I lager libici: la sicurezza e la coscienza

Non hanno fatto nulla di male. Le mani aggrappate alle sbarre, i piedi nudi nello sporco, negli occhi i riflessi di orrori vissuti sulla pelle; fra le labbra disidratate scivola esalato “aiutami, per favore aiutami”, rivolto al funzionario d’ambasciata in visita, o al giornalista, o al medico dell’organizzazione umanitaria. Non hanno fatto nulla di male. Sono partiti tempo fa dalla pancia di regioni lontane, luoghi inabitabili per guerre e miserie, dove spesso i confini sono tracce solo su cartine; e ora provano il dolore vero, quello che prostra il fisico; il dolore incomprensibile che scombussola la psiche; il dolore pesante che stritola lo spirito.

Il dolore che ti rende naturale e fisso il pensiero “non ce la faccio più”.

Non hanno fatto nulla di male. Scappano dalla guerra. Cercano di raggiungere una meta chiamata vita migliore. Sono 600.000, secondo le stime ufficiose: molti vivono rinchiusi nelle centinaia di lager libici dove la tortura è una attività come un’altra; se sei donna lo stupro, con addosso il carceriere o uno sconosciuto, ha una probabilità alta; e il pensiero della fine è sempre lì, come un’ombra; e lì resta, accanto agli imprigionati, ogni volta che il funzionario in visita, o il giornalista, o il medico, non riesce a tirarli fuori da quei simil-canili.

Non hanno fatto nulla di male.

La loro vista, attraverso ad esempio i reportage di Domenico Quirico de La Stampa, e Francesca Mannocchi su l’Espresso, mesta le nostre coscienze; sapere che uomini, donne e bambini sono imprigionati laggiù, ci deve portare a una domanda: cosa stiamo facendo per salvarli?

A livelli istituzionale, l’Unione europea non starebbe facendo nulla; è l’accusa rivolta da varie agenzie Governative, come l’UNHCR (Alto Commissariato ONU per i Rifugiati); e dalle ONG, come Medici Senza Frontiere (MSF). Anzi, gli accordi stipulati dall’Italia con Tripoli, per limitare le partenze, sono una sentenza di condanna per chi è stipato nei lager. Sarebbe necessario, viene ripetuto, aprire un corridoio umanitario ufficiale.

Per tutti questi anni, il corridoio è stato gestito dai trafficanti libici, ed è tutt’altro che umanitario, visto che in 2300, solo nel 2017, sono annegati nel Mediterraneo; e nonostante la presenza delle navi ONG al largo della Libia. I potenziali naufraghi, soccorsi nel Canale di Sicilia con il coordinamento della Guardia Costiera italiana, vengono trasferiti a Lampedusa, ad Augusta, a Catania, a Salerno.

Si parla solo di porti italiani, perché le altre mete europee rimangono sprangate. E’ per questo che in l’Italia ha assunto un ruolo di primo piano: perché abbandonata dall’Europa nella gestione di chi sbarca. Il nuovo attivismo in Libia si è però attirato numerose critiche; all’inizio dell’estate la polemica era concentrata sul codice di condotta per le navi delle ONG. Contro Roma è stata sollevata la questione morale: mettete in pericolo la vita di chi attraversa il Canale di Sicilia.

Adesso, con il tentativo di chiudere la rotta libica, le accuse delle ONG si focalizzano sul presunto sostegno dell’Italia agli aguzzini dei lager. La campagna mediatica, ad esempio di MSF, fa leva sull’opinione pubblica, e suona così, mentre scorrono immagini degli orrori perpetrati sugli incarcerati: siete a posto con questa realtà? Siete comodi nelle vostre case, mentre il governo fornisce sostegno a chi asseta, stupra, tortura, uccide? Vi state comprando la sicurezza, a vostro dire insidiata da una crisi immigrati che non esiste, sulla pelle di chi, non avendo fatto nulla di male, vive in un incubo.

