L’Italia alla guerra contro la n’drangheta

Forse non ce ne accorgiamo, ma in Italia stiamo combattendo una guerra civile. Esiste di fatto una sospensione di alcuni diritti e l’implementazione di leggi che restringono il raggio d’azione dei cittadini, e riducono il tasso di libertà di ognuno di noi: le intercettazioni, o l’asseverazione delle aziende per partecipare a bandi, per esempio. E’ il prezzo che gli Italiani pagano per contrastare la “mafia”, l’antistato che un’organizzazione di persone coltiva e promuove: o perchè lo sentono nel loro dna, o perchè lo sfruttano, o perchè ne sono infettati e infine travolti. Questa, in sintesi, l’introduzione con cui il presidente dell’Università Liuc Alberto Cattaneo ha aperto la conferenza “Come si riconosce un mafioso”, tenutasi il 23 novembre a Lonate Pozzolo, vicino a Varese. Comune emblematico di una “provincia lombarda”, appellativo usato nelle riunioni n’dranghetiste, colonizzata dalle n’drine calabresi. Emblematico per due ragioni: Lonate si è scoperta magione di famiglie n’dranghetiste tra le più importanti, e varie inchieste ne hanno delineato la ramificazione che parte da Cirò Marina, in Calabria; da allora però i cittadini, guidati dai consiglieri comunali coraggiosi, hanno ridato dignità alla loro terra. Lonate emblema della lotta alla criminalità organizzata: è stato formato un “gruppo di lavoro antimafia”, modello esportato in altri comuni, e vengono ospitati eventi e manifestazioni per la promozione della legalità e contro la cultura n’dranghetista.

In proporzione, Lonate Pozzolo ha conquistato le prime pagine della stampa nazionale come la Calabria, e il sistema Italia corrotto dalla n’drangheta, sono arrivate sulla prima pagina del New York Times. Nell’articolo dello scorso ottobre la Salerno-Reggio Calabria è il pasto con cui le mafie si sono sfamate per decenni; la penisola intera, intanto, è diventata il tavolo dove, è il caso di dirlo, lo Stato si sta opponendo alla voracità n’dranghetista.

Cattaneo riporta un numero: la mafia muove un fatturato annuo di 140 miliardi di euro; la manovra “salva Italia” dell’ultimo anno ammontava a meno di 1/4. E’ in nome di questo tesoro che è in corso la guerra, dove al sud, si è detto durante la conferenza, la vittoria è lontanissima, mentre il nord si sta riscuotendo dall’apatia di istituzioni quanto meno ingenue. Le parole dell’ex sindaco di Milano Letizia Moratti, ribadite dall’ex prefetto Gian Valerio Lombardi, “la mafia al nord praticamente non esiste” hanno fatto cascare le braccia a molti; era il 2009, e tre anni dopo nella procura di Milano si parla di emergenza democratica. A Roma, poi, centro della politica nazionale, la lotta alla mafia è rito piuttosto che impegno accanito e senza quartiere. La conseguenza di questo atteggiamento è devastante; i cittadini del sud sanno della guerra, ma non si espongono, e quando lo fanno, rischiano la pelle. Le morti di Libero Grasso e di altri ribellatisi alla mafia sono ferite ancora dolorissime. Per questo in molti casi i comuni cittadini accettano la sconfitta pur di vivere “tranquilli”. Al nord invece si preferisce chiamare l’omertà “indifferenza”. I mafiosi sono fuori dal radar del cittadino medio, che legge sul giornale locale dell’omicidio, dei danni alle proprietà, dell’inchiesta, ma li interpreta come eventi singoli e non come sistema. Finché non toccano te, con il pizzo, lo strozzinaggio, la presenza delinquente sempre più pressante. Vogliono la tua impresa, minacciano la tua famiglia . E quando accade, allora vince la paura, perchè ci si sente soli di fronte a un “mostro” troppo grande. La giornalista di Radio24 Raffaella Calandra, relatrice della conferenza, racconta di una rivelazione fatta dal procuratore antimafia di Milano, Ilda Bocassini:

“Gli imprenditori non denunciano i loro aguzzini nemmeno di fronte alle prove raccolte dagli investigatori, riguardo a pizzo, intimidazioni, incendi dolosi, agguati, coltelli puntati alla gola. E allora siamo costretti a denunciare la loro reticenza come complicità, anche quando essa non è evidente.”

