La sovrapposizione del sistema finanziario alla democrazia

L’ombra lunga del sistema finanziario si è ormai sovrapposta al sistema democratico degli Stati Uniti: un processo avvenuto grazie al supporto economico dei comuni cittadini; e con il sacrificio di tutti quegli americani che nella crisi del 2008 hanno perso il lavoro, la casa, i risparmi di una vita. Questa è l’accusa della senatrice Usa Elizabeth Warren, in un infuocato discorso tenuto davanti ai colleghi il 12 dicembre scorso. La Warren, membro della Commissione Affari, ha elevato un grido di rabbia e indignazione per la misura salva-banche contenuta nel Budget Bill, la legge che eroga i finanziamenti al governo federale per i prossimi mesi, e quindi da approvare a tutti i costi.

Elizabeth Warren

Elizabeth Warren

Con un colpo di mano il Congresso ha cancellato un articolo chiave della Dodd-Frank, la Legge Quadro che dal 2010 regolamenta Wall-Street: ovvero la proibizione di salvare quelle banche con depositi assicurati che, scambiando derivati, i prodotti finanziari all’origine della Crisi del 2008, si espongono al rischio di bancarotta. Come ha sottolineato la Warren, questa misura, a parole, non piace né ai Democratici, né ai Repubblicani, e disgusta i cittadini comuni; e pur non avendo un padre, nessuno si prende la responsabilità di levarla: il motivo sta nell’attività di lobby esercitata dalle banche sui legislatori. La Warren non ha usato mezzi termini: le banche supportano le campagne elettorali dei politici, e quindi li vincolano a passare leggi favorevoli al sistema finanziario; o annacquare quelle che in teoria dovrebbero imbrigliare i tori scatenati di Wall-Street.

Nella Dodd-Frank originaria, ad esempio, era prevista una misura, la Brown-Kaufman, per ridimensionare le banche “too big to fail”, troppo grandi per fallire: si cercava di evitare che un singolo istituto, come CityGroup, rappresentasse un tassello insostituibili nell’architettura del sistema economico; pena, il crollo generale. Invece l’idea che una banca possa fallire, qualora si prenda rischi troppo alti, è avanzata da molti economisti e politici: togliere la rete di sicurezza sarebbe il solo modo di limitare le attività troppo azzardate dei vertici bancari. O impedire fenomeni come la cartolarizzazione di finanziamenti sub-prime, cioè debitori a forte rischio di insolvenza, come è accaduto nel decennio scorso. Nel 2013 Christine Lagarde, Presidente del Fondo monetario Internazionale (Fmi), ha spiegato che i colossi bancari sono più rischiosi che mai per l’economia. Eric Holder, ex Segretario della Giustizia Usa, ha raccontato che l’amministrazione Obama ha esitato a indagare le “Big Banks” di fronte ad attività fraudolente: c’è il timore di creare un impatto sui mercati, e colpire di conseguenza l’economia reale. Per questo molti ritengono una misura necessaria spezzettare le grandi banche; in questo modo si rendono i banchieri davvero responsabili delle loro azioni. La Warren ha coniato questa espressione: “Too Big to Trial – troppo grandi per essere processate”.

Tuttavia nel 2010, quando fu il momento di passare la Dodd-Frank, l’emendamento Brown-Kaufman venne liquidato dal Congresso grazie alla massiccia attività dei lobbisti. E la Warren, senza ironia ma a brutto muso, ricorda come i salari dei lobbisti, pagati dalle banche, fossero i soldi dei cittadini americani usati per arginare la crisi sistemica del 2008. E chi è sopravvissuto grazie alle risorse dei contribuenti sono pure i “think tank”, le fondazioni che studiano le misure a favore di Wall-Street.

Con la Dodd-Frank, anche senza l’emendamento Brown-Kaufman, si sperava almeno di compartimentalizzare le banche; limitare l’esposizione al rischio del mercato dei derivati significava scongiurare un nuovo virtuale fallimento del sistema bancario americano – e forse occidentale. Virtuale, perché la perdita secca di 613 miliardi di dollari, con la bancarotta di Lehman Brothers, venne compensata racimolando soldi dalle casse dei contribuenti americani; nessuna banca avrebbe avuto i fondi per coprire quella cifra. Così, in nome della stabilizzazione del mercato, alle “Big Banks”andarono subito 700 miliardi di dollari, e il governo americano si fece garante della loro esposizione sul mercato dei derivati, saturo di titoli-spazzatura. Titoli venduti su grande scala dalle grandi banche di investimento come Goldman Sachs e Chase-Manhattan già a partire dal 2006, quando ne avevano compreso la tossicità per via della bolla immobiliare dei sub-prime.

In un fine settimana del 2008 venne sconfessata la deregolamentazione (o autoregolamentazione) del sistema finanziario, una politica ultra-trentennale inaugurata dall’amministrazione Reagan-Bush, e incoraggiata da Alan Greenspan, lo storico presidente della Banca centrale degli Stati Uniti (Fed). Ma se nei periodici tracolli di Wall-Strett (1987, 1991, 2000) c’erano sempre stati dei perdenti e dei vincitori, nel 2008 non si sarebbe salvato nessuno, o almeno così ci dicono: oltre alle decine di piccoli istituti di credito, falliti realmente, sarebbero affondate anche le grandi banche d’investimento. A partire da CityGroup, la quale, come ha ricordato la Warren, in quel 2008 ebbe bisogno di un’urgente ricapitalizzazione di 140 miliardi di dollari, prestati gentilmente dal contribuente medio.

