Due israeliani e il legame tra un popolo e la terra

Quando si analizza il conflitto Israelo-Palestinese si tende a trascurare un aspetto decisivo: la connessione tra gli ebrei e la terra delle loro origini. E’ una relazione storica, religiosa e culturale con cui gli ebrei di ogni tempo e luogo si sono confrontati, volenti o nolenti, sin dall’infanzia. Ci sono dei testi sacri, letti o tramandati per via orale, che parlano delle pietre di Gerusalemme e degli ulivi nei campi, delle spiagge nel Mar di Galilea e di un cielo blu testimone di 4000 di storia. I paesaggi di quel pezzo di mondo sono da sempre memoria collettiva degli ebrei; costituiscono un punto di riferimento esistenziale incomprensibile per chi ebreo non è. Questo legame si è inspessito sempre di più a partire dalla fine del XIX secolo, quando prese forma il movimento sionista, cioè il ritorno degli ebrei nella terra degli avi, da dove i loro antenati erano stati scacciati centinaia di anni prima.

Dall’Europa cominciarono a partire giovani animati dal desiderio di visitare quella terra. Se il Tour europeo costituiva un arricchimento culturale, il viaggio in Terra Santa prometteva una sorta di trasformazione spirituale; e non solo per gli ebrei, essendo la Palestina ricca di luoghi sacri anche per i cristiani, oltre che per i musulmani. Ma quella era anche l’epoca delle grandi esplorazioni. E fu così che nel 1869 John McGregor, un avventuriero scozzese, decise di discendere il corso del fiume Giordano fino al mar di Galilea, per mappare il territorio.

Lo stesso identico viaggio è stato compiuto oltre 140 anni dopo da una coppia di video-artisti israeliani, Effi Weiss e Amir Borenstein, espatriati in Belgio nel 2004. Effi e Amir, che oggi hanno trentacinque anni circa, si sono trasferiti a Bruxelles perché non condividevano la politica colonialistica di Israele nei territori palestinesi. In quell’anno è partita la costruzione del muro divisorio lungo il confine ovest della Cisgiordania, per evitare che i kamikaze palestinesi si facessero saltare ancora nei bar e nei bus Israeliani; le monumentali lastre di cemento però, oltre a diventare il recinto visibile dentro cui sono stati confinati 4,5 milioni di palestinesi, si sono mangiate centinaia di chilometri quadrati di quello che, secondo gli accordi di Oslo del ’93, doveva diventare lo Stato Palestinese. E sempre in quel 2004 il governo di Tel Aviv, sotto la guida di Ariel Sharon, ha accelerato il processo di conquista della Cisgiordania, insediando, nel corso degli anni, quasi mezzo milione di coloni, e creando una divisione etnica che, criticamente, si può definire come una sorta di apartheid. Oggi il sionismo è diventato innegabilmente la cifra identitaria di molti ebrei in Israele; e ne spinge tanti a trasferirsi lì dall’Europa e dagli Stati Uniti. Il senso di appartenenza al luogo è così forte che rischia di oscurare altri sentimenti e valori: un corteo di giovani che si dichiarano razzisti e che cantano “morte agli arabi”, e aggrediscono chi manifesta contro la guerra e l’occupazione dei territori, è indice innegabile di una idea antidemocratica della società (fonte / fonte). Questo attaccamento alla terra, poi, ha ormai precluso ogni via politica per raggiungere un compromesso con i palestinesi, e riconoscere la loro aspirazione nazionale su una terra dove anch’essi hanno radice.

