La Libertà di Stampa – di George Orwell

La Libertà di Stampa” è un saggio dello scrittore e giornalista inglese George Orwell (1903-1950), ed è un’analisi spietata sui meccanismi di censura e autocensura degli organi di informazione in un Paese ritenuto libero e democratico come l’Inghilterra della metà del ‘900. Il saggio è stato pubblicato per la prima volta nel 1972; in realtà doveva essere l’introduzione al romanzo La Fattoria degli Animali, scritto tra il 1943 e il 1944, ma pensato durante la guerra civile in Spagna (1936-1939), a cui l’autore prese parte tra le fila del Poum (Partito Operaio di Unificazione Marxista). In quegli anni Orwell fu testimone del sabotaggio del governo proletario ad opera del Partito Comunista spagnolo, supportato militarmente e finanziariamente dall’Urss di Stalin. Quell’esperienza, raccontata in “Omaggio alla Catalogna“, fu una rivelazione: lo scrittore andò oltre le barriere di “fascismo” e “comunismo”, e si concentrò sul concetto di totalitarismo. Non importa quale sia la base ideologica del sistema – religiosa, politica, sociale, economica: una élite al potere schiaccia la stragrande maggioranza; chi non si uniforma, viene perseguitato. La penna di Orwell riprodusse la perfetta macchina totalitaria nel romanzo di science-fiction 1984, applicabile a tutte le società dove si combattono guerre perpetue, i media sono controllati da pochi, e il passato viene modificato a piacimento.
La “Fattoria degli Animali“, invece, è un’allegoria della rivoluzione comunista, e di come la lotta di classe si è trasformata nel totalitarismo staliniano: da “tutti gli animali sono uguali”, si è passati al “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”.
Tuttavia, nell’Inghilterra del 1944 non si poteva parlar male di Stalin e della sua dittatura, perché era alleato nella lotta contro Hitler e i regimi nazi-fascisti. Come spiega Orwell nel suo prezioso saggio, i giornalisti si sono volontariamente censurati riguardo alla natura crudele dello stalinismo; l’opinione pubblica inglese era tenuta all’oscuro dell’Holodomor, il genocidio per fame degli Ucraini agli inizi degli anni ’30; e delle Grandi purghe, che tra il 1934 e il 1940 costarono la vita a oltre in milione di persone solo perché sospettate di non essere ciecamente fedeli al tiranno.
Nonostante Orwell fosse già un giornalista e scrittore affermato, il romanzo venne respinto da ben quattro editori, anche per il giudizio negativo del Ministro dell’Informazione dell’epoca. Nella metà del 1945, quando la II Guerra Mondiale era ormai vinta e all’orizzonte già si prospettava la rivalità tra Occidente e Comunismo, Secker & Warburg superò ogni timore e decise di pubblicare La Fattoria degli Animali; tuttavia all’ultimo venne tolto il saggio introduttivo, tanto che le copie della prima stampa presentano alcune pagine numerate vuote.
Il manoscritto “La Libertà di Stampa” è stato ritrovato nel 1972, ma ci sono voluti molti anni ancora prima che fosse finalmente inserito come prefazione alla La Fattoria degli Animali. Il contenuto di questo saggio è attuale più che mai, visto che alcuni argomenti di importanza vitale vengono sistematicamente ignorati o al massimo derisi dagli organi di informazione; ma in realtà sono, come direbbe Orwell, “impubblicabili perché sfidano l’ortodossia corrente”.
 
 
 
 
LA LIBERTA’ DI STAMPA di George Orwell – traduzione di Cristiano Arienti
Prefazione al romanzo “La Fattoria degli Animali” – 1943-1944

Iniziai a pensare a questo libro, per quanto concerne l’idea centrale, nel 1937, ma l’ho scritto solo verso la fine del 1943. Nel periodo in cui giunsi a scriverlo, era palese che ci sarebbero state grandi difficoltà per la sua pubblicazione (nonostante l’attuale penuria di libri assicuri che qualsiasi cosa definibile come libro prometta vendite), e alla fine il libro è stato rifiutato da quattro editori. Solo uno di questi aveva motivi ideologici. Due pubblicavano libri anti-russi da anni, e il quarto non aveva alcun colore politico riconoscibile. Un editore in realtà aveva esordito accettando il libro, ma dopo le intese preliminari ha deciso di consultare il Ministero dell’Informazione, che sembra averlo avvertito, o a ogni modo fortemente consigliato, di non pubblicarlo. Ecco un estratto della sua lettera:

