Primavera araba, la rivoluzione interiore

Incantevoli sono campi in fiore a primavera, bellezza di una natura che di colpo cambia dopo il lungo inverno. Così è stato per molti popoli dal Maghreb al Medio Oriente, durante i moti di piazza scoppiati nel gennaio del 2011; alcuni li hanno definiti rivoluzioni, altri rivolte. Di certo sono state ribellioni contro regimi illiberali, uomini sanguinari che con una mano davano la pace ai potenti del mondo, con l’altra strozzavano chiunque osasse alzare la voce per criticarli. Masse di giovani uomini e donne sono usciti di casa per dire “basta!”, e per chiedere chi il pane, chi la giustizia, chi la libertà. A volte tutte queste cose insieme. Una sollevazione corale di centinaia di migliaia di individui, ciascuno di essi un fiore, sbocciati in un sol momento. Da troppo tempo su di loro pendeva la suola di stivali polizieschi, l’ombra scura pronta a calpestare ognuno di quei singoli fiori. Ma come si fa a calpestare un campo intero? In molti Paesi arabi la libertà è diventata una conquista da difendere; in altri però, come la Siria ad esempio, quegli stivali continuano ad abbattersi sulla popolazione a colpi di cannone.

Eppure molti analisti politici restano scettici per vari motivi sulla natura della primavera araba. Innanzitutto ripetono che non è una vera rivoluzione, perchè i rivoltosi in fondo non hanno preso il potere nemmeno in Paesi come Tunisia ed Egitto dove sono stati disarcionati i regimi oppressori. Uno che pone seri dubbi sul termine “rivoluzione” è Gian Paolo Calchi Novati, docente di Storia dell’Africa all’Università di Roma Sapienza. Intervenendo al convegno “Nel mare di mezzo: Nord Africa-Europa, paure, incertezze e speranze” organizzato dalla Caritas di Milano e tenutosi lo scorso 11 di febbraio, distingue le rivolte soffocate nel sangue dalle guerre civili, i moti di piazza dalle insurrezioni armate fiancheggiate dai Paesi occidentali. Tuttavia Calchi Novati preferisce parlare di “presa di coscienza” e di “transizione”. Le persone hanno raggiunto una nuova consapevolezza di sè come cittadini; ma le figure conniventi con Ben Alì, Mubarak, Gheddafi, non state escluse dalla vita civile dei rispettivi Paesi: al contrario in molti casi hanno mantenuto il loro ruolo in posti chiave delle istituzioni. In Yemen Alì Saleh, al potere da oltre 30 anni, ha accettato di farsi da parte, ma alle prime elezioni democratiche si presenterà solo il suo storico vice, Abd Hadi. In Egitto è tutto da vedere che Mohamed Tantawi, capo delle Forze armate e uomo di fiducia del decaduto Mubarak, mitighi la sua “supervisione” sulla transizione democratica nel Paese. Calchi Novati, poi, ricorda che in quei Paesi si rischiano restaurazioni o regimi autoritari di altra natura, e non la libertà e la democrazia attesa da chi ha scatenato la protesta nelle piazze. In Tunisia le libere elezioni sono state vinte dal Ennahda, partito di ispirazione islamica: siamo sicuri che ce ne saranno ancora di vere elezioni libere? Probabilmente sì, ma all’orizzonte si scorgono nuvole minacciose: si teme lo scontro fra chi desidera una società laica e moderna e chi vuole imporre l’Islam come unico fondamento della vita civile e politica del Paese. In Egitto le elezioni sono state vinte dai Fratelli musulmani con oltre il 40% delle preferenze, senza contare l’ottimo 25% dei Salafiti, i quali propongono l’Islam delle origini e rifiutano la modernità. In Libia, dove ancora oggi regna il caos, si parla della Sharia come legge per regolare la società. Insomma, il periodo di transizione non è ancora finito e il suo esito non ha ancora dei lineamenti per chiari. Alcuni analisti, come Oliver Roy sul The New Stateman, suggeriscono che i partiti islamici, per convenienza, manterranno profili moderati in politica interna e rapporti rispettosi con i Paesi Occidentali. Ma sono prospettive che dovranno misurarsi con la realtà. Altro fattore è l’economia: inflazione e disoccupazione restano sempre micce pronte a far esplodere le piazze. E infine gli interessi geopolitici delle potenze mondiali nell’area, i quali, secondo Calchi Novati, hanno avuto un peso sulla primavera araba. Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno contribuito alla destituzione dei regimi illiberali, con le loro pressioni e, appunto nel caso della Libia, i loro cacciabombardieri. “E’ da ingenui poi”, ha aggiunto, “pensare che tutto questo sia partito dall’autoimmolazione di un commerciante ambulante”. Il docente si riferisce a Mohamed Bouazizi, il tunisino che nel dicembre 2010 si diede fuoco per protestare contro il sequestro del suo carretto carico di merci. La sua morte ispirò le manifestazioni di molti giovani che condividevano la disperazione di Mohamed di fronte a uno stato di polizia che non mostrava nessuna umanità.”Il cambio dei regimi”, secondo il docente, “non sarebbe stato possibile senza il benestare della maggior parte delle potenze che da decenni nell’area coltivano enormi interessi economici e strategici.”