E il tema del profondo legame degli ebrei con quella terra è proprio al centro dell’incantevole documentario di Weiss e Borenstein: “Deux fois le même fleuve – Due volte lo stesso fiume”. Ripercorrendo le orme di McGregor, che scrisse un diario di viaggio, i due hanno tracciato un parallelo tra quel territorio che 140 anni fa era abitato solo da arabi, e lo stesso territorio oggi, un pezzo di Cisgiordania conquistato da Israele nel 1967 con la “Guerra dei sei giorni” (Area C). I due sono partiti dalle alture del Golan, sottratte alla Siria nel 1973, e precisamente dal monte Hermon, dove 4000 fa dio, secondo la fede ebraica, donò ad Abramo e al “popolo eletto” la terra promessa. Lì nascono le sorgenti del fiume Giordano, e da lì è iniziata l’indagine di Effi e Amir su cosa significhi essere israeliani, che ruolo ha quella terra nel carattere di un ebreo, e la natura stessa dello stato di Israele. I due video-artisti hanno posto queste semplici domande ai turisti incontrati lungo il fiume: ne sono nate conversazioni che rivelano l’attaccamento degli Israeliani verso quella terra, e il senso di profondo radicamento. Amano quel paesaggio in modo viscerale: lo venerano per l’eredità storica e religiosa; lo rispettano, perché bagnato dal sangue dei rivoluzionari che alla metà del ‘900 lottarono per fondare uno Stato indipendente; lo celebrano, perché in pochi anni una generazione ha costruito città e infrastrutture degne di un Paese all’avanguardia.

Eppure Effi e Amir non mancano di marcare la distonia tra la terra di oggi, e quella di un secolo e mezzo fa; interi villaggi arabi sono stati spopolati e rasi al suolo; e la presenza siriana è stata cancellata con le ruspe. Ci sono guide arabe che raccontano ai turisti arabi il passato ottomano; quelle israeliane, invece, illustrano una storia censurata, il racconto ininterrotto del rapporto sacro tra ebrei e quei luoghi. E tra le guide per bambini Amir ed Effi hanno incontrato una giovane recluta dell’esercito; alla domanda sul legame tra servire l’esercito e raccontare la storia di quei luoghi agli studenti, la giovane recluta ha risposto che lei lo vede il legame: “quando in futuro gli verrà chiesto di uccidere il nemico, dovranno almeno sapere perché è giusto farlo: per difendere questa terra meravigliosa”.

La giovane ha pronunciato quelle parole proprio in mezzo ai bambini, senza suscitare il minimo imbarazzo. In Israele è socialmente accettato l’assassinio del palestinese, o di un qualsiasi nemico, in azioni di guerra e di polizia; bene o male tutti servono nell’esercito, e ogni Israeliano è stato mentalmente pronto a sopprimere una vita. E i riservisti obiettori di coscienza, oltre a essere un’esigua minoranza, sono criticati in modo spietato.

La disposizione all’omicidio, giustificato o meno, è la conseguenza di un diritto a esistere costantemente minacciato, prima dalle nazioni arabe confinanti, poi dal terrorismo dell’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), e ora da Hamas, il movimento radicale islamico che usa la violenza come forma di lotta politica e di legittimazione di uno Stato Palestinese e negazione di Israele. Per stessa ammissione di uno dei turisti incontrati lungo il fiume, gli ebrei di Israele si sentono in uno stadio di assedio permanente; un sentimento a cui va aggiunta la paura ormai atavica di un antisemitismo sotterraneo, che periodicamente è uscito dalle tenebre per scacciare, convertire, sterminare.

E’ una guerra per il diritto a esistere, quello degli ebrei, che è incominciata secoli prima dell’atto di fondazione dello Stato di Israele, nel 1948, e ha avuto il suo apice più tragico con la “Shoa”, durante la II Guerra Mondiale. Da quell’evento è nata l’urgenza di reimpossessarsi della terra degli avi, nel passato poche migliaia di persone, e far vivere oggi milioni di ebrei in confini entro cui, grazie alle armi e a una volontà di ferro, possono sentirsi protetti.

In un’intervista del 1978 il ventottenne Benjamin Netanyahu, dagli anni ’90 leader della destra israeliana, affermò davanti a una platea americana che i nuovi confini di Israele dopo le guerre del 1967 e del 1973 non saranno mai in discussione per motivi di sicurezza; eppure, subito dopo, dichiarò: “nessuno vuole la pace più di Israele”. Nel 2011, a distanza di 33 anni, da primo ministro ha ripetuto le stesse parole di fronte al Congresso degli Stati Uniti, alleati di ferro di Israele: “nessuno vuole la pace più di Israele; ma i confini ridisegnati nel 1967 e nel 1973 non saranno mai in discussione per motivi di sicurezza.”