Ed è contro CityGroup che la senatrice Warren si è scagliata: dalla dirigenza della grande banca d’investimento, negli ultimi vent’anni, sono arrivati diversi uomini  a occupare i gangli economico-finanziari Usa. La Warren si è chiesta fino a che punto questi banchieri prestati alla politica facciano il bene della comunità, o difendano gli interessi degli istituti in cui si sono costruiti una carriera. L’attuale Segretario del Tesoro Jack Lew è stato Direttore Generale di CityGroup; e sempre nella stessa banca ricopriva una carica prestigiosa Stan Fischer, l’attuale vice-presidente della Fed.

E proprio Fischer, durante una conferenza dello scorso 12 dicembre, ha offerto un’analisi speculare all’arringa della Warren; a partire dall’influenza che la lobby bancaria esercita ancora sui legislatori del Congresso americano. Ma se la Senatrice dà voce alle ansie e alle preoccupazioni dei cittadini comuni, il vice-presidente della Fed descrive un sistema finanziario che si è ormai sovrapposto a quello democratico, anche a livello internazionale. Lui stesso ha spiegato come.

Nell’aprile del 2009, quando bisognava reagire alla crisi sistemica del settore bancario, a Londra si riunì il G20, in rappresentanza dei Paesi più popolosi del pianeta, e oltre a quelli economicamente più rilevanti. Si decise di mettere sotto tutela l’Fmi (all’epoca presieduto da Dominique Staruss-Khan) e di creare un organismo indipendente di vigilanza del settore finanziario: il Financial Stability Board (Fsb), emanazione del Financial Stability Forum, nato nel 2005.

Sotto la guida di Mario Draghi, ex Direttore Generale di Goldman Sachs Int (2002-2005) e futuro presidente della Banca Centrale Europea, i funzionari dell’Fsb cominciarono a bussare alle porte delle banche per appurare quanti titoli tossici fossero in circolazione. Poi iniziarono a presentarsi anche nei Ministeri del Tesoro degli Stati sovrani, compresi quelli che non avevano sottoscritto il patto di monitoraggio. Fu così che Fisher, capo della banca centrale di Israele (Fischer ha la doppia cittadinanza), dovette aprire i libri dei bilanci e farseli spulciare per settimane. La stessa cosa capitò alla Nuova Zelanda, che protestò molto per quell’ingerenza non richiesta. E quando l’Fsb visitò la Grecia, si scoprì che Atene aveva nel bilancio una quantità monumentale di derivati; glieli aveva venduti nel 2001 la banca Goldman Sachs, truccando i conti per entrare nell’Euro.

Se pochi mesi prima CityGroup aveva ricevuto sull’unghia 140 miliardi di dollari di ricapitalizzazione, con Atene si è scelta la strada della ristrutturazione del debito (haircut) e pesantissime riforme sullo stato sociale; sulle spalle dei greci è rimasto un debito insostenibile, e l’illusione di poter andare avanti contraendo nuovi debiti sul mercato. Una mossa che ha fatto sprofondare i Greci in un abisso senza ritorno.

La crisi, scatenatasi nel settore finanziario, si è propagata agli Stati sovrani, in particolare quelli con debiti molto alti. Il rischio insolvenza è passato quindi ai governi. E l’Fsb ha preteso che le banche centrali di tutti i Paesi sottostessero a una disciplina finanziaria per normalizzare i debiti e conformarsi alle regole dei mercati. Un percorso cominciato nel 2009, che, secondo il vice-presidente della Fed, è destinato a durare a lungo. E Fischer lo ammette, l’Fsb è molto, molto potente: ha dettato la linea a intere macro-regioni, e ormai controlla le decisioni dei governi in campo economico, senza rispondere a nessun corpo elettorale. Del resto i cittadini, ha aggiunto, “si disinteressano di queste faccende astruse, e se ci mettessero il naso, finirebbero per prendere decisioni sbagliate”. Per Fischer invece, chi può aiutare a legiferare meglio, nonostante si palesi un conflitto con il sistema democratico, sono i banchieri: sono loro gli esperti del settore, e sanno come farlo funzionare bene.

La senatrice Warren invece è convinta dell’esatto contrario: ormai i cittadini non sono più al riparo dalle disastrose politiche del sistema bancario, infiltratosi in modo irreversibile nelle istituzioni democratiche.

PS: Il mercato globale dei derivati è stimato attorno ai 710 trilioni di dollari.

Di Cristiano Arienti

http://baselinescenario.com/2014/12/10/dont-repeal-swaps-push-out-requirements-section-716-of-dodd-frank/

http://www.zerohedge.com/news/2014-12-14/fed-vice-chairman-shocked-wall-street-influence-after-jamie-dimon-whips-cromnibus-vo

http://www.washingtonpost.com/blogs/wonkblog/wp/2014/12/16/elizabeth-warren-was-right-the-links-between-citigroup-and-government-run-deep/?Post+generic=%3Ftid%3Dsm_twitter_washingtonpost

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