Ouejdane Mejri, blogger di Yalla Italia e docente presso il politecnico di Milano, anche lei relatrice del convegno organizzato dalla Caritas, non concorda con la tesi di Calchi Novati. “La primavera araba”, ha detto Ouejdane, “non solo non è stata avviata da nessuno stato straniero, ma gli occidentali stessi non erano coscienti di quello che stava per succedere. La prova è nei cablogrammi diplomatici resi pubblici da Wikileaks. In nessuna comunicazione riservata precedente al martirio di Bouazizi si accennava alla possibilità che di lì a poco si potesse verificare un terremoto civile e politico di quella intensità nel Maghreb e in Medio oriente.”

Effettivamente allo scoppio delle rivolte Francia, Stati Uniti, Italia e Gran Bretagna sono stati a guardare, con prese di posizione un po’ freddine. In fondo facevano grandi affari con i vecchi regimi, e il loro appoggio alle poteste assomigliava più a una presa d’atto del nuovo scenario.

Questa lettura è portata avanti con orgoglio dai Tunisini e dagli Egiziani, tanto da far dire al giornalista egiziano Mohamed Sabri, durante una conferenza al Cipmo di Milano, che lo storico discorso al mondo musulmano di Barack Obama, tenuto al Cairo il 4 giugno 2009, non ha avuto nessuna influenza sulle rivolte del gennaio del 2011. E vero il presidente degli Stati Uniti ha molto deluso le aspettative di molti nel mondo musulmano, in particolare sul conflitto fra Palestinesi e Israeliani: tuttavia, quel giorno Obama pronunciò queste esatte parole:

“Credo fermamente che tutti i popoli aspirano a certe cose: la possibilità di esprimersi e di avere voce su come si viene governati; avere fiducia nelle leggi e in una giusta amministrazione della giustizia – il governo che è trasparente non ruba al popolo; la libertà di vivere come meglio si crede. Non sono solo idee americane: sono diritti umani.”

Pochi giorni dopo scoppiò la “rivoluzione verde” in Iran, soffocata dal regime teocratico di Teheran. Quelle parole fecero germogliare l’idea di libertà nei petti dei giovani arabi? Oppure la primavera araba è l’apice di una indignazione e una disperazione di uomini e donne che non tolleravano più la loro condizione di oppressi? O è segno di maturazione civile e democratica dei popoli maghrebini e medio orientali grazie a una maggior alfabetizzazione e all’accesso alla rete globale? Forse un insieme di tutti questi fattori.

In ogni caso, di rivoluzione si tratta, ed è Ouejdane Mejri a spiegarci perchè. La rivoluzione è nella mente del giovane sceso in piazza, nella pancia di suo fratello e nei polmoni della sorella. E’ come se dentro il loro corpo e la loro psiche si fosse sgretolato ciò che li bloccava: la paura delle ritorsioni. Svegliarsi oppressi e ritrovarsi in una piazza a urlare “basta” è una rivoluzione copernicana che li ha innalzati spiritualmente. Come individui e come comunità Stiamo parlando di persone che la notte prima erano andati a letto con l’incubo del buon caro padre della patria pronto a rapire, torturare, eliminare gli oppositori.

Ouejdane racconta che pure sua madre si è unita alle proteste per scacciare Ben Alì. Cerchiamo di identificarci con quella donna ultra 50enne quando ha fatto il passo oltre la soglia di casa e si è ritrovata in mezzo all’affluente di persone dirette verso la piazza. Incredulità per il caos, ma slancio verso uno squarcio apertosi nel muro della dittatura. La crepa in quella paura interiore, muraglia eretta dallo stato di polizia. Cerchiamo di immaginare i suoi pensieri, i mille dubbi che in quegli istanti la assalivano: ‘E se non è la volta buona? E se mi vengono a prendere a casa? E se vengono a prendere i miei figli, e miei nipoti? Spareranno? E se finisco in galera?’

In Egitto moltissimi dei manifestanti sono finiti in prigione, dove hanno subito violenze e, nel caso delle donne, anche abusi sessuali, tra cui il test di verginità. Secondo le stime Onu in Tunisia sono morte 300 persone durante i moti di piazza, e svariate centinaia sono rimaste ferite. In rete girano video atroci: soldati che sparano sulla folla ad altezza uomo, poliziotti che scalciano la testa di donne incoscienti semidenudate, carrarmati con i cannoni puntati sulle piazze.

Sappiamo come è andata a finire: ora la madre di Ouejdane sta cercando di costruire la sua Tunisia.

Perchè un individuo decida di mettersi contro un feroce stato di polizia è necessaria una rivoluzione interiore che trasformi il terrore in coraggio, la depressione in speranza, la sudditanza in dignità. Se questo succede a una comunità intera, si può e si deve chiamarla rivoluzione popolare. Ecco cosa è stata la primavera araba, al di là dei suoi esiti finali.

di Cristiano Arienti

In copertina: “La Primavera araba”, – di Samuel Aranda, foto vincitrice del World Press Photo 2011.

 

 

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