“Ho fatto cenno della reazione che ho ricevuto da un importante ufficiale del Ministero dell’Informazione in riferimento a La Fattoria degli Animali. Devo ammettere che la sua opinione  mi ha fatto seriamente riflettere… ora riesco a capire perché l’opera possa essere vista come qualcosa da non pubblicare in questo periodo, e sarebbe stato poco accorto farlo. Se la favola si riferisse in generale ai dittatori e alle dittature in senso largo, allora pubblicarlo non avrebbe dato problemi; ma la favola segue, da come la vedo ora, in modo così aderente l’evoluzione dei Soviet russi e le loro due dittature, che può essere applicata solo alla Russia, escludendo le altre dittature. Un’altra cosa: sarebbe meno offensivo se la casta dominante nella favola non fosse impersonata dai maiali*. Penso che la scelta dei maiali come casta governativa senza dubbio offenderà molte persone, e in particolare chiunque sia un poco permaloso, e di sicuro i russi lo sono.”

*Non è ben chiaro se il suggerimento della modifica sia un’idea del Signor …, oppure provenga dal Ministero dell’Informazione; ma sembra avere un’aurea ufficiale. [Nota di Orwell]

Questo tipo di cose non sono un buon sintomo. Ovviamente non è auspicabile che un dipartimento governativo debba avere un qualche potere di censura (eccettuato per la censura per motivi di sicurezza nazionale, su cui nessuno ha da obiettare in tempo di guerra) su libri che non sono sponsorizzati in via ufficiale. Ma il principale pericolo per la libertà di pensiero e di parola oggi non è la diretta interferenza del Ministero dell’Informazione o di qualsiasi altro corpo ufficiale. Se case editrici e editori si adoperano da sé medesimi per tenere fuori stampa determinati argomenti, non è perché sono impauriti di una azione penale, ma perché temono l’opinione pubblica. In questo Paese la codardia intellettuale è il peggior nemico che uno scrittore o un giornalista debba affrontare, e a me pare che non ci sia stata la discussione che un fatto del genere merita.

Qualunque persona equilibrata e con esperienza giornalistica alle spalle ammetterà che durante questa guerra la censura ufficiale non sia stata particolarmente molesta. Non siamo stati oggetto del tipo di “coordinazione” totalitaria che sarebbe stato ragionevole attendersi. La stampa ha alcune giustificabili lamentele, ma in generale il Governo si è comportato bene ed è stato sorprendentemente tollerante con opinioni minoritarie. Il fatto sinistro sulla censura letteraria in Inghilterra è un altro: è soprattutto volontaria.

Idee impopolari possono essere silenziate, e fatti sconvenienti tenuti all’oscuro, senza bisogno di alcuna messa al bando ufficiale. Chiunque abbia vissuto a lungo in un Paese straniero saprà di casi di fatti da notizia sensazionale – cose che di per sé riceverebbero i titoloni – tenuti al di fuori della stampa britannica non per l’intervento del Governo, ma per un tacito accordo generale per cui non va bene menzionare un particolare argomento.

Per come i quotidiani funzionano, questo è facile capirlo. La stampa britannica è estremamente centralizzata, e la maggior parte degli organi appartiene a uomini facoltosi che hanno tutti i motivi per essere disonesti su certe tematiche cruciali. Ma lo stesso tipo di velata censura è operata anche nei libri e nei periodici, così come nelle opere teatrali, nei film e alla radio.

In ogni determinato momento esiste un’ortodossia, un corpo di idee che si presume venga accettato senza questioni da tutte le persone che ragionano in modo corretto. Non è propriamente vietato dire una cosa, un’altra, o quell’altra ancora, ma non è bene dirla; così come in epoca Vittoriana non era una cosa da farsi parlare di pantaloni in presenza di una signora.

Chiunque sfidi l’ortodossia prevalente si trova silenziato con sorprendente efficacia. Un’opinione genuina ma fuori moda non riceve quasi mai un giusto ascolto, sia sulla stampa popolare che sui periodici intellettuali.

