La gestione di un invisibile

Milano, 11 aprile. Scendo alla fermata della metro, di ritorno da una conferenza, e lui era lì, accasciato sulle scalini, con il muso contro la pietra viva. Immobile. Parava un morto. Mi guardo intorno, sono l’unico sulla banchina, nella galleria illuminata dai neon. Salgo un paio di scalini e mi chino sull’uomo, lo guardo meglio. Avrà una trentina d’anni, capelli lisci sul collo, la barba lunga, un cappotto liso e squarciato sotto l’ascella. E’ un viso rosso il suo, certamente battuto dall’alcol quotidiano, quello che allaga il corpo, la mente, e fa naufragare una vita. Salgo gli scalini di fretta e richiamo l’attenzione di un addetto dell’Atm, nel gabbiotto vicino ai tornelli.

Gli dico che c’è un uomo svenuto, che sta male; esito a dire che è un barbone. Annuisce, mi risponde che ha già allertato i vigilantes. E arrivano proprio in quegli istanti, mentre sto decidendo se restare o andarmene a casa. Sono in tre: divise, anfibi, manganelli e pistole nella fondina. Due avranno sui trent’anni: uno con il pizzetto e berretto militare, l’altro ha i capelli a spazzola. Il terzo sarà sopra la quarantina d’anni; è lui a impartire gli ordini. Tutti insieme ci dirigiamo verso l’uomo riverso incosciente sugli scalini di pietra; i tre vigilantes lo raggiungono, mentre io e l’addetto dell’Atm restiamo qualche gradino più su. Dopo qualche istante  rimango solo io a guardare la scena, l’addetto tornato al suo gabbiotto.

L’approccio del vigilantes quarantenne è deciso e cortese: “Sta male signore?”

L’uomo non risponde, impenetrabile a quel rumore di voce gentile ma forte. La stessa domanda viene ripetuta più volte con il risultato che il barbone comincia a farfugliare qualcosa. Non sembra soffrire di qualche malore; o meglio, sta così perchè è ubriaco, sebbene io non senta nessun  odore etilico intorno a lui. Mi viene da pensare che potrebbe essersi sparato qualcosa in vena. Il suo è un corpo provato; lo immagino osservando i movimenti rallentati, con improvvisi e brevi scatti. Chissà da quanto tempo fa la vita da barbone; quasi certamente vivrà di elemosina per comprarsi le sigarette, qualcosa da mangiare, e cartoni di vino. Non è proprio il Knulp del racconto di Hermann Hesse. Farà la fila alla mensa dei Cappuccini, in piazza Tricolore, e dormirà in qualche angolo di cemento della città.

Forse ci vuole un’ambulanza, dice il vigilantes, ed è quello che penso anche io. Ne è convinto ancor di più dopo aver tentato di sollevare il barbone, ma senza riuscirci. “Vai ad avvertire l’addetto dell’Atm di chiamare il 118”, dice rivolgendosi a me.

Ubbidisco, ma poi ritorno su quegli scalini dove i tre vigilantes si sono fatti un po’ più sotto al barbone. Mi guardano, come per dire: ancora qui? Sì, non me ne vado. Il motivo per cui sto lì non è perchè penso male dei vigilantes in generale, e di quei tre in particolare; istintivamente, però, non posso fare a meno di ricordare il varesino Giuseppe Uva, finito in una caserma dei carabinieri per ubriachezza e morto qualche ora dopo in un ospedale. Il suo cadavere tutto maculato di bugni viola. Penso anche a Lakhwinder Sing, un cittadino indiano di 34 anni residente in provincia di Bergamo e deceduto a Gallarate. Il 25 marzo Sing, in preda a una colossale sbornia, come riferiscono le cronache, è stato portato alla clinica dell’aeroporto Malpensa, dove i medici hanno rifiutato le prime cure. Morirà qualche ora dopo essere stato dimesso dall’ospedale di Gallarate, con il foglio di dimissioni stracciato e sostituito da un certificato di morte.

Sto lì con la speranza che dei medici se ne prendano cura, accertandosi che il barbone non stia costeggiando il coma etilico o cos’altro. Sto lì con la speranza che quell’uomo possa farcela, in un modo o nell’altro, a superare la notte, e tirarsi almeno un po’ più su dal fondale marcio in cui si ritrova. Non sarebbe il primo.

