COP21 e Cina: il fronte nella lotta ai cambiamenti climatici
La Cina è il maggior produttore di CO2 al mondo, con circa 10 miliardi di tonnellate all’anno; basti pensare che la somma delle emissioni del secondo e del terzo produttore a livello mondiale, rispettivamente Stati Uniti e Unione europea, supera di poco i 9 miliardi. Dagli inizi degli anni 2000, in concomitanza con il boom che l’ha trasformata in un gigante industriale, la Cina ha di fatto triplicato le emissioni di gas serra, velocizzando il fenomeno del Riscaldamento Globale.
Proprio per proteggere la crescita economica, nel 2009 Pechino fu tra i protagonisti del fallimento della Conferenza sul Clima di Copenhagen (COP15), che puntava a migliorare il Protocollo di Kyoto. All’epoca la Cina, con circa 8 miliardi di tonnellate, era già il massimo produttore di CO2 al mondo: il suo piano di riduzione dei combustibili carbon-fossili fu giudicato insufficiente, ma si rifiutò di ritoccarlo: era l’Occidente, affermava Pechino, a dover tagliare ulteriormente le emissioni di gas serra, dopo due secoli di sfruttamento selvaggio dei carbon-fossili.
Se l’Unione europea già dal 2008 aveva sterzato, per motivi ambientali e strategici, verso le rinnovabili, gli Stati Uniti, grandi produttori di carbon-fossili, oltre che di gran lunga i maggiori consumatori pro-capite, non accettarono nessun tipo di accordo senza un coinvolgimento più concreto di Pechino.
Dopo Copenhagen e il mancato rinnovo dell’UNFCCC (Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici), la Cina ha però dovuto fare i conti con il “danno collaterale” del boom economico: l’inquinamento atmosferico. In un articolo del 2013 apparso su Lancet, l’ex ministro della salute cinese Zhu Chen ha scritto: circa 500.000 persone all’anno muoiono per malattie legate alle emissioni di gas inquinanti. Da tempo il problema sociale era tracimato sui social-network, nonostante la censura del regime; il governo è stato spinto a cambiare posizione sullo sfruttamento dei carbon-fossili.
Nel novembre del 2014, dopo una trattativa riservata, Cina e Stati Uniti hanno annunciato congiuntamente i loro piani per la riduzione dei gas serra, più un’articolata cooperazione nella lotta ai Cambiamenti Climatici; l’intesa tra i due maggiori produttori di CO2 è stata celebrata come il miglior viatico per la COP21 (Ventunesima Conferenza delle Parti), che si tiene a Parigi dal prossimo 30 novembre all’11 dicembre. In quella sede 195 Paesi, più l’Unione europea, cercheranno un accordo per limitare l’innalzamento delle temperature globali sotto i 2°C, rispetto al periodo pre-industriale, entro il 2100. Secondo l’IPCC, il foro delle Nazioni Unite che studia i Cambiamenti Climatici, già la soglia dei 2°C è pericolosa; un aumento superiore, invece, impedirebbe all’uomo di adattarsi a rapidi mutamenti, come l’aumento delle temperature globali, lo scioglimento dei ghiacci, l’innalzamento dei mari. Per questo ogni Paese è stato invitato a consegnare alle Nazioni Unite un INDC (Intended Nationally Determined Contribution), il piano di interventi per ridurre le emissioni dei gas serra.
Nel suo INDC la Cina ha delineato un lungo percorso per smarcarsi dalla dipendenza del carbone: Pechino si impegna a costruire una società ecologica, prospera e armoniosa; ma soprattutto, lo sviluppo economico, mantenendo una crescita sostenibile, dovrà raggiungere l’obiettivo di un basso sfruttamento dei carbon-fossili. Il picco di emissioni di CO2 è previsto entro e non oltre il 2030 (il picco, gli Stati Uniti, lo hanno raggiunto nel 2007, complice anche la Crisi del 2008).
In un articolo dello scorso gennaio, Carlo Carraro, Professore di Economia Ambientale all’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha analizzato il piano di riduzione di gas serra della Cina: spiega che Pechino dovrebbe raggiungere il picco entro il 2025, se vuole essere consistente con l’impegno di tenere l’aumento delle temperature globali sotto i 2°C entro il 2100.
Il problema per calcolare la produzione di energia
Dal 2009 la Cina è già indirizzata in questo percorso, per quanto giudicato insufficiente: entro il 2020 punta a un taglio di CO2 del 40%, per unità di PIL (Prodotto Interno Lordo), rispetto ai livelli del 2005; e sta attuando un incremento del 15%, sempre per unità di PIL, di energia derivata da fonti non-fossili, nucleare compreso.
L’unità di misura standard adottata dai cinesi per calcolare l’energia non è il KW/h, quindi in elettricità, ma è il valore medio di calore prodotto dalle centrali a carbone; solo in un secondo momento si procede a una conversione dei dati ottenuti in consumo effettivo di elettricità, carbone, e quindi in emissione di gas serra. Questo metodo viene utilizzato anche per misurare il contributo delle energie non-fossili nella produzione di energia.