La domanda da farci, secondo la logica di MSF, non è più “cosa stiamo facendo per salvarli”, ma un’altra: “perché, con la complicità dei nostri governanti, stiamo condannando quei disperati alla sofferenza?”.

La nostra coscienza, la sicurezza dei migranti

Adesso che gli occhi di tutti si sono spostati dal Mar Mediterraneo all’entroterra libico, che da anni si ingoia la vita degli africani sub-sahariani, il velo è stato strappato: la Libia assomiglia sempre di più al caos della Somalia. Il Governo di unità nazionale di Al-Serraj, sostenuto dalle Nazioni Unite, vive assediato negli uffici di Tripoli; basta una parola fuori posto perchè bande armate compiano attentati contro ministri, o minaccino fisicamente funzionari pubblici. A est, nelle città maggiori della Cirenaica, il Generale Haftar si vede come l’unica guida del Paese, ed è ormai un interlocutore a livello internazionale. Fra il Presidente sponsorizzato dall’Onu, e il Generale che ha schiacciato lo Stato Islamico, c’è un arcipelago di illegalità dove il criminale di turno comanda sul suo pezzo di terra, gestisce traffici illegali, detta legge su cose e persone.

I migranti, anche questo lo sappiamo da anni, sono una merce: venduti come schiavi, o rapiti e poi riscattati dalle famiglie d’origine; le donne abusate o costrette a prostituirsi. Organizzare una decina di traversate via mare frutta milioni di dollari.

Adesso, come raccontano gli ultimi dispacci dalla Libia, il Governo Serraj, si vocifera finanziato dall’Italia, sta ingaggiando quelle stesse bande per bloccare le partenze. Lo sforzo diplomatico, iniziato mesi fa, ha coinvolto anche i capi dei villaggi di frontiera, e le tribù che controllano le rotte desertiche. L’Unione Europea ha stretto accordi commerciali con i Governi di Niger e Chad, sul confine meridionale, per bloccare le vie delle migrazioni.

Con la rotta libica molto meno praticabile, resta il problema più intricato: i migranti incastrati nei lager. Una soluzione sarebbe trasferirli tutti verso l’Europa, attuando un programma di smistamento fra i 28 Paesi: i 600.000 si sommerebbero ai quasi 200.000 giunti nell’ultimo anno in Italia.

Questa estate l‘UNHCR si è attivata, chiedendo di trasferire con urgenza circa 20.000 rifugiati; ma l’appello è rimasto inascoltato.

Per quei disperati, la prospettiva annullerebbe il rischio di annegare fra le acque del Mediterraneo. Ma l’ipotesi si sfracella contro la realtà: la suddivisione dei richiedenti asilo sbarcati in Italia (e Grecia) via mare, decisa nel 2015, non viene rispettata; i Paesi dell’est Europa li rifiutano, in nome di una purezza etnica da salvaguardare. La quota non verrà rispettata, quasi certamente, nemmeno dopo che la Corte Europea di Giustizia (EJC), il massimo organo giurisdizionale dell’Unione Europea, si è pronunciata contro Ungheria e Slovacchia. Ma anche gli altri Paesi Ue, dati alla mano, stanno assorbendo i richiedenti asilo sbarcati in Italia con il contagocce. E i rimpatri dall’Europa sono lenti per motivi legali e burocratici.

In Libia, invece, i rimpatri, sono gestiti dai singoli Paesi africani e asiatici, o assistiti dalla IOM, l’Agenzia per i Migranti delle Nazioni Unite; ma fino ad agosto 2017, erano stati solo poche migliaia: i funzionari d’ambasciata hanno difficoltà a censire il numero di connazionali stipati nei lager; non si sa nemmeno con esattezza quanti siano, nel caos libico.