In questo momento quello che viene chiesto dall’ortodossia prevalente è un’ammirazione acritica per la Russia sovietica. Tutti lo sanno, e quasi tutti si comportano di conseguenza. Qualsiasi seria critica al regime sovietico, qualsiasi rivelazione di fatti che il Governo sovietico preferirebbe tenere nascosti, sono in pratica impubblicabili. E questo complotto su scala nazionale per adulare il nostro alleato avviene, curiosamente, sullo sfondo di una genuina tolleranza intellettuale. Per quanto non sia permesso criticare il Governo sovietico, per lo meno si è ragionevolmente liberi di attaccare il nostro, di Governo. Difficilmente qualcuno pubblicherà un attacco a Stalin, ma è abbastanza innocuo attaccare Churchill, per lo meno nei libri e sui periodici. In 5 anni di guerra, e in 2-3 dei quali combattevamo per la sopravvivenza della nazione, innumerevoli libri, pamphlet e articoli invocanti un compromesso di pace sono stati pubblicati senza interferenze. Di più: sono stati pubblicati senza provocare particolare disapprovazione. Fin quando il prestigio dell’URSS non è intaccato, il principio di libertà di parola è stato tenuto in conto ragionevolmente bene. Ci sono altri argomenti vietati, e qui ne citerò alcuni, ma la prevalente attitudine verso l’URSS è di gran lunga il sintomo più serio. Esso è, come è sempre stato, spontaneo, e non è dovuto all’azione di un qualche gruppo di pressione.

Il servilismo con cui la stragrande maggioranza dell’intellighenzia inglese ha ingoiato e ripetuto la propaganda russa dal 1941 in avanti sarebbe davvero stupefacente se non fosse che in precedenza si è comportata in modo simile in molte altre occasioni.

Sui temi controversi, uno dopo l’altro, il punto di vista russo è stato accolto senza alcuna verifica e poi pubblicato in totale spregio della verità storica e della decenza intellettuale. Per fare un solo esempio, la BBC ha celebrato il 25° anniversario dell’Armata Rossa senza citare Trotsky. Questo è tanto accurato quanto commemorare la Battaglia di Trafalgar senza menzionare Nelson; eppure non ha scatenato nessuna protesta nell’intellighenzia inglese.

Nelle lotte intestine nei vari Paesi sotto occupazione [nazi-fascista], la stampa britannica, in quasi tutti i casi, ha parteggiato per la fazione favorita dai russi, e diffamato la fazione opposta; a tal fine qualche volta è arrivata a occultare prove documentali. Un caso particolarmente eclatante è quello del Colonnello Mihailovic, il leader jugoslavo dei Cetnici. I Russi, il cui protetto in Jugoslavia era il Maresciallo Tito, accusavano Mihailovic di collaborazionismo con i tedeschi. Questa accusa è stata prontamente raccolta dagli organi di informazione britannici: i sostenitori di Mihailovic non hanno avuto possibilità di ribattere, e i fatti che ribalterebbero l’accusa sono rimasti semplicemente al di fuori della stampa. Nel luglio 1943 i tedeschi hanno offerto una taglia di 100.000 dinari per la cattura di Tito, e una cifra simile per la cattura di Mihailovic. La stampa britannica ha battuto la grancassa sulla notizia della taglia su Tito, ma solo un giornale ha parlato (in una nota a margine) di quella su Mihailovic: e le accuse di collaborazionismo con i tedeschi sono continuate. Cose molto simile sono accadute durante la Guerra Civile spagnola. Anche allora, le fazioni in quota Repubblicana, che i russi erano determinati a distruggere, erano state diffamate in modo sconsiderato dalla stampa inglese di sinistra; e qualsiasi dichiarazione in loro difesa, perfino in forma di lettera, non venne mai pubblicata.

