Io, Calderoli, e la giornata di un razzista (in)volontario

La mia giornata da razzista involontario me la ricordo bene, indimenticabile nella rapida successione dei fatti. Pochi secondi, banali se vogliamo, che sono bastati a perpetuare il razzismo come visione per rapportarsi con l’altro, e come fenomeno di chiusura sociale. E’ accaduto una ventina di anni, fa, ero maggiorenne da poco. Suonarono al citofono di casa, all’epoca vivevo dai miei genitori, e andai ad aprire la porta. Dietro al cancello la sagoma di un omone di colore, scuro dell’Africa nera. Era sorridente; con la luce primaverile del primo pomeriggio i denti bianchi si notavano a metri di distanza. Si annunciò con il suo nome di battesimo, dicendo di voler salutare la signora. Il suo italiano era buono; l’accento, suonando gutturale, me lo riannodava inesplicabilmente al centro di quella terra dove, nel mio immaginario, c’erano foreste e animali selvatici e avorio. Si trattava di un semplice condizionamento culturale, ma allora non ne ero consapevole, non nella misura in cui lo sono oggi. Non gli aprii. Presi tempo, diffidai subito di uno sconosciuto che si presentava al cancello e voleva “salutare” mia madre. Per di più nero. Voglio dire, nella cerchia degli amici dei miei genitori non conoscevo nessuno di colore. Ed era nero africano. Nessun nero africano aveva mai messo piede in casa nostra. Nessun nero e basta.

Gli chiesi chi di preciso fosse. L’uomo, sempre sorridente, e sempre dietro al cancello, cantilenò di nuovo il suo nome. “Ho lavorato per gli O., conosco la signora tramite loro, e sono venuto a salutarla e ringraziarla.” A distanza di anni, questo è quello che ricordo. Non sono così sicuro che mi avesse detto proprio così, “per ringraziarla”; oppure fosse passato solo a porgere i saluti alla signora. Sta di fatto che, con educazione e gentilezza, gli dissi di attendere lì. Di nuovo, non gli aprii; lo ammetto: dentro di me il timore, inconscio, che potesse “rubare”, o anche solo “creare qualche casino”. Andai per casa a cercare mia madre (la casa dei miei genitori è abbastanza grande), e quando la trovai, le dissi che c’era un uomo di colore al cancello, e che voleva salutarla. Non le comunicai il nome di battesimo dell’uomo.

“Dice che ti conosce”, aggiunsi, mettendo implicitamente in dubbio le parole dell’uomo fuori dalla nostra porta. Mia madre, che in realtà non vedevo nemmeno perché era al piano di sopra, mi urlò che non aveva tempo, di mandarlo via. Probabilmente pensava che fosse arrivato uno di quei marocchini che all’epoca vendevano porta a porta. Ce n’erano un paio che periodicamente passavano da casa nostra, e mia madre gli comprava una tovaglia, o un articolo per la pulizia.

“Ma ha detto che ha lavorato per gli O., che ti conosce tramite loro.” Mia madre, che effettivamente era impegnata in qualche faccenda di casa e proprio non aveva voglia di starmi a sentire, mi ripeté di non avere tempo: “digli di passare un altro giorno”. Tornai all’entrata, erano trascorsi almeno un paio di minuti. L’uomo era sempre lì, con un sorriso un po’ meno entusiasta rispetto a prima. Io restavo praticamente dietro alla porta, tenevo fuori solo la testa.

“Mi dispiace, ora non può, non ha tempo.”

Le spalle dell’uomo cascarono percettibilmente, fu impossibile non notare il cambio di espressione sul suo volto, l’allegria spezzata da una smorfia di presagio, di ‘so cosa sta succedendo’. “Ma tua madre mi conosce, sa chi sono, volevo solo salutarla.”

“Ha detto di passare un altro giorno, arrivederci”, gli risposi, socchiudendo di poco la porta.

Lo vidi scuotere la testa, pestare leggermente un piede, alzare le mani e dirmi: “ma non è così che si trattano le persone”, o qualcosa del genere, proteste che mi limitai a ignorare. Ci guardammo ancora per qualche istante, lui dietro alle sbarre del cancello, io rintanato dietro alla porta d’ingresso. Era naturale immaginare cosa stesse pensando: a lui, un uomo ormai integrato nella parrocchia del nostro quartiere, come in seguito avrei scoperto, non gli veniva nemmeno concesso di entrare nel giardino di una casa a cui chiede di essere ricevuto da conoscente. Veniva mandato via senza un minimo decoro, od ospitalità; come l’ultimo dei ‘marocchini ambulanti’.

Glielo stavo leggendo negli occhi, su quelle labbra ferite che tremavano d’indignazione, un invisibile dito puntato contro di me: non mi apri perché sono un “negro”, e probabilmente tua madre non mi vuole nemmeno salutare perché sono solo un povero “negro africano”.

