Russiagate: la condanna di Papadopoulos e le manovre dell’FBI
La mattina del 27 gennaio 2017 agenti dell’FBI si presentarono a casa di George Papadopoulos, ex membro della Campagna Trump, chiedendogli di seguirli in centrale; erano trascorsi sette giorni dall’insediamento del magnate newyorchese alla Casa Bianca. I due agenti desideravano porgli alcune domande sulle interferenze dei russi nelle elezioni, e la presunta collusione fra il Cremlino e la Campagna di Donald Trump. Papadopoulos, analista di politica energetica nell’area mediterranea, ne era entrato a far parte a marzo 2016, e si era speso per organizzare un incontro fra l’allora candidato repubblicano e il Presidente russo Vladimir Putin: nei colloqui con i direttori della Campagna aveva recepito la visione di una di pacificazione fra Mosca e Washington; ma forse era un tentativo dettato più dall’ambizione, che dalla fattibilità dell’evento: l’analista non aveva accesso a canali diplomatici con i russi. La madre di Papadopoulos, quando gli agenti FBI bussarono alla porta, gli consigliò di chiamare un avvocato; ma George, convinto di non avere nulla da nascondere, acconsentì a offrire dichiarazioni “volontarie”.
In centrale, gli agenti FBI posero a Papadopoulos domande precise; in particolare, questa: “Ha ricevuto informazioni sulla campagna presidenziale da agenti governativi russi? E quando?”
La risposta la conoscevano già perchè è l’informazione seminale che, a fine luglio 2016, aveva dato il via a “Crossfire Hurricane”, l’indagine FBI sulla presunta collusione fra Cremlino e Campagna Trump. Era stato Alexander Downer, Ambasciatore australiano al Commonwealth presso Londra, a far pervenire all’FBI il pettegolezzo di una conversazione avuta con il giovane analista: “Nel maggio 2016, durante una serata alcolica, Papadopoulos mi confidò che i russi erano in possesso di materiale compromettente su Hillary Clinton.”
Downer aveva fatto quelle rivelazioni all’FBI dopo la pubblicazione, il 22 luglio 2016, di email interne del Partito Democratico da parte di Wikileaks, l’organizzazione per la trasparenza fondata da Julian Assange: materiale esplosivo, in cui Hillary Clinton emergeva come la nomination designata prima che le primarie avessero inizio; e a causa del quale i vertici del Partito si erano dimessi. Downer pensava che Papadopoulos, durante la loro conversazione, si riferisse a quelle email.
Ecco perché quando Papadopoulos spiegava di non aver mai ricevuto informazioni compromettenti, gli agenti FBI non si accontentavano, e lo sollecitavano con domande del tipo: “sei a conoscenza che i russi avessero intenzione di svelare informazioni sulle elezioni prima del voto?”
E’ in quel momento che Papadopoulos menziona gli incontri con il “professor Mifsud” e la sua confidenza sul fatto che “i russi possiedono materiale compromettente su Hillary Clinton in forma di migliaia di email”.
“E quando sarebbe avvenuto questo dialogo?”, chiedono gli agenti FBI.
“A febbraio”, è stata la risposta; cioè prima che entrasse a far parte della Campagna Trump.
E’ la menzogna che ha incastrato Papadopoulos. Gli agenti FBI, in seguito, ricostruirono gli intercorsi con Joseph Mifsud, e non corrispondevano alle dichiarazioni di quel 27 gennaio 2017; e nemmeno a quelle riproposte durante un secondo interrogatorio, in presenza di un avvocato, rilasciate il 16 febbraio 2017.
Ecco che i tentativi di Papadopoulos di organizzare un incontro fra Trump e Putin diventarono più che sospetti; all’FBI non lo consideravano un “coffee boy”, come tentava di dipingerlo l’entourage di Trump, visto che aveva presenziato alla prima riunione sulla sicurezza nazionale presieduta dal candidato repubblicano.