Oggi, non solo una vera critica all’URSS viene considerata reprensibile, ma l’esistenza stessa di tale critica è tenuta segreta in qualche caso. Per esempio: poco prima della sua morte, Trotsky aveva scritto una biografia di Stalin. Si dovrebbe desumere che non fosse un libro privo di pregiudizi, ma ovviamente era vendibile. Un editore americano aveva preparato l’uscita del libro; era in fase di stampa – credo che le copie per le recensioni fossero già state spedite – quando l’URSS entrò in guerra. Il libro è stato immediatamente ritirato. Non una parola è apparsa sulla stampa britannica, nonostante l’esistenza di tale libro e la sua soppressione fossero chiaramente un fatto da notizia, degno di qualche paragrafo.

E’ importante distinguere fra il tipo di censura che l’intellighenzia letteraria inglese si impone volontariamente, e la censura che qualche volta viene esercitata da gruppi di pressione. Notoriamente, certi argomenti non possono essere discussi a causa di “interessi particolari”. Il caso più conosciuto è il racket dei brevetti dei medicinali. Oppure, la Chiesa Cattolica ha una considerevole influenza sulla stampa e può mettere a tacere, più o meno, critiche nei suoi confronti. Uno scandalo che coinvolge un prete cattolico quasi mai finisce sotto i riflettori, mentre un prete anglicano che finisce nei guai (ad esempio il Rettore di Stiffkey) finisce sulle prime pagine. E’ molto raro che un progetto con una tendenza anti-cattolica finisca su un palco o appaia in un film. Qualunque attore può dirti che opere teatrali o pellicole che attacchino o ridicolizzino la Chiesa Cattolica siano oggetto di boicottaggio sulla stampa, e con ogni probabilità sono destinate al fallimento. Tuttavia, questo tipo di cose è inoffensivo, o almeno è comprensibile. Qualsiasi grande organizzazione tenta di proteggere i propri interessi meglio che può, e la propaganda dichiarata non è qualcosa su cui obiettare. Nessuno si aspetterebbe che il Daily Worker pubblichi fatti sfavorevoli all’URSS così come nessuno si aspetterebbe che il Catholic Herald denunci il Papa. Però chiunque dotato di raziocinio riconosce il Daily Worker e il Catholic Herlad per ciò che sono.

Quel che inquieta è altro: dove l’URSS e le sue politiche sono in discussione, non ci si può aspettare una critica intelligente o perfino, in molti casi, una chiara onestà da parte di scrittori o giornalisti liberal, nonostante non siano soggetti ad alcuna pressione per falsificare le loro opinioni. Stalin è intoccabile, e certi aspetti della sua politica non devono essere messi in seria discussione. Questa regola è stata osservata pressoché universalmente a partire dal 1941, ma era operativa, in una modalità molto più ampia di quanto a volte si riconosca, già nei dieci anni precedenti. In quel periodo si stentava a sentire una qualche critica al regime sovietico dalla sinistra. C’era una enorme distribuzione di scritti anti-russi, ma quasi tutti provenivano dal punto di vista dei Conservatori: chiaramente disonesto, retrogrado e con opachi motivi; dall’altro lato c’era, in egual misura enorme e disonesto, un profluvio di propaganda pro-Russia; e c’era l’equivalente di un boicottaggio per chiunque provasse a dibattere questioni cruciali in modo maturo. Si poteva, certo, pubblicare libri anti-russi; ma facendolo, si poteva star sicuri di venire ignorati o travisati dalla quasi totalità della stampa intellettuale. Si veniva avvisati, pubblicamente e privatamente, che “non si fa”. Quello che dicevi poteva anche essere vero, ma era “inopportuno” e faceva il gioco di questa o quella parte reazionaria. Tale atteggiamento di solito veniva difeso sulla base che fosse la situazione internazionale, e l’urgente bisogno di un’alleanza anglo-russa, a richiederlo; ma era chiaro che questo fosse un pretesto. L’intellighenzia inglese, o una gran parte di essa, aveva sviluppato una lealtà nazionalistica verso l’URSS, e nel loro cuore percepivano come blasfemo seminare dubbi sulla saggezza di Stalin. Eventi in Russia ed eventi in qualsiasi altra parte del mondo erano destinati a essere giudicati con metri differenti. Le interminabili esecuzioni durante le purghe del 1936-38 erano applaudite da chi, da una vita, si opponeva alla pena capitale; si considerava ugualmente appropriato da un lato rendere note le carestie in India, dall’altro celarle quando avvenivano in Ucraina. Se questo era vero prima della guerra, l’atmosfera intellettuale non è certo migliore adesso.

