Umani, ma stranieri

Milano, 2014 – Attraversavo la Piazza Cadorna delle 8 di sera, nell’ora in cui gli ultimi pendolari corrono per afferrare un treno, o i milanesi si avviano verso locali e teatri; lo notai perché le persone davanti a me scartavano di lato con ampi passi. Si piazzava davanti alla gente, voleva un’informazione; ma nessuno, vuoi per la fretta milanese, o il timore di un grattacapo da accollarsi, era disposto a dargli un secondo d’ascolto. Io stavo camminando da turista, nella mia quotidiana passeggiata, scaldato dal tramonto settembrino; la destinazione, una pizzeria di Porta Venezia, la zona che amo di più di Milano. Non dovevo correre da nessuna parte, e non avevo nessun appuntamento. Solo, la voglia di godermi la luce della città in una serata tiepida e azzurra.

Mi si parò di fronte, inevitabile. Era alto, magro, capelli crespi e scuro di pelle; avrà avuto una trentina d’anni, forse meno. Indossava un maglione scolorito, sotto un giubbone foderato in pelliccia che gli arrivava fino alle ginocchia; ai piedi aveva scarpe pesanti. Con l’aria fresca e gradevole di quell’inizio d’autunno, il suo abbigliamento era decisamente fuori stagione: sembrava vestito per andare in montagna; almeno, teneva il giubbone slacciato. Forse portava jeans, o i pantaloni di una spessa tuta, non lo ricordo bene: ma rammento la generale impressione di trasandato e di impolverato. Quando mi bloccò, agitandomi davanti un polso secco e una mano con ossa grosse, lo misurai da capo a piedi, e pensai subito: quest’uomo ha passato la notte scorsa all’addiaccio. Eppure, con sé, non aveva sacche o borsoni come altri profughi che s’incontravano sparsi nella grande città. Mi diceva qualcosa con una voce roca, e nei suoi occhi neri e traballanti scorgevo stanchezza. Alla bocca, e sull’alta fronte, aveva grinze di una qualche specie di sofferenza, che forse era fame, o disorientamento.

“Dove devo andare per Porta Venezia?”, mi domandò nell’inglese profondo e gutturale tipico degli africani.

Allora mi fermai e, indicandogli il passaggio per i sotterranei della Stazione Cadorna, gli dissi che là c’era la Metropolitana, e doveva prendere la “linea rossa” direzione Sesto.

Lui si voltò verso la piazza con il pennacchio “ago e filo”, l’omaggio di Gae Aulenti a Milano; non sono certo che vide la scalinata da dove uscivano ed entravano persone in continuazione.

Poi mi disse: “A piedi. Come si fa ad arrivare a Porta Venezia a piedi.”

Pensai che quell’uomo non avesse in tasca nemmeno un soldo. Stavo per dirgli: se vuoi, ti pago la corsa in metro, e magari un panino. Poi ragionai: doveva essere appena arrivato in treno da chissà dove; magari era privo di documenti regolari, e voleva evitare controlli da parte dell’autorità, fosse anche il bigliettaio di un mezzo pubblico. Evidentemente, a Porta Venezia doveva avere un aggancio, qualcuno che lo ospitasse in città per qualche giorno. In quella zona, la comunità africana era molto attiva nell’accogliere rifugiati o migranti, soprattutto eritrei e somali. In molti s’accampavano sotto la massicciata del tram di Viale Vittorio Veneto, e di giorno bivaccavano intorno alla chiesetta di San Carlo al Lazzaretto, in attesa del passaggio giusto per l’estero, o del documento necessario per il permesso di soggiorno.

 

Lui voleva andare proprio là, dove mi stavo dirigendo io. Mi presi qualche istante ancora, cercando di assicurarmi al 100% che, per lo meno, non fosse alterato dall’alcol, e non presentasse segni di squilibrio. All’opposto, mi diede l’idea di una persona dai modi gentili. Mi guardava con quei suoi occhi neri e traballanti: non potevo mollarlo lì. Sebbene non avessi voglia di decifrare il patimento scrittogli addosso, e fossi uscito per una passeggiata, non potevo sottrarmi a un gesto minimo di ospitalità; in fondo, non mi costava niente.

“Senti, gli dissi in inglese, io sto andando proprio a Porta Venezia a piedi; se mi segui, ci arrivi fra una mezz’ora al massimo.”

L’uomo, scrutandomi dall’alto della sua statura, annuì.

Mi incamminai mantenendo un passo meno turistico, più spedito. Lui, mani nei tasconi del giubbone, spalle all’indietro e pomo d’Adamo sporgente, prese a seguirmi; si impegnò ad aggiustare le sue falcate alle mie, ben più brevi.