Sotto la lente d’ingrandimento finì la corrispondenza con Olga Polonskaya, una amica di Mifsud, spacciata per una persona capace di spalancare le porte di Mosca; e soprattutto con Ivan Timofeev, Direttore dei Programmi del Valdai Club, una conferenza annuale che si tiene in Russia, e alla quale Putin è l’ospite d’eccellenza.
A fornire a Papadopoulos i contatti di Timofeev, per approfondire il progetto di un incontro fra Trump e Putin, era stato Mifsud, in una email del 19 aprile. Ed è il 26 aprile successivo che il “professore”, di ritorno dalla Russia, avrebbe confidato a Papadopoulos delle email della Clinton in mano ai russi. O almeno, questa è la versione nell’incriminazione dell’Investigatore Speciale Robert Mueller.
All’epoca le email del DNC, secondo un altro capo d’accusa di Mueller, quello contro i 12 hacker del Cremlino, non erano ancora state esfiltrate; l’operazione sarebbe avvenuta solo a fine maggio 2016. Era però stato penetrato, attraverso semplice phishing, l’indirizzo di posta elettronica di John Podesta, Capo Campagna di Hillary Clinton – anche questa operazione addebitata ai russi.
Il Professore maltese
In quello scenario investigativo, il personaggio chiave diventa proprio Mifsud, diplomatico maltese con incarichi presso l’italiana Link Campus di Roma e le britanniche London Academy of Law e la London Centre of International Law Practice (LCILP): nell’incriminazione viene definito un agente russo e intermediario del Cremlino – sebbene Timofeev non facesse parte del Governo russo. Ma a questo punto Mifsud potrebbe aver ricevuto quell’informazione da chiunque, non per forza di Timofeev – per altro interrogato dall’Investigatore Speciale e mai incriminato.
Va ricordato, poi, che a marzo del 2016 era stato estradato negli Usa l’hacker Marcel Lehel (aka Guccifer), condannato in Romania per aver penetrato gli indirizzi di posta elettronica di personaggi politici: fra i quali Sid Blumenthal, consigliere di Hillary Clinton quando guidava il Dipartimento di Stato durante l’Amministrazione Obama. La corrispondenza della Clinton era stata girata a Russia Today nel 2013. Di più, all’inizio di maggio 2016 Lehel affermò di aver hackerato il server privato di Hillary Clinton, utilizzato per le comunicazioni governative, incluse quelle classificate.
Affermazioni che, ben prima delle pubblicazioni del DNCleak o delle Podestaemail, avevano rinsaldato il sospetto: i russi erano in possesso di email e/o materiale compromettente sulla Clinton.
Per l’FBI, tuttavia, le rivelazioni di Lehel non erano credibili – sebbene l’inchiesta sull’emailgate abbia concluso che le difese del server di Clinton erano inesistenti. Bastò, invece, un pettegolezzo per convincere l’FBI che i russi, tramite Mifsud-Papadopoulos, comunicarono alla Campagna Trump di avere hackerato le email del DNC, pubblicate da Wikileaks.
Perciò l’FBI il 27 luglio 2017 arrestò Papadopoulos all’aeroporto di Washington DC, di ritorno da un viaggio fra Grecia e Israele. Il successivo 5 ottobre 2017, si dichiara colpevole per aver mentito all’FBI su tempistica ed estensione dei contatti con “agenti russi”; accetta di collaborare con l’Investigatore Speciale, che indicherà una pena fino a sei mesi di carcere. Nel dispositivo legale, Mueller spiega come Papadopoulos, con le sue menzogne, avesse ostruito l’indagine: siccome anticipò l’incontro con Mifsud di due mesi, a quando ancora non faceva parte della Campagna Trump, all’FBI non compresero la rilevanza di Mifsud.
Una tesi che suscita perplessità: il 6 febbraio 2017 l’FBI ebbe modo, una decina di giorni dopo la deposizione di Papadopoulos, di interrogare Mifsud, in visita negli Usa per una conferenza. Alla domanda se con il giovane analista avesse discusso di sicurezza informatica sulle Campagne presidenziali, Mifsud risponde semplicemente no. Quanto basta all’FBI per far salire il professore su un aereo per l’Europa, lasciandosi scappare il presunto intermediario del Cremlino.