Lì, in piedi sulla soglia di casa, mentre richiudevo la porta, mi stavo vergognando. Gli avevo anche detto arrivederci, ma non ricordo se lui ricambiò il saluto. Da dietro al vetro della porta blindata, lo vidi allontanarsi; parlava tra sé, forse mi malediceva, ci malediceva a noi italiani che per l’ennesima volta, contrariamente a tutti i proclami di non essere un popolo di razzisti, ci stavamo comportando come tali. Ero io, e nessun altro, che in quel momento rappresentavo il popolo italiano.

Dopo alcuni minuti incrociai mia madre in cucina, mi chiese chi l’aveva cercata. Le comunicai il nome di battesimo dell’uomo che se n’era andato via con passo sdegnato: “dice che ti ha conosciuto tramite gli O.”

“Ah sì, in realtà non lo conosco, ma mi avevano accennato che sarebbe venuto. Certo, era meglio se avesse telefonato, prima di presentarsi qui. Gli hai detto di ripassare?”

Sì, glielo avevo detto. L’uomo, lo scuro dell’Africa nera, non si è più presentato alla nostra porta. Per qualche tempo l’ho rivisto in giro per il quartiere, non ci salutammo mai.

Negli anni ho imparato a gestire le fobie e le paure che fanno di molti di noi dei razzisti involontari e inconsapevoli. Ho cercato di entrare in contatto con persone di colore, di costruire con loro un rapporto di amicizia; non per sperimentare, ma per abbattere quel muro che sentivo fisico dentro di me. Ricordo ancora quando accettai un passaggio in macchina da un mio compagno di squadra, senegalese musulmano da parecchi anni in Italia, per andare insieme alla partita. Era la prima volta che rimanevo a lungo a chiacchierare con una persona di colore. Era alto, smilzo, con un sorriso allegro e una risata che imparavi ad amare subito. Quel suo italiano gutturale, l’accento africano, non lo riannodavo più a chissà quale immaginario; era solo la lingua che entrambi comprendevamo per esprimere i colori dei nostri pensieri, senza condizionamenti. In seguito avrei perfino raggiunto il centro di quella terra, soggiornando un mese a Lubumbashi, nel Congo: persone invece di foreste, umanità invece di animali selvatici, dedizione invece di avorio. Il muro non esisteva più, restava solo l’osmotico passaggio di idee, sentimenti, emozioni.

Con quel ragazzo senegalese parlai di lavoro, di integrazione, di ragazze, di fedeltà. Ogni preconcetto, per lo meno in quel contesto da spogliatoio, era svanito.

Barack Obama, il primo presidente nero degli Stati Uniti, ha detto più volte che “forse i condizionamenti non verranno eliminati mai dalla società, ma possiamo impegnarci a limitarli, ad esempio ponendoci delle semplici domande: sto lasciando fuori da me più preconcetti che posso? Sto facendo del mio meglio per giudicare la gente non per il colore della loro pelle, ma per in contenuti del loro carattere?”

La forza di queste parole non sta nella novità. Già una dozzina di anni prima che Obama le pronunciasse, io lo avevo scoperto da me che non si giudica una persona dal colore della pelle ma dalle sue idee e dalle sue azioni; anche  in chiave negativa. Fu proprio grazie al mio compagno di squadra africano. Eravamo negli spogliatoi la domenica dopo l’11 di Settembre, e non si parlava d’altro prima della partita: lui, alto e smilzo, sdentando il suo sorriso più allegro, aveva preso il centro dell’attenzione, e se n’era uscito fuori con un’affermazione agghiacciante: “avete visto? abbiamo fatto il culo agli Americani”.

Mi piace pensare di avergli detto “ma cosa cazzo stai dicendo”, ma non ricordo questo fatto con chiarezza. Qualcuno lo mandò platealmente a quel paese, ma nulla di più. Cioè, vidi con chiarezza quanto l’odio razzista possa sgorgare anche da chi, con ogni probabilità, del razzismo è stato vittima. Quel mio coetaneo lo giudicai un immenso ignorante non per il colore della pelle, ma per la crudeltà che aveva detto.

La forza delle parole di Obama non è nella novità, ma nel ripetere all’infinito che il razzismo è prima di tutto una dimensione individuale: chiunque, in gradi diversi, può nutrire preconcetti e condizionamenti che generano il fenomeno del razzismo. Perché il nocciolo della questione non è essere razzisti, ma l’atto di discriminare gli altri attraverso il colore della loro pelle, inchiodarli a una storia recente di padroni e schiavi, di razza pura e razza inferiore. Questo può avvenire involontariamente; ad esempio di sera, per strade di periferia, quando si incrocia un uomo di colore e si cambia lato della strada per la paura istintiva di essere rapinati; Obama racconta come la nonna che gli ha fatto da madre, bianca del Kansas, prendesse queste precauzioni. Oppure il razzismo può essere volontario, quando si bersaglia qualcuno con insulti verbali o gesti a sfondo razziale.

