L’Iran nella crisi siriana

Dopo oltre quattro anni di guerra e più 250.000 vittime, 7,6 milioni di sfollati all’interno del Paese e più di 4 milioni di persone in fuga verso altri Paesi – il più grande disastro umanitario del mondo, hanno rimarcato ieri i Ministri degli Esteri della UE – nella crisi siriana si è aperto un nuovo capitolo: l’Iran ha già sul campo centinaia di truppe a difesa di Bashar al-Assad, Presidente della Siria, e si preparerebbe a inviarne molte altre. L’operazione rischia di peggiorare l’ostilità con l’Arabia Saudita, che da anni supporta le fazioni ribelli contro il regime di Damasco: un conflitto sotterraneo che assomiglia a una corsa per il dominio regionale, in un Medio Oriente lacerato da tensioni etniche tra arabi e persiani, e settarie tra sunniti e sciiti. Per il petrolio e la sua posizione strategica, poi, è un’area che resta di primaria importanza per superpotenze come Stati Uniti e Russia, Francia e Gran Bretagna: questi Paesi hanno già intrapreso azioni militari, ufficialmente contro l’ISIS, lo Stato Islamico dell’Iraq e Levante. In realtà le potenze regionali e le superpotenze straniere sembrano combattere ognuno per i propri interessi geopolitici, correlati al mantenimento del regime di Assad, o alla sua caduta.

È di ieri il pronunciamento del Consiglio dei Ministri degli Esteri UE: nel sostenere come unica soluzione possibile al conflitto la via politica, e confermando che Assad non può essere un partner nella lotta contro l’ISIS, la dichiarazione finale del vertice afferma: «L’UE si impegnerà attivamente con i principali attori regionali quali, Arabia Saudita, Turchia, Iran, Iraq e i partner internazionali, nel quadro delle Nazioni Unite, per costruire le condizioni per una transizione pacifica e inclusiva». come dire che la UE, parte in causa nell’accordo sul nucleare, invita l’Iran a scegliere un percorso alternativo, politico e non militare.   Per comprendere il ruolo dell’Iran nelle dinamiche della crisi siriana, abbiamo incontrato Michele Brunelli, Docente di Storia e Istituzioni delle civiltà musulmane e asiatiche presso l’Università Statale di Bergamo.

Che tipo di attore è stato l’Iran nella crisi siriana? Oggi sembra avere un ruolo attivo: è stato così anche nei primi anni del conflitto?

Nella primissima fase della crisi siriana, quando nel 2011 la gente è scesa per strada chiedendo ad Assad riforme democratiche, l’Iran non ha avuto nessun ruolo. Con il passare del tempo, però, le origini della protesta sono state stravolte: l’obiettivo è diventato abbattere il regime di Damasco, da almeno 30 anni stretto alleato di Teheran. A questo punto sono entrate in gioco le grandi potenze straniere, come Russia e Stati Uniti, e le potenze regionali, come gli Stati del Golfo; la Siria è diventata il teatro di quello che io chiamo un ‘conflitto globale locale’. Proprio l’intraprendenza dell’Arabia Saudita, un Paese sunnita-wahhabita, ha spinto l’Iran ad attivarsi: Riyadh, insieme agli Stati Uniti, ha supportato sul piano logistico e finanziario le fazioni dei ribelli siriani, tra cui gruppi affiliati ad Al Qaeda; ha tentato, insomma, di spezzare la mezzaluna sciita, che da Teheran passa per la Siria, e arriva in Libano.

Possiamo considerare l’intervento dell’Iran di tipo espansionistico? Quali interessi difende nel conflitto siriano?

No, secondo la mia esperienze sul campo, posso dire che l’Iran non ha velleità egemoniche nella regione. Il suo coinvolgimento nella crisi siriana è dettato da motivi di sicurezza nazionale. L’obiettivo principale dell’Iran è il ritorno alla stabilità in Iraq, un Paese in crisi dal 2003, quando gli Stati Uniti lo invasero. Una crisi peggiorata con la partenza delle truppe americane, nel 2011. Il Governo centrale, a maggioranza sciita ma di etnia araba, ha perso il controllo delle province a ovest di Baghdad; si è creato un vuoto di potere colmato dagli eredi qaedisti di Al Zarqawi; a loro si è aggiunta una galassia di estremisti sunniti, provenienti anche dalla Siria, e fusi nell’ISIS. Ecco la vera grande minaccia per Teheran: il progetto del Califfato porta con sé l’idea di uno Stato settario puro, espansionista, che stermina i non-sunniti. Gli iraniani in Siria difendono un loro alleato storico, ma gli va dato atto di essere stati i primi a identificare la caduta di Assad con il sorgere di un agglomerato di estremisti sunniti con i quali nessuno, al di fuori degli Stati del Golfo, potrebbe dialogare.

Gli Stati Uniti e i Paesi europei, ufficialmente, sono impegnati a combattere l’ISIS: come mai sembrano disdegnare l’impegno dell’Iran?

