Fonti energetiche: il tema è sempre caldo

 

E’ frustrante per dei pompieri cercare di spegnere l’incendio di un bosco sapendo che i piromani sono davanti a loro, hanno mani libere e nessuno riesce a fermarli. Ecco come si presentano gli Stati Uniti d’America e altri grandi di fronte a una comunità internazionale che si sta impegnando per arrestare il fenomeno del global warming; ma non per questo la quasi totalità dei governi del mondo recede dall’obiettivo di salvaguardare la salute della Terra e l’incolumità dei suoi abitanti. A dicembre 2011, in occasione dell’annuale Conferenza sui cambiamenti climatici (Unfccc) la maggior parte degli Stati ha firmato un documento fondamentale per il pianeta: c’è l’intesa per portare avanti le linee guida del protocollo Kyoto 1997, ormai in scadenza, e implementarle,  poiché i cambiamenti climatici scatenati dal global warming stanno avvenendo a una velocità imprevista. Una commissione di esperti è stata incaricata di presentare entro il 2015 un piano per ridurre l’immissione artificiale di CO2 nell’atmosfera; i Paesi sottoscrittori di questa piattaforma programmatica si confronteranno su quel piano, il quale poi dovrebbe entrare in vigore dal 2020. Le linee guida sono: ridurre il più possibile lo sfruttamento delle fonti energetiche che bruciano idrocarburi (petrolio), carbone e gas naturale, e fare il prima possibile.  L’intesa viene considerata un successo perchè ha coinvolto l’India e soprattutto la Cina, il Paese che, con la sua crescita abnorme e la richiesta sempre più massiccia di energia, è il maggiore inquinatore del mondo. Purtroppo anche quest’anno siamo qui a discutere l’assenza degli Stati Uniti d’America; l’altro grande inquinatore planetario si è negato a qualsiasi adesione internazionale per la lotta al global warming. Washington, insieme a Paesi come Russia, Giappone e Canada, è il piromane che continua imperterrito ad attizzare quel fuoco che si sta cercando di contenere. Questo nonostante l’inquilino della Casa Bianca abbia più volte manifestato consapevolezza del problema.

“Non volterò le spalle alla promessa delle energie rinnovabili”. Sono parole di Barack Obama, pronunciate lo scorso 24 gennaio durante l’annuale discorso sullo stato dell’Unione. Parrebbero incoraggianti: il Parlamento americano in seduta plenaria le ha accolte con un caloroso applauso. In realtà stridono con l’urgenza di trovare un limite all’emissione di CO2 nell’atmosfera terrestre. A parte che è stato lo stesso Congresso americano a bloccare la Legge Obama sulla riduzione dell’emissione di CO2, quando all’epoca era a maggioranza democratica, nemmeno repubblicana. Poi quel “non volterò le spalle” sta a dire che gli Stati Uniti sono ancora troppo legati alle fonti energetiche tradizionali: basti dire che nello stesso discorso Obama ha ricordato che negli ultimi anni il suolo americano è stato bucato in continuazione per ricercare nuovi giacimenti di gas e petrolio, e ha promesso che sfrutterà il 75% di potenziali giacimenti petroliferi off-shore, nonostante sia ancora fresco il ricordo del disastro ambientale nel golfo del Messico: nel 2010, a causa di una valvola difettosa, 11 persone persero la vita su una piattaforma della Bp, e l’equivalente di milioni di barili di petrolio finirono in mare (un barile ne contiene circa 160 litri). D’altronde non si può puntare il dito solo contro gli Stati Uniti: le trivellazioni continueranno finché il mercato chiede petrolio. Lascia sbigottiti però l’idea che la Russia, in accordo con la Exxon, sfrutterà lo scioglimento dei ghiacci del Polo Nord per cercare nuovi giacimenti di petrolio e carbone. Non solo certi Paesi non si impegnano seriamente per ridurre l’emissione di CO2 nell’atmosfera, ma ne sfruttano i danni per cercare proprio quelle materie che, bruciando, la producono. Si comprende come il trionfalismo per l’accordo durante l’ICCP 2011 stona con la realtà di Paesi ancora troppo dipendenti da petrolio, gas e carbone, e un’industria dell’energia ancora poco focalizzata sulle rinnovabili.