Temono che testimoniare, invece di ridargli dignità, serva solo a metterli in pericolo. L’idea non è la giustizia, ma tornare a “vivere”, a “essere libero”. Parole di imprenditori che hanno svenduto a prezzi stracciati imprese floride finite nelle grinfie della n’drangheta. Ed è questa la n’drangheta che ha colpito decine di imprese nel varesotto, soprattutto nel settore edile e movimento terra, ma anche in molti altri tipi di attività. Manovalanza violenta ben diversa dall’iconografia confortante del “colletto bianco”, come spiega Cesare Giuzzi, giornalista del Corriere della Sera anch’egli relatore della conferenza. O meglio, ci sono i “picciotti”, che tra l’altro smerciano la droga in transito per Malpensa, il più grande scalo europeo della cocaina; e ci sono pure i “colletti bianchi”: fanno consulenza, ripuliscono il denaro sporco, lo riciclano e lo investono in imprese regolari. Regalano, si fà per dire, un volto lindo agli impresentabili. A Milano, capitale economica del Paese, come in tanti comuni minori, non sono pochi i commercialisti, gli avvocati, i banchieri e perfino i medici assoldati dalla n’drangheta. Persone che si occupano degli interessi delle “n’drine”. Come il direttore di una filiale milanese di Deutsche Bank, intercettato mentre riferiva direttamente a uno n’dranghetista. Raffaella Calandra, nel suo programma “Storiacce”, parla spesso di una zona grigia dove in nome degli affari, e dei soldi, alcune persone insospettabili contribuiscono al rafforzarsi dell’antistato. E nessuno di loro può dire: ‘io non sapevo con chi avevo a che fare’.

Tuttavia è la politica la vera testa di ponte della n’drangheta per raggiungere potere e impunità; ma gli obiettivi non sono solo i politici come espressione di una corrente di partito o di un movimento. La n’drangheta corrompe gli apparati, il personale tecnico e amministrativo dei comuni, delle province, delle regioni. Lo spiega Giuzzi: se uno Zambetti, il consigliere regionale lombardo referente della n’drangheta, fra qualche anno non dovesse essere rieletto, gli “n’dranghetisti” hanno comunque corrotto anche la sua segretaria, che probabilmente rimarrà nell’apparato. La rondella intaccata, infettata dalla cultura mafiosa. A chi non accetta, come un’impiegata dell’ufficio tecnico di Lonate Pozzolo, gli si brucia la macchina.

Quindi se dalle inchieste vengono fuori i nomi dei boss che rimangono impressi nella mente, i Pesce, i Barbaro, i Papalia, i Pelle, c’è una lista lunghissima di fiancheggiatori che hanno lavorato per arricchire le n’drine. Lo fanno per soldi. E per mancanza di etica, e senso dello stato. E moltissimi altri, colti dal sospetto, preferiscono tacere piuttosto che denunciare. E il sospetto, spiega Calandra, nasce perchè abbiamo tutti gli strumenti per riconoscere lo stile e il comportamento del mafioso, quando ce lo ritroviamo di fronte che ci allunga un sacco di soldi su un piatto d’argento.

A questo punto resta una domanda: che fare? Che possiamo fare noi cittadini? Arrenderci di fronte alla smisurata prepotenza di questi criminali, forse come gli n’dranghetisti davano per scontato nel 2005, quando fanno fuori Francesco Fortugno, vice presidente della regione Calabria. O prendere una pezza, scriverci sopra “e adesso ammazzateci tutti”, ed esporla allo stadio durante una partita della Reggina, a Reggio Calabria. E’ quello che hanno fatto un gruppo di giovani, capitanati da Aldo Pecora. Alla conferenza c’è anche lui, oggi giornalista e presidente, appunto, dell’associazione “Ammazzateci tutti“, che diffonde la cultura della legalità nella scuole e nei comuni. Pecora alterna momenti di grande ottimismo ad altri di lucido pessimismo: “spingere i 15enni alla formazione civile attraverso la lotta alla mafia è fenomenale”, addirittura creare una rete nazionale riferimento dà speranza; tuttavia l’abitudine alla cultura mafiosa, sia attiva che passiva, tramandata di generazione in generazione, rende la lotta alla n’drangheta un’impresa titanica. 

Soprattutto, come spiega Giuzzi, se gli uomini impiegati a portare avanti le indagini sulla n’drangheta in Lombardia sono sì e no 200. E allora ci si aggrappa al miglioramento delle istituzioni, e alla capacità dei cittadini di indignarsi: sul piano individuale, come comunità, e a livello di società. Perchè è insieme che si può combattere questa guerra, al di là dei colori politici; il mafioso è il nemico di tutti: riconoscerlo, e non sentirsi soli, è già una piccola grande vittoria.

di Cristiano Arienti

In copertina Francisco Goya – Saturno divora suo figlio.

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