Ci vuole poco, pochissimo per segnare la vita di qualcuno di colore, e fargli subire sulla sua pelle l’antico veleno del razzismo. Bastarono alcuni secondi nel caso di cui fui testimone, otto anni fa circa. All’epoca lavoravo come insegnante di sostegno in una scuola alberghiera, e nella classe che seguivo c’era un quindicenne di colore, di chiare origini caraibiche, che per altro parlava l’italiano da madrelingua. Era l’ora di laboratorio, e non ricordo bene cosa venne a chiedermi quel ragazzino; so che lo accompagnai da uno degli assistenti di cucina. Era un 25enne dal forte accento siciliano, alto, con gli occhiali e con un ciuffetto sulla testa. Quando si trovò di fronte il ragazzino di origini caraibiche, cominciò a sbuffare.

“Mìì, ancora qui! Te l’ho già spiegato!” Seguì uno scambio di battute tra l’assistente di cucina e lo studente, e alla fine il 25enne meridionale allungò una mano in un canestro di frutta e prese una banana.

“Toh”, disse al ragazzino con un sorriso imbecille sulla faccia, “mangia. Per voi qui è facile mangiare le banane, non dovete arrampicarvi sugli alberi.”

Il quindicenne di origini caraibiche prese la banana e la guardò come se fosse un oggetto importante; risollevò il volto, i suoi gesti si rallentarono subito, anche le parole che farfugliò uscirono con un filo di voce. Su quel volto di giovane nero c’era tutta l’umiliazione del mondo. Un insegnante lo aveva appena paragonato a una scimmia, l’insulto razzista che non va mai fuori moda.

Io ero sconvolto; fissai quell’assistente di cucina con un’insistenza aggressiva. Il 25enne meridionale si riprese la banana, il suo sguardo, condito da un sorrisetto apologetico, ballò tra il volto del ragazzino e il mio: “E dai, si fa per scherzare, mica ero serio.”

Per come la vedo io, quello fu un episodio di razzismo volontario: l’assistente di cucina agì in una frazione di secondo, ma sapeva bene quello che stava facendo, capiva benissimo l’insulto terribile che stava pronunciando.

Basta per affermare che quel lavoratore siciliano fosse un razzista? Non credo che sia questa la questione rilevante, ma un’altra: è la ferita indelebile sulla pelle di un ragazzino, vittima di un’offesa razzista, che conta davvero.

Quando il vicepresidente del senato Roberto Calderoli paragona la ministra dell’integrazione Cécile Kyenge a un orango, bisogna soffermarsi sull’esperienza della Kyenge, non se Roberto Calderoli sia un razzista o meno. Si levi alla ministra lo scudo che ha coraggiosamente indossato per vivere con dignità la situazione; svestiamola della corazza educata con cui ha perdonato l’esponente leghista. Si guardi nel suo cuore rosso uguale a quello di tutti gli esseri umani, e si veda quanto pompi di rabbia e umiliazione; perché fa male quell’insulto, è carico di un disprezzo vecchio di centinaia di anni, ha il connotato di un binomio superiore/inferiore che ha separato intere comunità dalle altre, e ha riempito di lacrime e dolore generazioni di neri, a decine.

Chiunque abbia sottovalutato la vicenda – editoriali di una superficialità imbarazzante – non ha ancora compreso l’anima del razzismo, la sua immortalità, e l’offesa arrecata a chi lo subisce come insulto o discriminazione. Marcello Veneziani, ex consigliere Rai ed editorialista del Giornale, pretende di poter dare del “negro” a qualcuno reputandolo, dizionario alla mano, un termine legittimo; non dice però che la parola è strumentale alla divisione dell’umanità in razze, una visione che la genetica e lo stato di diritto squalificano, e gran parte della società cerca di respingere. E soprattutto a Veneziani non importa che quella parola rappresenti il retaggio di un’Italia colonialista, e suoni essenzialmente come un insulto per molti, anche per i bianchi caucasici.

Veneziani però non vuole essere tacciato di razzismo; e nemmeno Calderoli accetta di prendersi del razzista: quelli come loro non si reputano tali. In realtà sono gravidi di condizionamenti culturali che difficilmente si scioglieranno alla loro età.

Ma bisogna fargli arrivare questo messaggio a uno come Calderoli:

“vivi le tue giornate da razzista (in)volontario, provochi del male gratuito a delle persone facendo battute sul colore della pelle. Possono sembrare cose da poco, ma queste persone si sentono ferite da te, e te lo ripetono quotidianamente: tu gli laceri il cuore quando esci con quei paragoni raggelanti. Non sei stanco di perpetuare questo dolore?”

Se Calderoli capisse questo concetto, non si limiterebbe a presentarsi dalla Kyenge chidendo le scuse, ma nel suo animo si vergognerebbe di ciò che ha detto. Non credo sapremo mai cosa davvero provi Calderoli dopo questa vicenda.

Come non saprò mai se l’assistente di cucina si sia pentito del suo gesto, delle sue parole, e si sia ravveduto. A distanza di otto anni, io mi vergogno ancora per non avere difeso e protetto adeguatamente quel ragazzino nero. Solo, mi rinfranca pensare che gli studenti di oggi, grazie alle classi multietniche, crescano con molti meno condizionamenti e preconcetti di quando io avevo la loro età.

di Cristiano Arienti

In copertina Norman Rockwell: Il problema con cui tutti viviamo – opera del 1935

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