Questo Obama lo ha ammesso nel suo discorso, arrivando ad affermare che è tempo di levare i sussidi all’industria del petrolio e del carbone per offrirli all’industria delle rinnovabili: l’energia è più pulita, meno costosa, e crea nuovi posti di lavoro per milioni di Americani. Il presidente democratico, ancora una volta, si dimostra maestro di pragmatismo. Il tema delle rinnovabili è stato inserito in un contesto che mette sullo stesso piano sussistenza energetica del Paese, il mercato del lavoro e, in ultimo, la lotta contro i cambiamenti climatici. Sa bene che sulla sua opinione pubblica il riscaldamento globale, soprattutto se confrontato con temi come l’occupazione e la crisi economica, fa poca presa: addirittura viene negato dalla maggior parte dei politici e degli elettori americani di destra. Recentemente è uscito uno studio finanziato dalla multinazionale del carbon-fossile Koch Bro; la tesi di partenza era che il global warming non è legato alle attività umane; bene, i risultati dello studio dimostrano l’opposto, i cambiamenti climatici in atto sono una diretta conseguenza dell’emissione artificiale di CO2 nell’atmosfera.

A questa ricerca, se ne aggiungano altre, giusto per avere un’idea sul presente e il futuro della Terra e dei suoi abitanti. Secondo uno studio dell’Università della Savoia, in 40 anni i ghiacciai alpini sul versante francese si sono ritirati di 1/4. Le registrazioni di temperature mondiali su base annuale continuano a segnare innalzamenti record, conferendo validità alla teoria del riscaldamento globale. Secondo uno studio dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che ha preso in esame gli ultimi 10 anni, il numero dei morti a causa dei cambiamenti  climatici è raddoppiato; non solo vengono alterati gli ecosistemi e i cicli agricoli, ma molte comunità non sono attrezzate ad affrontare l’intensità e la novità di certe calamità naturali, e non sono preparate alle emergenze sanitarie scatenate dalla variazione delle condizioni ambientali.

Eppure no, la lotta al global warming non fa parte delle priorità nell’agenda di Stati Uniti, Russia, Giappone e Canada, e non pare creare così tanto allarme nelle classi dirigenti mondiali. Anzi, se ne parla con il solito schema pro-contro, come se il riscaldamento globale fosse un fenomeno su cui c’è ancora da discutere. Micheal Beard, il protagonista di Solar, impagabile romanzo di Ian McEwan, offre un’analisi spietata e condivisibile dei motivi che spingono giornalisti e opinion maker a contrastare le tesi del global warming: scambiano l’idea dell’indipendenza di giudizio con la loro incapacità di comprendere il problema e di leggere i dati della scienza. I negazionisti si basano su pochi studi tendenziosi o incentrati sul breve periodo, e non si fidano del giudizio della comunità scientifica nella sua quasi totalità: dai biologi agli zoologi, dagli oceanografi ai fisici, tutti concorrono a descrivere l’impatto nefasto che il riscaldamento globale scatenato dall’uomo ha sugli ecosistemi, le specie animali, gli oceani, l’atmosfera.

In questo scenario esiste una nota positiva: la reazione della gente comune un po’ in tutto il mondo industrializzato. In Italia, ad esempio, buona parte di coloro che devono costruire una casa si informano sull’edilizia ecosostenibile,  e aumentano i pendolari preferiscono bicicletta e mezzi pubblici alle macchine. Dagli Stati Uniti alla Cina sono sempre più numerosi gli imprenditori che investono nelle rinnovabili; in altri settori, alcuni si assicurano che la propria ditta produca beni e servizi a impatto zero. Le persone in generale sono più rispettose dell’ambiente. Sta crescendo l’idea che se lo vogliamo, possiamo essere noi stessi i pompieri: lasciamo ai nostri figli e nipoti una Terra vivibile, e non un pianeta devastato da un mucchio di piromani incalliti.

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