Nelle settimane precedenti, davanti al Congresso, James Clapper, Direttore della National Intelligence (ODNI), aveva presentato un rapporto che implicava il Cremlino negli attacchi informatici ai danni di Hillary Clinton. E alla Casa Bianca, attorno al Presidente Barack Obama, ormai in uscita, si erano riuniti i vertici della Comunità di Intelligence e della Sicurezza Nazionale per valutare la gravità dell’attacco russo alle istituzioni americane, e alla probabile collusione di pezzi della Campagna Trump. Il professore maltese, nella narrativa del Russiagate, era già l’uomo in grado di svelare i segreti di tale attacco.
Anche perché a febbraio 2016, la falsa data offerta da Papadopoulos sul fatidico incontro, l’FBI era stato allertato da tempo dall’Intelligence olandese sul fatto che i russi tentassero di hackerare il Partito Democratico.
A Mifsud, tornato in Europa, vennero inviati questionari per ulteriori precisazioni: il maltese ha ripetuto di non aver mai parlato di sicurezza informatica sulla Campagna presidenziale Usa, o di email di Hillary Clinton. E lo ha ribadito anche nell’ottobre 2017, dopo che Mueller rese pubblica la dichiarazione di colpevolezza del giovane analista; pur celata nel documento, l’identità del professore emerse, raffigurato come una spia russa. Tesi respinta con forza da Mifsud in un’intervista rilasciata a Stefania Maurizi di Repubblica: “Non ho mai fornito a Papadopoulos quell’informazione”. Tanto più che il professore maltese ammette di aver donato del denaro alla Clinton Foundation.
Diventano così note le sue frequentazioni in ambienti russi, ma anche gli stretti legami con politici italiani, come Gianni Pittella, ex Capo Gruppo dei Socialisti e Democratici all’Europarlamento, e gli ex Ministri degli Esteri Franco Frattini e Vincenzo Scotti, rispettivamente relatore e presidente della Link Campus di Roma.
In quel 2017 Joseph Mifsud, già nei radar dell’FBI, ha continuato indisturbato la sua attività di docente in Italia, accanto a Elisabetta Trenta, futura Ministra della Difesa del Governo Lega-M5S; ma anche a Londra, dove ha avuto il tempo di farsi fotografare insieme al Ministro degli Esteri britannico Boris Johnson. E proprio a Londra si estendono in profondità i contatti di Misfud, ad esempio con Claire Smith, ex membro della Joint Intelligence Committee britannica; insieme hanno sviluppato corsi di preparazione per unità di polizia. Fino a presiedere un simposio sulla sicurezza internazionale a Ryadh, nel maggio del 2017, in corrispondenza con la visita del neo-Presidente Donald Trump in Arabia Saudita. Contatti e incarichi che sembrano confermare i giudizi del tedesco Stephan Roh, finanziatore della Link Campus, e avvocato del Professore maltese; nel libro The faking of Russiagate, pubblicato recentemente, Roh descrive Mifsud come un asset dell’Intelligence occidentale.
A tutt’oggi Mifsud è irreperibile, sebbene Roh abbia confermato che il maltese vive sotto falsa identità.
Le manovre intorno a Papadopoulos
Si arriva così allo scorso 7 settembre: una Corte Federale condanna Papadopoulos a 14 giorni di prigione per aver mentito all’FBI. In sostanza Mueller non è riuscito a dimostrare la collusione fra Trump e il Cremlino via Papadopoulos: non ci sono prove che abbia informato la Campagna che i russi avessero le email di Hillary Clinton. Come ha ripetuto l’analista in numerose interviste, avrebbe rivelato il suo dialogo con Mifsud solo al ministro degli esteri greco Panos Kammenos, durante un viaggio privato ad Atene alla fine di maggio 2016 – in corrispondenza con una visita ufficiale di Vladimir Putin nel Paese ellenico.