Joanna Lewis è docente di “Scienza, Tecnologia, e Affari Internazionali” presso la Georgetown University di Washington, Stati Uniti: Science ha appena pubblicato uno suo studio titolato “Comprendere gli obiettivi della Cina per l’energia non-fossile“. La Lewis, insieme a tre colleghi, ha provato ad attuare la conversione in elettricità effettivamente prodotta, utilizzando i dati ufficiali sul calore delle centrali a carbone relativamente al 2010: i risultati variavano a seconda del tipo di conversione (in tonnellate di carbone; oppure in termini di consumo totale di energia equivalente al carbone in tonnellate, o altri metodi); anche il computo dell’energia non-fossile variava: da un basso 3%, fino al 9%; quest’ultimo dato, il più ottimista, viene presentato come quota ufficiale delle rinnovabili su scala annuale.
Utilizzando le diverse metodologie di calcolo, la ricercatrice ha provato ad analizzare gli obiettivi dell’INDC di Pechino.
Entro il 2030 la Cina punta a un taglio delle emissioni del 60-65%, rispetto ai livelli del 2005, e a un incremento dell’energia derivata dai non-fossili del 20%; un dato, quest’ultimo, che potrebbe abbassarsi al 9% utilizzando un metodo di conversione piuttosto che un altro, come calcolato dalla Lewis. Di conseguenza, si abbasserebbe anche il taglio effettivo di CO2 emessa, a parità di energia consumata, rispetto agli obiettivi fissati da Pechino.
Secondo la Lewis è necessario introdurre in Cina lo stesso rilevamento-dati utilizzato dall’IPCC. Altrimenti rimane difficile valutare l’impatto delle sue politiche nel settore energetico, o compararlo con quello di altri Paesi.
Anche Carlo Carraro, nutre dubbi sugli obiettivi dichiarati da Pechino: impongono l’installazione, da qui al 2030, di impianti carbon-free che, sommati a quelli esistenti, produrrebbero più energia delle centrali a carbone attualmente in funzione.
Verso la transizione economica
Oggi, secondo i dati riferiti al 2014, la Cina ottiene il 9,5% di energia dalle fonti rinnovabili, l’1,5% dal nucleare, il 22% dall’idrico e il 67% dai carbon-fossili.
Nel suo INDC Pechino si impegna a moltiplicare la produzione di energia solare, che in Cina ha già il mercato più grande del mondo; punta anche a sviluppare l’eolico e il marino, e intende raddoppiare la produzione di energia nucleare. Nell’INDC promette lo sfruttamento del gas naturale, meno climalterante rispetto al carbone, e l’ottimizzazione dell’efficienza energetica. Particolare importanza viene data anche alla difesa delle foreste del Paese, e all’aumento, in milioni di ettari, di nuovi boschi.
In più Pechino vuole implementare in alcune province uno scambio di quote di carbonio: un piano “cap-and-trade” sul modello europeo, per non oltrepassare una soglia prestabilita di emissioni di gas serra; se si rivelasse funzionale, verrevbbe esteso in altre regioni del Paese. Ci sarà, poi, una maggior rigidità nei permessi per utilizzare il carbone come combustibile: un approccio che ha già portato, nei soli primi quattro mesi del 2015, a un taglio effettivo di CO2 equivalente alle emissioni dell’intera Gran Bretagna nel medesimo periodo.
In questo senso è incoraggiante un’altro punto contenuto nell’INDC cinese: Pechino accetta verifiche da parte di organismi internazionali; una voce assente in quello degli Stati Uniti.
Anche a livello legislativo Pechino offre garanzie nella lotta ai Cambiamenti Climatici: ha già approntato impianti normativi per una transizione energetica, verso una società a basso consumo di carbon-fossili: ad esempio il “National Strategy for Climate Change”, il “National Plan on Climate Change 2014-2020”; il “China’s Science and Technology Action on Climate Change”; il “National Strategy for Climate Adaptation”.
Dal nome di queste leggi, si ha l’impressione che la Cina abbia davvero compreso la pericolosità del Riscaldamento Globale, e sia pronta a impegnarsi concretamente nella lotta ai Cambiamenti Climatici. Per questo si è dichiarata disponibile a un accordo vincolante a Parigi, purché lo si raggiunga tramite consenso e non per imposizione.
Lo scorso 28 settembre, davanti alla sessione plenaria delle Nazioni Unite, il Presidente cinese Xi Jinping ha affermato: “Dobbiamo costruire un ecosistema che metta al primo posto Madre Natura e lo ‘sviluppo verde’. L’uomo può sfruttarla, e anche trasformarla; ma alla fine, noi siamo parte della Natura: dobbiamo prendercene cura, e non elevarci al di sopra di essa. Dobbiamo riconciliare lo sviluppo industriale con la Natura. Costruire una sana ecologia è vitale per il futuro dell’umanità”.
Di Cristiano Arienti
https://www.umanistranieri.it/category/ambiente/
https://www.umanistranieri.it/2015/11/cop21-usa-leader-fragili-lotta-cambiamenti-climatici/
http://edgar.jrc.ec.europa.eu/news_docs/jrc-2014-trends-in-global-co2-emissions-2014-report-93171.pdf
https://www.eia.gov/environment/emissions/carbon/