Un nuovo sogno per l’Europa

In questi ultimi due anni in Europa il tema più importante è stato il rapporto tra finanza ed economia e l’impatto che esso ha sulla società. L’obbligo di confrontarsi su questa materia sta costringendo gli Stati dell’Unione europea a inventarsi un nuovo linguaggio per rispondere alle difficoltà del presente.

Un nuovo sogno per l’Europa

Nel 2009 non si è fatto in tempo a celebrare l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, una sottospecie di Costituzione per un Superstato europeo incompiuto, che già c’erano all’orizzonte imponenti sfide per i 27 membri dell’Unione e i suoi cittadini. La crisi dei debiti nazionali ha evidenziato la fragilità dell’architettura europea, soprattutto per quanto riguarda l’euro. E’ poi una situazione già appesantita dal precedente coinvolgimento – storicamente imperdibile, dopo il crollo del comunismo – di molti Paesi dell’est, oggi terra promessa per un’industria sempre più globalizzata e multinazionale.

Quindi, se fino a poco fa avevamo discusso il linguaggio dei diritti, della circolazione delle merci e delle persone, della moneta unica e dello sviluppo scientifico, ora tutto questo non basta più: si deve parlare sul serio, dopo il lancio dell’unione fiscale (fiscal compact), di titoli di stato europei, di stimoli per la crescita, di una politica di immigrazione sistemica, e soprattutto di figure autorevoli elette dal popolo. I 27 Paesi, infatti, sono così interconnessi che la loro capacità decisionale si è molto ridotta; le scelte prese a Bruxelles tendono a essere collegiali tra gli Stati membri, benchè la parola della Germania abbia un peso maggiore. Tuttavia, nonostante l’elezione di un parlamento continentale, i cittadini europei si sentono esclusi dal progetto. Francia e Olanda furono gli unici Stati nel 2005 a esprimersi sulla Costituzione europea per via referendaria, e la bocciarono; quel monito rimase inascoltato. Lo stesso accadde in Irlanda per il Trattato di Lisbona. Quindi il livello di democrazia dell’Unione europea e le altre materie sopra citate non sono inedite; è nuova però la sensazione di doverle affrontare una volta per tutte, nel bene e nel male. E’ un passo non più rimandabile, perchè 500 milioni di uomini e donne hanno bisogno di certezze adesso.

In molti Paesi il triplo artiglio della crisi – mancanza di credito e liquidità, destrutturazione del processo produttivo, e smantellamento dello stato sociale – stanno lacerando coscienze, inclinano certezze, e minano il tessuto civile. Alle ultime elezioni presidenziali in Francia il 20% ha votato la destra nazionalista e antieuropeista; è stato il socialista François Hollande a vincere, ostile a una così rigida unione fiscale senza crescita. In Grecia, avviata all’uscita dall’euro, sono entrati in parlamento dei neonazisti, mentre l’estrema sinistra ha guadagnato vasto consenso. E più in generale, senza scomodare gli euroscettici, molti in Europa sono avversi a questa Unione: o perchè marcatamente neoliberista; o perchè troppo paziente con gli Stati che hanno debiti pubblici enormi e riforme nel cassetto;  o semplicemente perchè non ne comprendono i meccanismi. Il cittadino medio si chiede cosa stiano facendo le commissioni di Bruxelles, all’ombra della Germania, per domare l’abbassamento dei salari, la disoccupazione e l’inflazione. Si sa che esiste un progetto per la crescita a cui stanno lavorando il presidente del consiglio italiano Mario Monti e il cancelliere tedesco Angela Merkel, ma nemmeno i cronisti più informati ne conoscono le linee guida. E’ questa distanza tra decisori ed elettorato che spiazza il cittadino medio, al di là della bontà del suddetto piano. Jean-Claude Juncker, presidente dell’eurogruppo, ha annunciato le dimissioni spiegando che in questi anni le ingerenze di Francia e Germania hanno superato la misura. Del resto la Germania ha cercato di limitare anche l’operato della Bce (Banca centrale europea), organismo indipendente di controllo, mentre quest’ultima tamponava la crisi del debito pubblico italiano.