Ma ora torniamo a questo mio libro. La reazione che ha suscitato nella maggior parte degli intellettuali inglesi è alquanto semplice: “Non doveva essere pubblicato”. Naturalmente, quei recensori che conoscono l’arte della denigrazione non lo attaccheranno su basi politiche, ma su quelle letterarie. Diranno che è un libro leggero, sciocco, e uno scandaloso spreco di carta [La carta veniva razionata in tempo di guerra – N.d.R]. Certo che può essere vero, ma ovviamente non è tutta la storia. Uno non dichiara che un libro “non doveva essere pubblicato” solo perché è brutto. Dopo tutto, quintali di spazzatura vengono pubblicati ogni giorno e nessuno ha nulla da ridire. L’intellighenzia inglese, o la sua maggioranza, avrà da obiettare su questo libro perché ritrae il loro leader, e ciò (per come la vedono) danneggia la loro causa votata al progresso. Se avesse fatto l’opposto, quegli intellettuali non avrebbero nulla da rimproverare al libro, anche se i suoi difetti letterari fossero dieci volte più eclatanti. Il successo, ad esempio, del Left Book Club*, per un periodo durato 4 o 5 anni, mostra quanto siano disposti a tollerare scritti sia volgari che mediocri, basta che trasmettano quello che vogliono sentire.

*[Organizzazione editoriale dell’epoca vicina al Partito Comunista della Gran Bretagna – N.d.R]

Il problema qui esposto è abbastanza chiaro: ha diritto di essere ascoltata ogni opinione, per quanto impopolare – finanche assurda? Mettetela in questo modo, e praticamente ogni intellettuale inglese si sentirebbe di dover dire “Sì”. Ma siate più concreti, e domandate “Cosa ne pensi di un attacco a Stalin? Ha diritto, ciò, di ottenere ascolto?”: la risposta, il più delle volte, sarà “No”; questo perché l’ortodossia corrente è messa in dubbio, ed è così che il principio di libertà di parola sbanda. Ora, quando uno pretende la libertà di parola e di stampa, non sta chiedendo libertà assoluta. Ci deve essere sempre, o comunque ci sarà sempre, un qualche grado di censura, fin quando esisteranno le società organizzate. Ma la libertà, come Rosa Luxembourg [sic] disse, è “la libertà di chi la pensa diversamente”. Lo stesso principio è contenuto nelle famose parole di Voltaire: “Detesto quello che dici; difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo”. Se la libertà intellettuale, che senza dubbio è stata uno dei segni distintivi della civiltà occidentale, significa davvero qualcosa, è che ognuno deve avere il diritto di dire e pubblicare quello che reputa essere la verità, ammesso solo che ciò non danneggi il resto della comunità in un qualche inequivocabile modo. Fin di recente, sia la democrazia capitalista che la versione occidentale del socialismo hanno dato questo principio per scontato. I nostri Governi, come ho già avuto modo di dire, fanno ancora sfoggio della volontà di rispettarlo. La gente comune della strada – in parte, forse, perché non è sufficientemente interessata alle idee per arrivare a non tollerarle – ancora mantiene, vagamente, il “penso che ognuno abbia il diritto alla propria opinione”. E’ solo, o comunque è principalmente, l’intellighenzia letteraria e scientifica, proprio le persone che dovrebbero essere i guardiani della libertà, che cominciano a disprezzarla, sia in teoria che in pratica.