Da quel 2011 Israele ha indurito il regime di apartheid in Cisgiordania, e ha combattuto due guerre contro i palestinesi di Gaza. La pace di cui parla Netanyahu è una proiezione mentale di un futuro in cui i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania potranno rimanere nei “territori” a condizione di vivere in uno stato ebraico. Questo è lo scenario che prospettava Netanyahu nel 1978, e lì si sta arrivando; qualsiasi accordo precedente è lettera morta; e lì si arriverà indipendentemente dalla guerra con Hamas, dall’opposizione dell’Autorità Nazionale Palestinese, dalle proteste in tutto il mondo.

E a nulla sono valse le proteste, durate settimane, per fermare la guerra condotta tra luglio e agosto.

Gaza è ormai semidistrutta: ci vogliono sei miliardi di euro per ricostruire case e infrastrutture, e far ripartire un’economia che era già agonizzante dopo la guerra del 2008. I crimini perpetrati in quelle 4 settimane di conflitto, con 1400 vittime palestinesi di cui buona parte donne e bambini, sono rimasti impuniti; il “rapporto Goldstone” inchiodava il governo di Tel Aviv, oltre ad Hamas, alle sue responsabilità, ma la diplomazia americana neutralizzò ogni tentativo di fare giustizia in sede Onu (Wikileakes).

Il cessate il fuoco dell’ultima guerra, con oltre 2100 vittime fra i palestinesi e qualche decina tra gli Israeliani, è stato proclamato nemmeno un mese fa, e già Netanyahu ha comandato la confisca di 400 ettari di terra vicino a Betlemme; Gvaot non sarà nemmeno considerata colonia: diventerà parte dello Stato di Israele. E un nuovo appalto di 283 case ingrosserà la colonia di Elkana, nel centro-ovest della Cisgiordania.

Molti osservatori esterni vedono il predicare la pace e prendersi la terra come una contraddizione solare; la comunità internazionale non riconosce le colonie, sono illegali. Per una larga parte degli israeliani, invece, ormai è un processo di acquisizione di qualcosa che già gli appartiene, a livello corporeo e spirituale prim’ancora che politico e giuridico.

Lungo il fiume Giordano i due video-artisti espatriati hanno testimoniato questo nazionalismo radicale, consapevole, e da qualche anno senza compromessi. Amir ed Effi hanno seguito un percorso di “disconnessione” dalla terra, così la chiamano gli ebrei di Israele; lo hanno intrapreso per coltivare valori diversi rispetto all’ultra-nazionalismo che domina quella società. E’ hanno pagato un prezzo alto, almeno per Effi; lungo il Giordano l’indagine è diventata intima, e alla fine sono i due video-artisti a interrogarsi sul loro legame con quella terra. All’imbocco nel Mar di Galilea, remando nelle verdi acque, Effi ha scoperto che tutto, in quei luoghi, le parla, tutto la chiama: il senso di appartenenza è insopprimibile, nonostante le contraddizioni e le storture della società israeliana. Amir invece ha accumulato una tensione opposta: quei luoghi magnifici non parlano solo della loro storia e cultura, individuale e collettiva, ma raccontano di un presente che non rispecchia la sua concezione di umanità.

di Cristiano Arienti 

in Copertina: Il fiume Giordano, immagine tratta dal film “Deux Fois le même fleuve”

http://www.deuxfoislememefleuve.net/

“Deux Fois le même fleuve” è stato proiettato nella cornice del “Milano Film Festival 2014“, dal 4-14 Settembre.

Israeliani festeggiano i bombardamenti su Gaza dalle colline di Sderot (video Cnn – reporter Diane Magney)

 

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