“Si alzi,” ordina il vigilantes a voce alta e ancora paziente. Ma ancora per poco, perchè quando il barbone, con uno sforzo tremendo, riesce a tirarsi su seduto, ha un’espressione tra lo spaesato e l’infastidito: pare domandarsi perchè non lo lascino dormire. Da subito è evidente che non ha alcuna intenzione di alzarsi in piedi, sebbene venga più volte invitato a farlo; o forse fa davvero fatica, squassato dall’alcol e dalla vita sulla pietra e sul cemento.

In due riprovano a sollevarlo prendendolo per le braccia. Il barbone si lascia cadere, fino a sembrare riottoso. “Ti devi alzare”, gli intima il vigilantes quarantenne, “io conosco i tipi come te, tu non hai rispetto niente!”

Il barbone fissa il suo interlocutore. All’ennesimo invito ad alzarsi, risponde. E’ un farfuglio deciso, un insulto rivolto al vigilantes; è il primo, e basta perchè la situazione cambi. L’invito ad alzarsi diventa perentorio e ultimativo. L’addetto dell’Atm ritorna per chiedere se debba davvero chiamare il 118. Il vigilantes replica che ci pensa lui, e in effetti fa una chiamata.

“Alzati!”, e “Ti devi alzare”, e “alzati con le buone o con le cattive”, “te ne devi andare fuori da qui, “noi hai rispetto per niente”. Ecco cosa dicono a ruota i vigilantes. L’addetto dell’Atm se ne va via subito, come se quelle parole e l’atteggiamento lo spingessero via, lontano da lì. Il barbone si rifiuta di alzarsi: comincia a ripetere, con il tono alterato dell’ubriaco incattivito, che è un cittadino ungherese. I tre lo fissano con le braccia tese lungo il corpo, le spalle alte. Anche l’uomo,  il barbone, allunga un braccio tatuato, il pugno pericolosamente chiuso e minaccioso.

La situazione è pesante. Scendo qualche gradino. “Stand up!” gli dico. Il vigilantes più vecchio, con tono affabile, mi avverte che è inutile, che tanto lo capisce l’italiano. Quello con i capelli a spazzola, severo, mi dice di non avvicinarmi, di non parlargli. Risalgo quei quattro scalini ma non me ne vado. Al barbone, che io rimanga o meno, non gliene può fregare di meno, probabilmente non è riuscito nemmeno a vedermi o sentirmi. Per i vigilantes invece, lo intuisco dalle occhiate che mi riservano, sono un intralcio.

Nel frattempo sono sopraggiunti altri viaggiatori; restano distanti, ma guardano la scena con un misto di curiosità e ansia. Sopraggiunge un treno. La gente sale sulla carrozza. Quelli discesi alla fermata non perdono dieci secondi a chiedersi di quei tre vigilantes davanti al barbone, forse perchè capiscono benissimo a una prima occhiata cosa stia succedendo.

Intanto il barbone, tra le varie volte che ripete di essere ungherese, fa cenno alla Romania. “Vieni dalla Romania?”, domanda il vigilantes quarantenne, “No perchè allora la faccenda cambia. Se vieni da lì, allora la storia è diversa”. La Romania, a differenza dell’Ungheria, non fa parte dell’area Schengen.

Il barbone non pare nemmeno capire quello che gli si dice. E’ messo male, e con quella sua voce piena di raucedine, smozzica ancora un paio di insulti. Il vigilantes con il pizzetto, che fino a quel momento era rimasto in silenzio, affronta l’uomo. “Ora mi hai rotto il cazzo, vergognati per come ti sei ridotto, alla tua età! Fai schifo!”. Glielo ripete più volte, urlando. La banchina già da un paio di minuti è tornata deserta. Quelle urla rimbombano per la volta della galleria. Il barbone, con l’estrema fatica di muscoli sciancati dall’alcol, decide di mettersi in piedi. Barcolla. Ondeggia. Farfuglia diavolesche parole e ripete che è ungherese e vuole essere accompagnato al consolato. Minaccia. Il vigilantes con il pizzetto non s’è mosso di una virgola, i due sono uno di fronte all’altro. Se solo il barbone allunga una mignolo verso il corpo mimetico di fronte e lo sfiora, per lui è la fine. Non saprei dire che tipo di fine, ma come minimo la passata manesca.

Il terzo vigilantes mi raggiunge, mi prende sottobraccio e mi invita a salire le scale. Lo lascio fare, non mi pare di avere scelta; qualsiasi altra mia reazione mi metterebbe nei guai.

“So che se non vedo potete massacrarlo. Vorrei evitare quello”. Mi pento subito di essere stato così diretto, sfacciato, probabilmente lontano dalla realtà di quei tre uomini in divisa da vigilantes. “Deve essere difficile avere a che fare con persone del genere”, aggiungo subito, figurandomeli ogni notte davanti a un barbone diverso accasciato in qualche posto dove non può stare.