Uno dei fenomeni peculiari del nostro tempo è il liberal rinnegato. Oltre alla familiare espressione marxista che “la libertà borghese è un’illusione”, c’è ora una diffusa tendenza a sostenere che si può difendere la democrazia solo attraverso metodi totalitari. Chi ama la democrazia, risuona l’argomentazione, deve distruggere i suoi nemici a qualunque costo. E chi sono i suoi nemici? Appare sempre che siano coloro che la attaccano apertamente e scientemente, ma non solo: fra i nemici rientrano anche coloro che “oggettivamente” la mettono in pericolo diffondendo dottrine sbagliate. In altre parole, difendere la democrazia implica distruggere l’indipendenza di pensiero. Questo argomento è stato usato, ad esempio, per giustificare le purghe russe. Il più ardente russofilo faticava a credere che tutte le vittime fossero colpevoli di tutte le cose di cui venivano accusate: ma siccome quelle mantenevano opinioni eretiche, allora danneggiavano “oggettivamente” il regime, e perciò era discretamente giusto non solo massacrarle ma screditarle con false accuse. Lo stesso argomento era stato usato per giustificare la menzogna più o meno nota che girava per la stampa di sinistra sui Trotskisti e altre minoranze repubblicane nella Guerra Civile spagnola. Ed è stato usato ancora come un motivo per gridare contro l’habeas corpus* quando Mosley venne rilasciato nel 1943. *[il diritto di un incarcerato di vedere un giudice che decida sul suo stato d’arresto; Mosley era il leader dell’Unione Britannica dei Fascisti – N.d.R.].

Queste persone non capiscono che se s’incoraggiano metodi totalitari, potrebbe arrivare un giorno in cui quei metodi verranno usati contro di te invece che a tuo favore. Rendi un’abitudine imprigionare fascisti senza processo, e forse la modalità non si fermerà ai fascisti. Poco tempo dopo la riabilitazione del Daily Worker*, che era stato soppresso, tenni una lezione al Working Men’s College, nel sud di Londra. A seguirla c’erano intellettuali della classe operaia e della classe medio-bassa – lo stesso tipo di platea che di solito si incontrava nelle sedi del Left Book Club. La lezione aveva toccato l’argomento della libertà di stampa, e alla fine, con mio stupore, molti di coloro che ponevano domande mi chiesero: “Non pensa che sollevare il bando al Daily Worker sia stato un grande errore?”

*[Nel 1939 la linea editoriale del giornale criticava Stalin per il patto Molotov-Ribbentrop – N.d.R]

Quando domandai perché, dissero che fosse un giornale dalla dubbia lealtà, cosa che non doveva essere tollerata in tempo di guerra. Mi ritrovai a difendere il Daily Worker, che si è preso il disturbo di calunniarmi più di una volta. Ma da dove avevano appreso, queste persone, una visione essenzialmente totalitaria? Quasi certamente l’avevano imparata proprio dagli stessi comunisti! Tolleranza e decenza sono profondamente radicati in Inghilterra, ma non sono indistruttibili, e devono essere mantenuti in vita in parte attraverso uno sforzo cosciente. Il risultato di predicare dottrine totalitarie è di indebolire l’istinto attraverso cui le persone libere riconoscono cosa sia, o non sia, pericoloso. Il caso di Mosley è istruttivo. Nel 1940 era perfettamente giusto incarcerare Mosley, a prescindere dal fatto se avesse tecnicamente commesso un qualche crimine. Stavamo combattendo per le nostre vite e non potevamo permettere a un potenziale collaboratore di girare libero. Tenerlo incarcerato, senza processo, ancora nel 1943 era uno scandalo. C’è stata una generale mancanza nel capire che quello era un brutto sintomo, per quanto sia vero che le agitazioni contro il rilascio di Mosley fossero in parte forzate e in parte sfruttate per esprimere altre insoddisfazioni. Ma quanto del presente scivolare verso modi di pensare fascisti è tracciabile nell’ “anti-fascismo” degli ultimi 10 anni, e nella spregiudicatezza che di conseguenza si è generata? E’ importante capire che l’attuale “mania russa” è solo un sintomo di un più generale indebolimento della tradizione liberale occidentale. Se il Ministero dell’Informazione fosse intervenuto e avesse davvero posto un veto alla pubblicazione di questo libro, la maggior parte dell’intellighenzia inglese non ci avrebbe visto nulla di preoccupante. Succede che la lealtà acritica per l’URSS è l’ortodossia corrente, e dove vi siano supposti interessi dell’URSS, questi intellettuali sono disposti a tollerare non solo la censura, ma anche la deliberata falsificazione della storia. Per fare un esempio: alla morte di John Reed, l’autore de I dieci giorni che sconvolsero il mondo – un racconto di prima mano dei primi giorni della Rivoluzione Russa – i diritti d’autore passarono nelle mani del Partito Comunista Britannico, a cui credo Reed li avesse ceduti in eredità. Alcuni anni dopo i Comunisti Britannici, avendo distrutto con ogni mezzo possibile l’edizione originale del libro, fecero uscire una versione alterata dalla quale avevano eliminato ogni menzione di Trotsky; omettendo perfino l’introduzione scritta da Lenin. Se un’intellighenzia radicale fosse ancora esistita in Gran Bretagna, quest’atto di falsificazione sarebbe stato svelato e denunciato in ogni giornale del Paese. Invece la protesta fu debole o nulla. Per molti intellettuali inglesi sembrava una cosa abbastanza naturale da fare. E la tolleranza di una così aperta disonestà acquista un significato ben maggiore rispetto all’ammirazione per la Russia che oggi, è un fatto, è tanto di moda. E’ probabile che questa particolare tendenza non duri. Per quel che ne so, quando questo libro verrà pubblicato la mia prospettiva sul regime sovietico potrebbe essere quella generalmente accettata. Ma a che cosa potrebbe servire? Scambiare un’ortodossia per un’altra non è necessariamente un progresso: il nemico è il “pensiero a grammofono”, che prescinde dal fatto che uno sia d’accordo o meno con il disco che viene suonato al momento.