Mentre macinavamo l’asfalto davanti al Castello Sforzesco, restammo in silenzio. Dagli sguardi di chi ci incrociava, mi resi conto che la mia iniziale impressione era corretta: l’uomo era abbastanza malmesso. Osservandolo di sbieco in quei primi cinquecento metri, realizzai che probabilmente non si lavava da parecchie ore; non sapevo, o non volevo, quantificarle. E noi due, l’uno accanto all’altro, dovevano sembrare una strana accoppiata, nella Milano dove l’apparenza conta eccome.

Alla fine, visto che di strada ce n’era molta da fare, e procedevamo appaiati, decisi che non potevamo più ignorarci.

Gli rivolsi la parola esordendo con la più classica delle domande: “Where are you from?”

Sorrise debolmente. Avanzando le sue lunghe leve un po’ robotiche, cominciò a parlare senza troppo entusiasmo.

Veniva dal Sudan. E più precisamente dal Sud-Sudan. Era scappato dalla guerra, esplosa di nuovo alla fine del 2013. Era risalito a nord, lungo la rotta desertica; s’era imbarcato dalla Libia in estate, nella speranza di ottenere lo status di rifugiato di guerra in Europa. Da come ne parlava, la sua domanda doveva essere ancora in sospeso; oppure non l’aveva ancora avanzata, programmando di fare richiesta d’asilo in qualche altro Paese, come Francia o Germania. Quando provavo ad approfondire la faccenda, rimaneva sul vago. O non si fidava di me, o lui per primo non aveva ben chiaro il suo status legale in Italia.

Mi raccontava che lui non ci credeva più nella pace in Sud-Sudan, perché si era combattuto per tanti anni, ed evidentemente la guerra era nell’interesse di troppi. Ma non escludeva di rientrare in Africa, una volta che si fossero messe a tacere le armi; anzi, sperava di poterci ritornare presto, al suo Paese.

Non mi sembrava avesse le idee chiare. Ma come potevo giudicarlo? Non essendo mai stato un profugo di guerra, non ho la più pallida idea di cosa significhi ripararsi dalle bombe, o scappare da milizie sanguinarie; o essere costretto a lasciare la mia terra, e intraprendere un viaggio della speranza in luoghi lontani, con climi diversi e gente ostile.

Quando arrivammo in Piazza Duomo, gli mostrai la Cattedrale come si fa con un normale turista, esibendo una punta d’orgoglio.

L’uomo, a cui non avevo chiesto il nome, né lui si era interessato del mio, rimase immobile davanti al massiccio marmo grigio e rosa, e le irte guglie e i rosoni. Lo stava ammirando, il Duomo, ma senza troppo stupore, come se quell’architettura non avesse un gran valore.

Non era molto loquace: mi chiese appena del mio lavoro, e se fossi nato a Milano. Gli spiegai che di mestiere facevo l’insegnante di lingua e il traduttore. Gli parlai di Gallarate, la mia città d’origine, e gli raccontai delle fabbriche e del Lago Maggiore. Per la gran parte del tempo, durante il nostro cammino, non pareva così aperto al dialogo. Veniva da un villaggio di cui persi quasi subito il nome; non ricordo che avesse accennato a un lavoro in Sud-Sudan.

La sera si faceva scura, intanto; il cielo, da azzurro, si tingeva di viola e blu. Affrettammo il passo, sfilando tra le colonne di pedoni che ingolfavano San Babila e Corso Venezia.

In prossimità dei bastioni, giganti molari in mezzo allo slargo, allungai un braccio: ecco, siamo arrivati. Lui non disse nulla di rilevante; mi ringraziò e basta.

Attraversammo il viale con la luce verde dei semafori, e ci fermammo in Piazza Oberdan, al principio di Corso Buenos Aires. Io volevo salutarlo, ma lui sembrava ancora spaesato: l’uomo, sempre con le mani in tasca, e quegli occhi neri e tremolanti, si guardava intorno come doveva aver fatto una mezz’oretta prima in Cadorna.

A me pareva che non avesse un luogo preciso dove andare, né una persona da incontrare.

“Qui ci sono molti locali africani”, dissi, indicandogli via Tadino. Lui annuiva, ma restava immobile davanti a me, senza congedarsi, né spiegarmi cosa intendesse fare.

Gli chiesi se avesse fame, e mi rispose di no. Allora gli offrii un caffé, e quello lo accettò.

Girammo l’angolo, e dopo una cinquantina di metri entrammo in un bar gestito da eritrei. C’era qualche cliente dentro, tutte persone di origine africana. La sala era semi-buia, e le bottiglie dei liquori raddoppiavano il loro brillio sulle specchiere alle pareti. In sottofondo, ondeggiava una canzone di Bob Marley. Appena varcata la soglia, mi sentii sotto osservazione, ma non perché fossi l’unico bianco; notai che tutti esaminavano l’uomo entrato con me: alto, magro, con le mani nelle tasche del suo giubbone impellicciato, e l’aspetto trasandato e impolverato.