La sicurezza dei libici, la coscienza dei leader nel 2011

L’ingovernabilità della Libia, si spera, farà scuola. Il Paese nel 2006 uscì definitivamente dal rango di “Stato canaglia” riallacciando le relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti; era ancora il periodo della War on Terror post-11 Settembre. Nel 2008 il Colonnello Gheddafi, quarantennale padrone del Paese, aveva addirittura stretto un’alleanza con l’Italia. Nel 2009 suo figlio Mutassim fu accolto dal Segretario di Stato Hillary Clinton, per rilanciare la cooperazione fra Washington e Tripoli. E proprio l’affidabilità dei figli di Gheddafi, al netto della brutalità di ogni regime illiberale, e la maniacale eccentricità del Colonnello, imponeva la Libia come un partner internazionale.

Lo scoppio delle Rivolte Arabe, nel febbraio 2011, ha creato le condizioni per il caos di questi ultimi anni; se una parte del popolo libico voleva liberarsi da una dittatura, gli anglo-americani, i francesi, ma anche le monarchie del Golfo, hanno afferrato l’occasione per rinegoziare l’accesso al pregiato petrolio libico, e sbarazzarsi di un interlocutore scomodo.

Tutto è partito con la ribellione di Bengasi, scoppiata il 17 febbraio 2011. Il Generale Abdul Younis, ministro dell’Interno, venne incaricato di sedare la rivolta. Giunto in Cirenaica, passò al comando dei rivoltosi. Il 22 febbraio venne eletto Capo delle Forze armate ribelli, dando il là alla formazione di un Consiglio di Transizione Nazionale (NTC), guidato dal dimissionario Ministro della Giustizia Mustafà Jalil.

Sono le ore in cui i leader di Francia e Gran Bretagna invocano la no-fly-zone nei cieli libici, per evitare “un genocidio in stile bosniaco” – ma come evidenzia il Rapporto della Commissione parlamentare degli Affari Esteri della Gran Bretagna, quella minaccia pendente su Bengasi era stata magnificata ad arte.

Younis e Jalil, insieme ad altri fedelissimi di Gheddafi, intuirono, o furono informati, di un inevitabile intervento militare.

E sono i giorni in cui a Bengasi giunse il personale di Medici Senza Frontiere; per la precisione il 25 febbraio. Non è dato sapere con chi fu coordinato l’arrivo, né chi erano i riferimenti sul campo del capo-spedizione; né che tipo di protezione fosse garantita allo staff. (UmaniStranieri ha contattato MSF, senza ottenere risposte ai quesiti).

Quel 25 febbraio Younis, in un’intervista alla BBC, spiegò: “Gheddafi combatterà fino alla morte”.

Con i tamburi di guerra ormai assordanti, e l’arrivo di ONG a Bengasi a proiettare un senso di ineluttabilità al conflitto, non valsero a nulla i tentativi di mediazione dell’Unione Africana, del premier Italiano Silvio Berlusconi, o dell’ex Premier britannico Tony Blair. O le promesse di riforme dei figli di Gheddafi, con annesso invito alla Comunità Internazionale per verificare che non fosse in corso nessun “genocidio”. La macchina bellica era in moto; l’Unione Africana venne ignorata; l’Italia, riallineata sotto la minaccia di bombardare i pozzi petroliferi dell’Eni in Libia. Ai Gheddafi veniva dato un ultimatum: fatevi da parte.

All’Onu il Segretario di Stato Usa Clinton stava già lavorando a una Risoluzione per armare i ribelli, e bombardare l’esercito libico in tutto il Paese. Una dichiarazione di guerra truccata, che avrebbe in seguito bloccato una qualsiasi risoluzione in sede Onu della macelleria siriana.