Conosco bene tutti gli argomenti contro la libertà di pensiero e di parola – quelli per cui non può esistere, e quelli per cui non dovrebbe esserci. Rispondo semplicemente che non mi convincono e che la nostra civiltà, lungo un periodo di 400 anni, si è fondata su un concetto opposto.

Ormai da una decade penso che l’attuale regime russo sia principalmente un qualcosa di malvagio, e reclamo il diritto di dirlo, nonostante il fatto che siamo alleati con l’URSS in una guerra che voglio vincere. Se dovessi scegliere un testo per giustificarmi, sceglierei un verso di Milton:

Secondo le note regole dell’antica libertà.” – [John Milton, Sonetto XII, 1646]

La parola “antica” rimarca il fatto che la libertà intellettuale è una tradizione con radici profonde, senza la quale la nostra caratteristica cultura occidentale potrebbe esistere solo in modo incerto. Da quella tradizione molti dei nostri intellettuali si stanno allontanando platealmente. Hanno accettato il principio che un libro possa essere pubblicato o soppresso, lodato o condannato, non secondo i suoi meriti ma per opportunità politica. E altri che in verità non condividono questa visione, la assecondano per pura codardia. Un esempio di questo è il fallimento di numerosi e rumorosi pacifisti inglesi a condannare la predominante adorazione del militarismo russo. Secondo questi pacifisti, tutta la violenza è malvagia, e ci hanno incalzato ad ogni fase della guerra ad arrenderci o almeno a fare un compromesso di pace. Ma quanti di loro hanno mai suggerito che la guerra è altrettanto malvagia quando è lanciata dall’Armata Rossa? In apparenza i russi hanno il diritto a difendersi, mentre per noi, farlo, è un peccato mortale. Uno può spiegare questa contraddizione in un modo: ovvero, con il desiderio codardo di rimanere dentro alla maggioranza dell’intellighenzia, il cui patriottismo è rivolto verso l’URSS piuttosto che verso la Gran Bretagna. So che l’intellighenzia inglese ha parecchi motivi per essere pavida e disonesta, di sicuro conosco a memoria gli argomenti con cui giustificano se stessi. Ma almeno risparmiamoci il nonsense di difendere la libertà contro il fascismo. Se la libertà ha un significato, questo è il diritto di dire alle persone quello che non vogliono sentirsi dire. La gente comune si attiene ancora vagamente a questa dottrina e si comporta di conseguenza. Nel nostro Paese – non è lo stesso ovunque: non era così nella Francia repubblicana, non è così negli Stati Uniti oggi – sono i liberali che temono la libertà, e gli intellettuali che vogliono corrompere l’intelletto: è per attirare l’attenzione su questo fatto che ho scritto questa prefazione.

1945

Traduzione di Cristiano Arienti

Testo originale di George Orwell ripreso dalla Orwellfoundation.com

In copertina: Quadro nero su sfondo bianco – Kazimir Malevich
 
Quadrato suprematista nero

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