in Russia al momento? E anche ci fosse, che cosa sta ottenendo? Le masse russe potrebbero praticare la disobbedienza civile se la stessa idea occorresse a tutti simultaneamente; e anche così, a giudicare dalla vicenda della carestia in Ucraina, non farebbe differenza. Ma ammettiamo che la resistenza non-violenta può davvero essere efficace contro il proprio Governo, o contro una forza occupante: anche così, come si può metterla in pratica a livello internazionale? Le diverse e conflittuali dichiarazioni di Gandhi sull’ultima guerra sembrano mostrare che ne comprendesse le complicazioni. Applicato alla politica estera il pacifismo smette di essere pacifismo, o diventa appeasement, cioè un accordo al prezzo di gravi concessioni. In più il presupposto – che aiutò Gandhi così tanto nel trattare con gli individui – che tutti gli esseri umani siano più o meno approcciabili e reagiscano a gesti generosi, deve essere seriamente messo in discussione. Non è necessariamente vero, ad esempio, quando stai trattando con dei folli. Allora la domanda diventa: chi è sano? era sano Hitler? E allora non è possibile che una cultura sia insana nella sua interezza per gli standard di un’altra cultura? E, per quanto sia possibile misurare i sentimenti di intere nazioni, c’è un qualche apparente legame tra un atto generoso e una risposta amichevole? E’ un fattore la gratitudine, nella politica internazionale?

Queste sono domande concatenate che richiedono un dibattito, con urgenza, nei pochi anni che ci restano prima che qualcuno prema il bottone e comincino a volare razzi. Appare dubbioso che la civilizzazione possa sopportare un’altra guerra su vasta scala, ed è almeno immaginabile che la via d’uscita risieda nella non-violenza. Per la sua virtù Gandhi avrebbe preso in sincera considerazione la questione appena sollevata; e di certo, probabilmente ha discusso molti di questi temi da una parte o l’altra nei suoi innumerevoli articoli di giornale. Di lui uno pensa che ci fosse molto di cui non capisse; ma non che ci fosse qualcosa per cui avesse timore di parlare o di farsi un’idea. Non sono mai stato capace di farmi piacere Gandhi; ma non posso dire che lui, come filosofo politico, avesse torto in generale, né credo che la sua vita sia stata un fallimento. E’ singolare che quando venne assassinato, molti dei suoi più sinceri ammiratori esclamarono con pena che aveva vissuto abbastanza per vedere l’opera della sua vita andare in rovina: l’India era impegnata in quella guerra civile sempre prevista come un sotto-prodotto del trasferimento di potere [dalla Gran Bretagna – N.d.R.]. Gandhi, però, non aveva passato la vita ad appianare la rivalità tra Hindu e Musulmani. Il suo principale obiettivo politico, la fine pacifica della dominazione britannica, dopotutto era stato raggiunto. Come al solito i fatti rilevanti si sovrappongono. Da una parte, i britannici se ne sono andati dall’India senza combattere, un evento che pochi osservatori avrebbero previsto fino a un anno prima del suo accadimento. Dall’altra, questo è avvenuto durante un Governo laburista, ed è certo che un Governo conservatore, specialmente se guidato da Churchill, avrebbe agito in modo differente. Tuttavia, se alla fine del 1945 in Gran Bretagna era cresciuto un largo consenso nell’opinione pubblica favorevole all’indipendenza dell’India, quanto ciò era dovuto all’ascendente personale di Gandhi? E se, come pare accadrà, India e Gran Bretagna si assesteranno in una relazione decente e amichevole, sarà questo ascrivibile a Gandhi perché, nel mantenere viva la sua lotta con ostinazione e senza odio, ha disinfettato l’atmosfera politica? Che uno possa perfino suggerire queste domande, dà un’idea della statura Gandhi. Uno può sentire, come me, una sorta di disgusto estetico per Gamdhi; uno potrebbe rigettare i proclami di santità fatti a suo nome (lui stesso, a dirla tutta, non fece mai simili proclami); uno può anche rigettare la santità come ideale e perciò concepire gli obiettivi base di Gandhi come anti-umani e reazionari: ma preso semplicemente come un politico, e messo a confronto con altri leader politici della nostra epoca, che aria pulita è riuscito a lasciarsi alle spalle!

Partisan Review – Gennaio 1949

Traduzioni di Cristiano Arienti

Saggi ripresi da www.orwellfoundation.com

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