Nei primi mesi della guerra di liberazione – o di cambio di regime –  fu inesorabile il progressivo collasso dello Stato libico e il crollo delle infrastrutture del Paese. C’era chi, come Younis, manteneva aperti canali con i Gheddafi, nella speranza di mettere fine agli scontri. Per paura che tradisse la rivoluzione, il Capo delle Forze Armate ribelli venne rapito a Bengasi e giustiziato il 28 luglio 2011. Non vi è certezza se sia stata una fazione di radicali islamici, come si dice, o uomini del NTC, come si sospetta: di sicuro fu il segnale che le lotte intestine, in Libia, non avrebbero risparmiato nessuno; nemmeno l’Ambasciatore americano Chris Stevens, trucidato poco più di un anno dopo da filo-qaedisti. Il posto di Younis venne occupato da un altro Generale, quell’Haftar che oggi detta legge in Cirenaica. Nel 2014 Washington invitò i cittadini Usa a lasciare la Libia immediatamente, a causa della sua instabilità.

Il conflitto finì ufficialmente nell’ottobre 2011, con l’attacco missilistico della Nato sul convoglio di Gheddafi, e il conseguente linciaggio del dittatore libico. Da allora, il Paese è attraversato da una guerra civile a bassa intensità; si è balcanizzata la legge del più forte sui più deboli, cioè i comuni cittadini libici; una legge della giungla esercitata con ferocia sui migranti in  transito.

Da un punto di vista morale, quindi, a necessitare di un immediato aiuto non ci sono solo i migranti: i 6 milioni di libici, dopo la grande illusione di libertà e democrazia, non vanno abbandonati al loro destino.

La Libia va sostenuta nella ricerca di stabilità a livello politico e sociale, affinché non rimanga uno Stato fallito; ma come può raggiungerla se resta il far-west di bande armate, fuorilegge, e carovane di migranti?

Questa sarebbe una domanda da girare a Medici Senza Frontiere; per altro già accusata da Frontex, l’agenzia UE per il controllo delle frontiere, di essere un “pull-factor”: cioè di incoraggiare, con la presenza di una sua nave al largo delle coste libiche, la partenza dei migranti. Un’accusa rivolta anche a un’altra dozzina di ONG; e diretta anche al vecchio approccio italiano, inaugurato con “Mare Nostrum” dall’ottobre 2013, dopo l’ecatombe di oltre 600 annegati in due naufragi al largo di Lampedusa. Le ONG, difese da più parti, hanno definito infamante l’accusa, e destituita di fondamento.

Tra luglio e agosto 2017, da quando l’Italia si è attivata per chiudere la rotta libica, gli sbarcati si sono ridotti a 15.000: nello stesso periodo del 2014 furono 50.000, e 45.000 nel 2016 e nel 2017 (fonte).

La nostra sicurezza, la coscienza dei leader di oggi.

L’ondata migratoria via Libia punta all’Europa, e l’Italia è un approdo naturale. Nel 2016 sono sbarcate nel nostro Paese quasi 200.000 persone.

L’idea che nei prossimi 20 anni arrivino in Italia milioni di persone via mare, è inutile negarlo, può generare xenofobia; e le cronache recenti lo testimoniano. La xenofobia, come scrive Luca Ricolfi sul Messaggero, non è l’odio per lo straniero, ma la paura che nella propria comunità si stanzino troppe persone di lingua diversa, con usanze e religioni particolarmente identitarie. Se per alcuni, con l’arrivo di 200.000 persone in pochi mesi, sorge un problema di accoglienza, per altri è anche un discorso di ordine pubblico e sociale.

Scrive Ricolfi: la paura non è irrazionale, ma deriva dalla percezione che la politica migratoria sia fuori controllo. Un conto è dire: gli immigrati in Italia sono solo l’8% della popolazione; un altro è vivere in aree urbane dove quella percentuale si è moltiplicata a vista d’occhio negli ultimi anni. Una cosa è dire: gli immigrati regolari sostengono l’erogazione delle pensioni, come spiega Boeri, presidente dell’INPS; un altro è sapere che, in un periodo di crisi, parte delle risorse vengono destinate a persone giunte in Italia senza regolare permesso.