Ma è il vigilantes stesso che mi conferma quel che avevo detto poco prima, e non so a quale articolo del codice civile o penale faccia riferimento quando dice che se ci sono lì io non possono mettergli le mani addosso.

Le mani addosso gliele mettono, ma credo senza brutalità; lo aiutano a fare gli scalini. Poi però le mani sotto le braccia si stringono, la sospinta leggera diventa involontario strattone. Il barbone fatica a sostenere il ritmo di quella camminata, sempre più accelerata. Prova a urlare. Si lancia cadere giù per terra. Lo prendono per le braccia e lo trascinano sul pavimento, come per fare una pista sulla sabbia. Fanno qualche metro, finchè arrivano davanti ai gradini. I vigilantes desistono subito dall’idea di trascinarlo su per le scale: “è bagnato per terra”, dice il quarantenne. Io intanto sono sul pianerottolo delle scale che, diramandosi a destra e a sinistra, portano in superficie. Comincio a sentirmi veramente di troppo a quel punto. Faccio qualche gradino verso l’uscita, scomparendo dalla vista dei vigilantes. Sono ancora indeciso però. Dopo un minuto sale sul pianerottolo il vigilantes con il pizzetto, guarda prima dalla parte opposta rispetto a dove sono io. Sta controllando se me ne sia andato veramente. Infatti quando si gira e mi vede, il suo volto, da teso, si ammorbidisce innaturalmente, quasi a nascondere la delusione di trovarmi ancora tra i piedi. Ritorna giù, dove sdraiato per terra c’è il barbone. Quello va ripetendo che vuole essere accompagnato all’ambasciata ungherese. Il vigilantes quarantenne ha le braccia conserte; il più giovane con i capelli a spazzola, ha una sigaretta tra le labbra, è spenta. “Giovane”, dice a me, che sarò più grande di lui sei o sette anni, “hai da accendere?”. Nel frattempo ero ritornato giù sul pianerottolo, in vista. Faccio cenno di no.

Trascorrono un altro paio di minuti. Mi chiedo quanto ci metta ad arrivare l’ambulanza.

“Guarda come ti sei ridotto”, ricomincia il vigilantes con il pizzetto, con un approccio davvero gentile, come se il barbone potesse intendere meglio gli incoraggiamenti rispetto alle minacce. “Sei ancora in tempo a riprenderti.”

Quell’invito morbido, il primo dopo almeno venti minuti, viene ribadito più di una volta, e pare sortire qualche effetto nell’annebbiata mente del barbone. Si alza, ancora barcollante. Tende un braccio, non più minaccioso, ma per farsi aiutare a salire i gradini.

Mi convinco che la situazione è sotto controllo, che alla fine il barbone riuscirà a fare l’ultima rampa di scale sulle sue gambe, e probabilmente lo lasceranno tornare al suo angolo di cemento se per qualche motivo non arriverà l’ambulanza.

Esco in superficie, nella notte milanses. L’asfalto nero e umido di pioggerellina brilla sotto gli alti lampioni del corso. E’ freddo, mi stringo nelle spalle, mentre vedo il barbone uscire all’aperto scortato dai tre vigilantes. Il gruppo fa qualche passo in direzione opposta rispetto alla mia. Faccio per tornarmene a casa, girandomi per vedere se effettivamente lo lasceranno andare, visto che non c’è traccia di nessuna ambulanza. E proprio quando mi sto lasciando alle spalle questa storia, sopraggiunge a sirena spenta ma luci accese una volante della polizia municipale. Parcheggia in divieto. Scendono due agenti, sono agitati; si dirigono verso l’entrata della stazione della metro. Uno dei vigilantes vicino al barbone, quel gruppo ormai a un centinaio di metri da me, fa un fischio per attirare l’attenzione dei poliziotti; i due agenti si mettono a correre in mezzo alla strada per raggiungere lui e i suoi colleghi. Nel minuto successivo di volanti della polizia ne arrivano quattro o cinque. Attorno al barbone s’è formato un capannello di agenti della polizia, uniformi blu con bande bianche, più i vigilantes. Non riesco  capire che cosa stia accadendo, sono troppo lontano, e non ho il coraggio di farmi sotto. Non ho nemmeno il tesserino di un pubblicista, e come cittadino qualunque, conosco il trattamento solitamente riservato dalla polizia in questi casi. Per dire, qualche settimana prima, proprio in quel punto, ho chiesto spiegazioni a un agente sul perchè i pompieri avessero chiuso l’accesso alla stazione della metro, per quella che appariva come un’emergenza. Ero appena uscito dal parco dopo la mia mezz’ora di jogging, e quello mi guarda scuotendo la testa, come se non valesse la pena rispondermi. “Ma cosa sta succedendo?” domando di nuovo, visto che abito a un passo. Ma poi ne ho il diritto, con un paio di autobotti dei pompieri dove un’oretta dopo avrei dovuto prendere la metro.