Secondo l’FBI, lo avrebbe rivelato anche all’ambasciatore presso il Commonwealth Alexander Downer – il quale da Ministro degli esteri australiano, nel 2005, aveva raccolto 25 milioni di dollari per la Clinton Foundation.
Il 10 maggio 2016 Downer aveva invitato Papadopoulos per un drink in un bar di Londra; il giovane analista, a tutt’oggi, ribadisce: non mi ero ubriacato, e non ricordo di avergli mai accennato di email della Clinton.
Nel documento di richiesta della pena formulata da Mueller, Downer non viene nemmeno menzionato.
Dichiarazioni che alimentano ulteriori domande: l’indagine di contro-spionaggio su Papadopoulos è veramente partita per via di quel pettegolezzo riportato da un diplomatico come Downer? O ci sono altri motivi? In quella primavera/estate 2016 l’FBI aveva tentato inutilmente di ottenere un FISA (dispositivo di sorveglianza su potenziali agenti stranieri) su un altro membro della Campagna Trump, Carter Page, ma a vuoto. Per altro l’agente FBI che aprì l’indagine su Papadopolous è Peter Strzok, estromesso dal team dell’Investigatore Speciale per il suo evidente pregiudizio contro Trump. Ma è un’altra la domanda cruciale: perché l’FBI ha atteso sei mesi, addirittura dopo l’inaugurazione di Trump alla Casa Bianca, prima di interrogare Papadopoulos e vederci chiaro sul sospetto che fosse l’anello della collusione fra il Cremlino e Trump? Quando Downer fece quella confidenza all’FBI, i vertici del Partito Democratico, basandosi sul rapporto della società di sicurezza informatica Crowdstrike, avevano pubblicamente accusato Putin di essere dietro all’hackeraggio e la pubblicazione delle email. E l’FBI aveva già per le mani i primi memo del dossier compilato dall’ex spia britannica Christopher Steele; un’operazione finanziata dalla Campagna di Hillary Clinton attraverso la società d’indagine Fusion GPS; in quei primi memo già si spiegava come i russi fossero in possesso di materiale compromettente sulla candidata democratica.
Per l’avvocatessa italiana Simona Mangiante, moglie di George Papadopoulos, ci sarebbe un’altra spiegazione: l’FBI avrebbe chiesto e ottenuto un FISA anche per suo marito. E non necessariamente come agente russo, visto che Papadopoulos aveva coltivato contatti in ambienti israeliani, pubblicando su testate come Haaretz. Da quel palco, nel 2014, aveva auspicato un maggior interesse da parte degli Usa verso i Paesi del bacino mediterraneo orientale, per sottrarli all’influenza di Putin.
Tuttavia è un altro episodio a sollevare sospetti: a cavallo tra il 2016 e il 2017, Papadopoulos è avvicinato da Charles Tawil, uomo d’affari israelo-americano e già informatore della Cia; il quale gli offrì un ingaggio di 10.000 $ mensili per fare lobby a Washington. La consegna avvenne poco prima che il giovane analista si imbarcasse per gli Usa, dove ad attenderlo con le manette, all’aeroporto, c’erano gli agenti dell’FBI. Se fosse stato trovato in possesso di quella somma, Papadopoulos sarebbe stato certamente incriminato di agire per conto di una potenza straniera – rischiando pene severissime. E invece quei soldi li aveva lasciati in Israele, denunciando all’FBI che secondo lui Tawil era un asset di un’Intelligence straniera- per un Paese diverso dalla Russia, come specificato nella richiesta di pena formulata da Mueller.
Secondo la ricostruzione di Simona Mangiante, suo marito sarebbe inciampato in trappole tese da personaggi oscuri. Mangiante, già collaboratrice di Pittella, era stata introdotta a Papadopoulos proprio da Mifsud, per il quale aveva lavorato presso la LCILP: l’istituto dove il professore si occupava della raccolta-fondi, è lo stesso dove Papadopoulos iniziò a lavorare nel febbraio 2016. Aveva accettato quell’incarico dopo aver abbandonato la Campagna presidenziale del repubblicano Ben Carson; chi si occupava di Politica estera di quella Campagna, e quindi della selezione di Papadopoulos, era Duane Clarridge, operativo della Cia coinvolto nello scandalo Iran-Contra, il quale avrebbe segnalato il suo curriculum a Sam Clovis, della Campagna Trump.
