Un appello per una giusta società

Lo scorso 28 luglio la rivista scientifica NewScientist è uscita con un titolo di copertina emblematico: “The Age of Inequality – L’Epoca della Diseguaglianza”. All’interno del settimanale britannico, con vari articoli e studi sul tema, viene analizzato il rapporto che gli uomini hanno con la ricchezza, e di come tale rapporto sia cambiato a seconda dei periodi e dei modelli di società. La conclusione è che oggi viviamo in un epoca in cui il divario tra i ricchi e i poveri è enorme, ma non è questo il problema: a colpire è la pretesa che una società basata sulle “pari opportunità” venga considerata come la più giusta possibile.  Di seguito si propone la traduzione dell’editoriale che riassume i vari punti di questo approfondimento.

An appeal for fairness in society – Un appello per una società giusta

Chiunque abbia dei figli, o ricordi di essere stato bambino, potrà confermare che noi, in quanto uomini, apprezziamo l’importanza della correttezza sin dalla più tenera età; o almeno riconosciamo la sua utilità quando facciamo appello all’autorità. La frase “ma questo non è giusto!” è uno dei primi indicatori del fatto che un bambino sta sviluppando un senso morale, sebbene il concetto che i bambini hanno della giustizia non sempre si accordi con quello dei genitori. Sappiamo che questo “impegno” verso la giustizia persiste nell’età adulta. Esperimenti in economia del comportamento dimostrano che siamo pronti a punire gli scrocconi, cioè chi beneficia degli sforzi degli altri senza contribuire in egual misura, anche se le nostre condizioni dovessero peggiorare rispetto a prima. In altre parole, i nostri condizionamenti mentali ci inducono a punire l’ingiustizia quando la percepiamo, anche nel caso in cui questa reazione vada contro i nostri “ristretti” interessi economici.

E “ristretto” è la parola chiave. Questo comportamento, andare contro i nostri ristretti interessi economici, è all’apparenza autodistruttivo se limitato a un contesto di isolate transazioni economiche, ed è difficile da razionalizzare; posto all’interno di un contesto sociale, tuttavia, acquista più senso. Le società che premiano la giustizia e l’egalitarismo in realtà sarebbero più stabili. Sembra che questi valori  fossero tenuti in gran considerazione dai nostri lontani antenati. Pare però che abbiamo trascurato l’uguaglianza quando è stato il momento di progettare una moderna civiltà.

L’ineguaglianza si è diffusa sia all’interno delle moderne società, sia tra di esse. Le società occidentali, in particolare, presentano una profonda disparità, in una misura difficilmente quantificabile. Eppure negli ultimi 40 anni l’ineguaglianza è stata un argomento di discussione solamente per un ristretto circolo di accademici. Solo di recente, con il movimento di Occupy Wall Street fra le altre iniziative, è stata portata alla ribalta dell’opinione pubblica. Perchè? Una ragione, forse, è che durante le ultime decadi la retorica politica ed economica predominante, rinforzata dal fallimento del comunismo, voleva l’uguaglianza come qualcosa di inattuabile. Come il classico ritornello di un genitore che vuole dare un taglio alle lamentele del figlio: “è la vita che è ingiusta”. Ci sarà sempre un monte e qualcuno che sta ai suoi piedi. Su questo sfondo, la giustizia è la garanzia per l’ultimo gruppo sociale di poter scalare il monte, e in qualche caso di raggiungere la cima. In questo modo la giustizia diventa una questione di pari di opportunità: chiunque può diventare presidente. Eppure diventa sempre più difficile sostenere che stiamo centrando perfino questo limitato obiettivo. L’ineguaglianza ha un significativo effetto negativo sulla salute di quelli che vivono negli strati più bassi della società, e ciò rende ancor meno probabile che migliorino la loro posizione nell’arco della loro vita.

E dal lato opposto della scala sociale? All’inizio di questa settimana (18/7/12, ndr), la rete “Tax Justice – Giustizia delle Tasse”, ha annunciato che l’incredibile cifra di 21.000 miliardi di dollari, e forse molti di più, sono stati accumulati in paradisi fiscali, e quasi la metà di quei soldi appartengono a 92.000 persone, lo 0,001% più ricco; lo hanno fatto sfruttando i migliori cavilli legali e finanziari che il denaro può comprare.

Nessun dubbio che una elìte ben radicata abbia rinforzato questa situazione per proteggere i suoi interessi. Ma può essere stata aiutata a radicarsi a causa di un altro insieme di condizionamenti cognitivi. Molti di noi sembrano più inclini a scovare gli scrocconi fra quelli che hanno di meno: gli indigenti e coloro che non possiedono nulla, gli apolidi e i senzatetto. Forse questo è dovuto all’idea del cosiddetto “mondo giusto in ipotesi”: il convincimento che il mondo sia un posto ordinato in cui le persone ottengono quello che si meritano. I ricchi sono stati premiati per le loro capacità e il loro coraggio; i poveri si meritano la loro condizione perchè sono incapaci e non possono pretendere nulla.

Perfino quando ci concentriamo sull’1%, ci focalizziamo sugli individui: ultrapagati boss di banche e celebrità per niente talentuose sono gli obiettivi preferiti; intanto però le strutture che li sostengono vengono ignorate. Da tempo le associazioni benefiche e i lobbisti conoscono, e sfruttano, la nostra propensione a essere più facilmente persuasi dalle storie dei singoli piuttosto che dall’analisi razionale della necessità primaria dei gruppi. E’ difficile mettere in atto una riforma durevole opposta a un sistema retributivo opportunistico.

Questi condizionamenti, però, possono funzionare in entrambi i modi. La nuova proposta del governo britannico di “nominare e far vergognare” coloro che praticano una evasione delle tasse aggressiva, può sembrare una debole reazione; tuttavia teniamo in così gran conto la nostra reputazione che siamo pronti a fare grandi sforzi per proteggerla. Quindi i tribunali della pubblica opinione potrebbero rivelarsi più efficaci di quelli del sistema giudiziario.

Tali leve di pressione potrebbero tornare utili per coloro che vogliono creare una società equa. Ma il fatto è che tutti noi dovremo ricordarle, mentre discutiamo i gradi e i tipi di ineguaglianza che siamo disposti a tollerare. Se decidiamo di ridefinire la giustizia una volta ancora, dovremo sforzarci di non ricadere nei nostri condizionamenti. Perchè sta a noi e noi soli: non c’è nessuna autorità a cui possiamo semplicemente presentare le nostre lamentele sull’ingiustizia, nella speranza di un risarcimento. Adesso siamo noi gli adulti responsabili.

Editoriale pubblicato su NewScientist uscito il 28 luglio 2012, numero 2875.

Gli altri articoli pubblicato sullo stesso numero che approfondiscono questa tematica:

– The 1 percent and the rest – L’1 percento e il resto

– The more money the marrier – Più soldi si hanno più si è felici

– Why egalitarian societies died out – Perchè le società egalitarie si sono estinte

– On wealth and health – Sulla ricchezza e sul benessere

– Why inequality helps the planet – Perchè l’ineguaglianza aiuta il pianeta

– Inequality around the world – L’ineguaglianza nel mondo (pubblicazione della tabella Gini e del coefficiente che permette di calcolare l’ineguaglianza in ogni singolo Paese del pianeta)

 

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