“Vai va, vai”, mi ha detto quella sera il poliziotto, “continua a correre, che è meglio.” Cioè, me lo ha detto come se stesse parlando a un compagno di scuola, e rideva pure con un pompiere di fronte a lui. “Continua a correre”; ha ribadito, il gesto con la mano a taglio, invitandomi ad andare per la mia strada.

Anche per quello non mi faccio sotto, e rimango lì in piedi per qualche minuto, finchè tutti salgono nelle rispettive automobili. La griglia riparte a sirene spente e luci accese. Del barbone non c’è più traccia.

Il giorno dopo telefono alla stazione di polizia di Monforte. Chiedo di un cittadino ungherese fermato la notte prima, se sappiano che cosa gli sia successo. “Noi non ne sappiamo niente, e se è accaduto dove dice, allora l’avranno portato nella stazione di Polizia zona Porta Venezia. Comunque sappia che anche se fosse qui da noi, dalla stazione di Monforte non esce niente per telefono.”

Nel tardo pomeriggio vado alla stazione di Polizia di Porta Venezia. Al citofono un agente mi dice che per il codice di diritto penale, dagli articoli 384 in poi, io non ho nessun diritto di sapere della sorte di una persona fermata e portata in stazione Ps, almeno che io non sia un familiare stretto o il suo avvocato.

Non credo che quel barbone abbia familiari in zona nè avvocati, dico. Volevo solo sapere cosa gli è successo.

“Se lui è qui ha comunque avuto la possibilità di fare una chiamata, e non l’ha fatta a lei. Se nè lui nè il suo avvocato l’hanno contattata, non vedo perchè se ne dovrebbe occupare. Comunque, glielo può chiedere la prossima volta che lo rincontra per strada.”

Dietro di me una signora, che ha seguito il dialogo, scuote la testa: “Usano sempre questa arroganza con i comuni cittadini”, dice. E mi ringrazia per quello che sto facendo, interessarmi della sorte di un’altra persona. E non so se lo rifarebbe, se sapesse che l’individuo in questione è un barbone, e per di più conciato parecchio male.

Non mi arrendo. Il giorno dopo avrei chiamato il consolato ungherese di Milano, per sapere se abbiano notizie di un loro concittadino fermato dalla polizia. Al consolato, mi sarà poi detto, non hanno ricevuto nessuna comunicazione relativa a un fermo. E’ già accaduto, mi dice, che qualcuno senza documenti finito nei Cie, i Centri di identificazione ed espulsiuone, afferma di essere cittadino ungherese; in quel caso anche il consolato avvia le pratiche di identificazione.

Il problema però, mi chiedo a quel punto, è che un individuo possa essere preso in custodia dalla polizia davanti ai miei occhi, e io poi non abbia possibilità di sapere che cosa gli sia successo. Un avvocato mi spiegherà poi che entro 24 ore la polizia giudiziaria decide se inviare il fermato al giudice per le istruzioni preliminari; starà al giudice, poi, decidere se aprire un fascicolo a carico del fermato. Solo in quest’ultimo caso la notizia di reato diviene di pubblico accesso.

Mentre rioridino le idee, prendo la strada verso casa. All’ultimo decido di passare al supercato, non lontano da dove abito, in un viale sempre affollato. Anche quel tardo pomeriggio i marciapidi sono un via-vai di gente con i pacchi della spesa; a quell’ora ci sono ancora molte mamme con bambini, ragazzini con gli zaini, signore a spasso con i cani. C’è un giovane uomo con le spalle al muro, i capelli biondicci e la faccia arrossata dal battere della birra, o del vino, o della vodka. Ha le mani che armeggiano la zip dei jeans; dai suoi piedi si dirama un rivolo bagnato, la piscia fatta davanti ai passanti. Ha gli occhi sgranati, un sorriso evanescente, la coscienza di sè diluita nelle pozioni colorate che lo stanno rendendo inviso e invisibile agli occhi di quasi tutta la società.

di Cristiano Arienti

Immagine di copertina di Hans B., pixabay.com

 

 

 

 

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