Il rigore è necessario, ma solo il rigore si sta stringendo come un cappio in Paesi cone Portogallo, Irlanda, Italia, Spagna, e sarà così anche per la Francia. Il 13 maggio nel land Nord Reno-Westfalia hanno votato 18 milioni di persone, bocciando il partito della Merkel e premiando verdi e socialisti; per quanto sostengano le scelte del loro cancelliere in campo europeo, anche i Tedeschi sono stanchi di una linea di austerità suggerita da agenzie di rating e banchieri. I cittadini europei chiedono un sussulto, un cambio di passo nelle politiche del lavoro e del libero mercato; capire da dove si può ricominciare a crescere. Siamo di fronte a una corda tesa nel vuoto, e tornare indietro non si può per via dell’euro: o costruiamo un ponte saldo verso il futuro e lo percorriamo insieme, o voliamo giù separatamente, tedeschi ed euroscettici compresi. Ma forse, più che la volontà a dare una direzione all’Unione europea, saranno gli eventi a decidere la sorte dei 27 Stati e di 500 milioni di persone. L’uscita della Grecia dall’euro? La crisi della politica italiana? La guerra in Iran? I conflitti sociali? Il ritorno ai nazionalismi?

I fondatori della Comunità europea, la vecchia pelle dell’Unione europea, avevano avuto molto tempo per costruire un linguaggio comune, e mettere in piedi un organismo sovranazionale: sono partiti dall’idea che l’abbattimento delle dogane e la fusione degli interessi economici, energetici e strategici fossero un’assicurazione contro i pericoli di nuove guerre. Col tempo hanno riconosciuto che fra Europei ci sono più somiglianze che differenze, e si sono uniti in un’entità intergovernativa. Quando è stata scritta la carta fondamentale dei diritti, gli estensori si sono richiamati a una comune civiltà occidentale, nata nelle piazze ateniesi ed evolutasi lungo 2000 anni di storia, tra repubbliche, monarchie, imperi, rivoluzioni. E’ retorica citare il diritto, il voto, il metodo scientifico, la rivoluzione industriale e lo stato sociale come conquiste del vecchio continente? Probabilmente sì, visto che, seguendo uno schema speculare, la stessa Europa ha praticato lo schiavismo, ha squalificato l’opera di studiosi e scienziati, ha generato dittature, ha premesso l’industrializzazione selvaggia, ha tollerato una finanza psicopatica, oltre che uno squilibrio spesso indecente tra ricchi e poveri. E’ pur vero, però, che abbiamo assimilato i dolorosi passaggi della nostra storia, e stiamo elaborando le esperienze recenti per giungere a delle conclusioni: promuoviamo la ricerca individuale del benessere e proteggiamo le fasce più deboli; miriamo alla sostenibilità del progresso e alla salvaguardia del pianetà; difendiamo i diritti umani, civili e dei lavoratori, nel quadro di una legislazione in cui tutti devono rispondere, si badi, non delle loro idee ma delle loro azioni. Quindi oggi non è in dubbio la nostra identità europea – nessun europeo rinuncerebbe ai diritti che ha, semmai li implementerebbe – ma la consapevolezza di essere già cittadini di una potenziale Confederazione di Stati.

Forse sono miraggi; fra noi e quell’idea di Europa c’è la distanza incolmabile di 27 lingue, di culture simili ma pur sempre diverse, di differenti interpretazioni dei problemi e dei bisogni, in politica interna ed estera. Quindi alla fine resta una domanda: lo vogliamo un continente unito, noi, generazioni di oggi? Non si tratta più di portare avanti i progetti che si immaginavano i nostri nonni, ma di modellare l’Europa che sogniamo noi, fosse anche solo per risolvere le sfide della contemporaneità, o per dare un domani decente ai nostri figli.

di Cristiano Arienti

Articolo scritto per L’Angolo,  www.angoloweb.net

In copertina: Umberto Boccioni – Visioni simultanee

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