Perché l’obiettivo degli Stati Uniti era abbattere Assad in modo indiretto, attraverso il supporto a gruppi ribelli, tra cui proliferano fondamentalisti islamici. Infatti nel 2013 il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama, dopo l’accusa al regime di Damasco di usare armi chimiche, non ha lanciato l’offensiva militare: avrebbe comportato l’impiego di truppe di terra. Paradossalmente l’Occidente critica l’Iran, quando è quest’ultimo che contro l’ISIS mette sul terreno gli uomini; Washington e la capitali europee si limitano a bombardamenti aerei, ma così non piegheranno mai gli estremisti sanguinari che controllano un’area che va da Tikrit a Raqqa, e rischiano di travolgere Damasco.

Gli Stati Uniti, insieme alle potenze europee, Turchia e Stati del Golfo, chiedono alla Russia di fermare i bombardamenti in Siria: l’Iran ha avuto qualche ruolo nel coinvolgimento di Mosca nel conflitto?

Senza nulla togliere alla diplomazia di Teheran, il Presidente russo Vladimir Putin ha deciso in modo del tutto autonomo: in Siria difende gli interessi di Mosca, cioè la base navale di Tartus, sul Mediterraneo. Certo, i missili russi lanciati dal Mar Caspio attraversano lo spazio aereo iraniano: quindi esiste un canale di comunicazione tra Mosca e Teheran per la riuscita di queste operazioni militari. Di sicuro è attivo anche sul campo: gli obiettivi strategici e tattici di Russia e Iran convergono in Siria. Il problema è capire perché questi obiettivi non vengano condivisi dalle potenze occidentali, se vogliono combattere l’ISIS, la cui espansione rappresenta davvero il pericolo più grave.

Federica Mogherini, Alto Commissario per gli Affari Esteri dell’Unione Europea, e Frank-Walter Steinmeier, Ministro degli Esteri della Germania, hanno lanciato una proposta per risolvere la crisi siriana: va sfruttata la Conferenza di Ginevra tra i Paesi del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, Germania, Unione Europea, più Iran, dove si è sbloccata l’annosa questione del programma nucleare iraniano a scopo civile. È una soluzione praticabile? Contando che Alì Khamenei, Guida Suprema del Paese, ha escluso canali diplomatici con gli Stati Uniti al di fuori dei colloqui sul nucleare.

Secondo me l’Iran è disposto a mantenere aperti i canali diplomatici con l’Occidente, e la Conferenza di Ginevra rappresenta un tavolo negoziale collaudato. Però, senza un gioco ricattatorio del tipo: ‘tu Iran ci aiuti a risolvere la crisi siriana, e noi ti concediamo di sviluppare l’energia nucleare a scopo civile’. Se a Teheran fosse riconosciuto un ruolo diplomatico, sarebbe un importante passo avanti in Medio Oriente. Coltivare il cammino della politica è nell’interesse dell’Iran: otterrebbe una maggior stabilità, dopo la grave crisi economica scatenata dalle sanzioni degli scorsi anni. E anche l’Europa tornerebbe a investire a lungo termine nel Paese persiano.

Nella Conferenza di Ginevra è mancato un attore fondamentale in Medio Oriente, Israele, che ha duramente criticato l’accordo sul nucleare iraniano; una posizione condivisa anche dai neoconservatori americani. Come reagirebbe il Premier israeliano Benjamin Netanyahu se l’Esercito di Teheran diventasse la colonna difensiva di Damasco e degli Assad?

Netanyahu ha scelto una tattica vincente sui negoziati per il nucleare iraniano, e più in generale sulla crisi in Medio Oriente dopo le Rivolte Arabe: sostanzialmente si è tenuta fuori. Nel secondo caso, per non attirarsi la rabbia e la frustrazione dei regimi investiti dalle proteste di piazza. Per quanto riguarda il nucleare iraniano, Netanyahu ha scelto la strada della propaganda: agitare la paura che Teheran possa dotarsi dell’atomica, dà consensi in politica interna; e intimorisce in politica estera, perché si dice pronto ad agire in qualunque momento contro l’Iran. Per quanto riguarda i neoconservatori americani, già nel 2003, con l’invasione dell’Iraq, rappresentavano un anacronismo sullo scenario internazionale; oggi sono dei dinosauri, distaccati dalla realtà.

I neoconservatori, però, supportano l’Arabia Saudita: come si può risolvere la crisi siriana se esistono tensioni così forti tra l’Iran e, appunto, un’Arabia Saudita appoggiata da una fazione importante della politica americana?

Negli Stati Uniti e in Europa esiste molta disonestà intellettuale: da molti anni si tollera il doppio gioco dell’Arabia Saudita: da un lato Riyadh è un alleato di ferro per motivi economici e strategici; dall’altro finanzia gli stessi gruppi che terrorizzano i cittadini americani ed europei. Non si capisce perché solo l’Iran debba essere considerato un elemento destabilizzante in Medio Oriente e nel mondo musulmano, e non l’Arabia Saudita. In Siria si combatte una ‘guerra globale locale’: se lo schema della Conferenza di Ginevra può essere una risposta sul piano globale, l’Istituzione di una lega Arabo-Persiana permanente aiuterebbe a risolvere la crisi regionale del Medio Oriente.

di Cristiano Arienti

– Articolo pubblicato sul giornale L’Indro

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