Papadopoulos, dopo la condanna, ha lanciato il sospetto di essere vittima di un complotto; Joseph Mifsud, Alexander Downer e Charles Tawil lo avrebbero avvicinato con secondi fini. Ed è quello che è accaduto anche con Stefan Halper, genero di Ray Cline, storico Capo Analista della Cia. Anche la carriera di Halper si snoda fra varie agenzie governative: fu uomo di fiducia di George H. W. Bush, gigante della politica Usa, durante lo scandalo October Surprise del 1980; ed era implicato nell’Iran-Contra. Nel settembre 2016 Halper invitò Papadopoulos a Londra per offrirgli una consulenza; e durante un incontro fece domande sulle email di Hillary Clinton. Il giovane analista negò di essere a conoscenza di particolari relativi all’argomento.
Lo scorso maggio Halper è stato “smascherato” come l’informatore FBI incaricato di sondare Papadopoulos, e indirettamente la Campagna Trump, a poche settimane dalle elezioni presidenziali.
La notizia ha spinto il Presidente degli Stati Uniti Trump a gridare allo scandalo, in quello che ha definito uno “Spygate”. Tuttavia è stato il repubblicano Trey Gowdy, Presidente della House Oversight Committee al Congresso, a smorzare i toni: “L’FBI aveva il dovere di verificare sospetti sull’interferenza dei russi nel nostro processo elettorale”. Affermazioni che arrivano da uno dei più feroci critici di Hillary Clinton e la gestione dell’emailgate da parte dell’FBI.
Di sicuro, però, intorno al giovane analista di politica mediterranea hanno nuotato alcuni dei grossi predatori dell’Intelligence occidentale. In fondo l’analista era un pesce piccolo; il quale si è spacciato, con i vertici della Campagna Trump, come lo stratega in grado di organizzare un incontro con Vladimir Putin prima delle elezioni; sfruttando unicamente i contatti di un professore maltese appena conosciuto.
Alla domanda dei giornalisti sul perché, in quel primo interrogatorio del 27 gennaio 2017, avesse mentito agli agenti FBI, Papadopoulos risponde così: “volevo proteggere il Presidente dal Russiagate; e speravo di ottenere un ruolo nella sua Amministrazione”. Per entrare definitivamente nella grande “palude” di Washington. E invece ora Papadopoulos varcherà la soglia di una prigione.
di Cristiano Arienti
In copertina: George Papadopoulos
Fonti ulteriori e link utili
https://www.umanistranieri.it/2017/05/russiagate-wikileaks-e-la-dimensione-parallela-di-seth-rich-parte-12/ CRONOLOGIA RUSSIAGATE/EMAILGATE
https://www.google.it/search?q=timofeev+papadopoulos&spell=1&sa=X&ved=0ahUKEwiGm-DA8bzdAhWChSwKHaH3BUoQBQglKAA&biw=1517&bih=701
https://medium.com/@Brian_Whit/to-russia-with-love-the-travels-of-joseph-mifsud-f9082ca0ba3b
http://thehill.com/hilltv/rising/404275-what-professor-really-told-fbi-about-trump-russia-and-papadopoulos
https://www.youtube.com/results?search_query=simona+mangiante+interview
https://en.wikipedia.org/wiki/George_Papadopoulos
https://assets.documentcloud.org/documents/4776071/a106dd6d-64e2-43c0-9da1-a90a48ed8daa.pdf (richiesta pena per Papadopoulos)
https://www.sott.net/article/384440-Chris-Blackburn-on-the-contradictions-surrounding-Joseph-Mifsud-his-murky-intelligence-connections-and-the-Trump-dossier
https://vimeo.com/59137878 Alexander Downer e Stefan Halper relatori a una conferenza del 2010