Altra questione è l’associazione immigrati-crimine. Si stima, riporta Ricolfi, che il tasso di delinquenza degli irregolari sia di molto superiore a quello degli italiani. La proporzione riguarda alcuni reati particolarmente efferati (fonte P.M. Solivetti). Si pensa che la questione sia ingigantita da allarmismi mediatici: in realtà basta che un conoscente, o un abitante del quartiere, sia vittima di un reato commesso da stranieri, perchè si diffonda la percezione che la politica migratoria sia disfunzionale.

Non fa nulla di male un cittadino italiano se, per un’idea della propria sicurezza, rifiuta l’idea che in Italia sbarchino in una estate 600.000 persone. O che l’Italia debba accogliere una moltitudine di libici, se il caos di questi anni trasformasse il Paese in una nuova Somalia. Chiaro: si può essere in pieno disaccordo con tale posizione, e considerare la xenofobia come qualcosa di molto negativo.

Ma il rifiuto di quel cittadino non si traduce automaticamente in disinteresse per la sorte di chi è incastrato nei lager di Sabrata, Zuwara, Tajura, Aydabja; o per il futuro del popolo libico.

Le questioni non possono generare disaccordo: salvare quei disperati, e sostenere i libici, devono essere una priorità del Governo italiano e della Comunità Internazionale; soprattutto per quei Paesi che spinsero per l’intervento militare del 2011. Ci vollero appena una ventina di giorni per assemblare una coalizione, e ottenere una Risoluzione da parte del Consiglio di Sicurezza Onu: un mese dopo la rivolta di Bengasi, nella cupola celeste della Libia sfrecciavano cacciabombardieri francesi, britannici, americani, giordani, del Qatar e degli Emirati Arabi.

Ci fosse la medesima volontà e urgenza, i lager verrebbero trasformati in veri centri di accoglienza sotto l’egida dell’Onu; facilitando lo smistamento dei rifugiati, o il rimpatrio dei migranti economici.

I corridoi umanitari implorati dalle ONG diventerebbero una soluzione: ma non per alimentare nuovi flussi, destabilizzando ulteriormente la Libia.

Se i leader del 2011 hanno sulla coscienza una guerra che forse si poteva evitare, e una politica post-bellica chiaramente inadeguata, i leader di oggi rischiano di passare alla storia per l’immobilismo di fronte ai lager in Libia, e il totale disinteresse per la sorte dei libici.

di Cristiano Arienti

In copertina: Migrante incarcerato in Libia –  foto di A. Romenzi per l’Espresso.

Fonti e Link utili

http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/02/17/news/nel-centro-lager-di-garian-dove-finisce-l-umanita-1.295644#gallery-slider=undefined

https://www.theguardian.com/world/blog/2011/feb/25/libya-turmoil-gaddafi-live

http://www.huffingtonpost.it/2017/08/07/torture-sovraffollamento-malnutrizione-caldo-malattie-linf_a_23068827/

http://www.lastampa.it/2017/08/15/esteri/libia-nella-roccaforte-degli-scafisti-dove-inizia-linferno-dei-migranti-zOyIGR965g0JImpGz94izJ/pagina.html

http://www.unhcr.org/news/latest/2017/7/595a470d4/refugee-migrant-flows-libya-rise-report.html

https://www.umanistranieri.it/2017/07/migranti-il-naufragio-e-la-paura/

https://www.umanistranieri.it/2016/09/guerra-in-libia-falso-intervento-umanitario/

https://www.umanistranieri.it/2014/01/immigrati-italia-europa/

https://www.umanistranieri.it/2016/03/da-obama-alla-clinton-gli-usa-in-medio-oriente-e-le-conseguenze-per-leuropa/

http://espresso.repubblica.it/internazionale/2017/09/08/news/migranti-la-costa-dei-lager-1.309011

http://www.latimes.com/world/middleeast/la-fg-us-libya-20140627-story.html

https://www.aspeninstitute.it/aspenia-online/article/italy%E2%80%99s-new-policy-migration-libya-will-it-last

https://www.crisisgroup.org/middle-east-north-africa/north-africa/libya/quick-fixes-wont-block-libyas-people-smugglers-long

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