Ordinai due caffè a un barista sui 30 anni, con indosso una camicia con le maniche arrotolate. Non mi degnava di attenzione: fissava l’uomo accanto a me con inquietudine. Dopo qualche istante, appoggiò le mani al bancone, e con l’espressione seria, disse in inglese: “Il bar dove vanno i sudanesi è più avanti.”

Alla cassa, una giovane donna lanciava occhiate preoccupate, come se fosse entrato il classico pianta-grane. Nemmeno lei aveva fatto la minima mossa a preparare i caffè.

La scena mi parve surreale, la discriminazione etnica fra africani in un bar di Milano. E poi, non c’era nulla che potesse giustificare quei giudizi incriminanti; se non l’idea di trovarsi davanti a una persona che sì, era un profugo, e forse era in difficoltà: ma fino a prova contraria non aveva fatto nulla di male, ed era di modi gentili.

Ordinai i caffè una seconda volta, mettendo sul bancone una banconota. Il barista fece una smorfia; come se mi stesse facendo un favore, si girò e cominciò ad armeggiare con il dosatore della macchinetta e le tazzine.

Mentre attendevamo, l’uomo parlò ai baristi, ma non ricevette risposte articolate: solo monosillabi. I pochi clienti parlottavano fra loro, e riservavano all’uomo occhiate miserabili.

Di fronte all’astio plateale delle persone nel bar, arrivai anche a pensare che forse, di quell’uomo accanto a me, mi fosse sfuggito qualcosa.

Dopo qualche minuto uscimmo dal bar. Io m’incamminai verso Corso Buenos Aires. Lui mi seguì. Andai oltre la pizzeria dove ero originariamente diretto.

“Adesso ti offro una coca-cola da bere”, mi disse appaiandosi di nuovo.

Lo guardavo senza sapere bene come comportarmi, senza capire cosa volesse, a quel punto, da me.

Stavo contemplando l’ipotesi, con molteplici riserve, – e forse non l’avrei mai fatto – di ospitarlo a casa mia, se solo avesse ammesso di non avere una destinazione certa.

“Ma sei sicuro che ce l’hai un posto dove passare la notte?”

Lui annuiva. “Sì, una persona che vive in questa zona”.

Declinai l’invito a infilarmi in un altro bar. Non gli chiesi di nuovo se avesse fame: aveva i soldi per offrirmi da bere, quindi ce li aveva anche per comprarsi un panino.

“Ora devo andare a casa”, gli dissi, incamminandomi verso Piazzale Oberdan. Mi seguì ancora, insistendo di proseguire con lui la serata.

Ecco, quello di cui aveva bisogno: compagnia. Eppure non avevamo parlato un granché, in quell’oretta scarsa condivisa; né percepivo una particolare sintonia tra noi. Di certo non si era instaurata quella confidenza che a volte sboccia naturale fra sconosciuti.

Forse era una mia sub-cosciente paura. Forse era stata la sua iniziale chiusura. O forse, semplicemente, bisognava registrare la diversità fra noi, e accettarla così com’era.

Quando me lo ripeté di nuovo, se volessi bere qualcosa con lui, mi fermai: “Non posso, ora devo andare”. Mi scrutava: non capiva perché avessi fatto la strada fino a Porta Venezia, per poi tornarmene subito a casa. E tuttavia non sembrava offeso per il mio rifiuto di continuare la serata con lui.

Glielo domandai di nuovo: “Ce l’hai un posto dove passare la notte?”

Sembrava sorpreso per l’insistenza con cui gli ponevo quella domanda, mettendo in dubbio le sue assicurazioni.

“Sì, ce l’ho un posto dove andare”. Tirò fuori di tasca un biglietto con un indirizzo.

Diedi per scontato che non sapesse da che parte girarsi per raggiungere quel domicilio. Controllai sulla mappa del cellulare la via segnalata, e poi gli indicai Viale Piave. “Devi andare da quella parte.”

Annuì. Ci stringemmo la mano, la sua un po’ appiccicosa.

Lo vidi incamminarsi verso Viale Piave con passo un po’ esitante, nella sera ormai fattasi buia. Alto e magro, ingrossato dal giubbone impellicciato, fendeva la gente con le sue falcate lente e robotiche. Diretto verso un’altra tappa del viaggio iniziato nel Sud-Sudan mesi prima.

Mi tuffai giù per gli scalini della Metropolitana, con destinazione la cucina di casa mia. Erano quasi le 9 di sera, e avevo fame. Davanti a quel profugo, in una città che d’improvviso sentivo straniera, avevo tentato di essere umano.

di Cristiano Arienti

In copertina: Milano dalla Torre Velasca

 

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