Il ricordo di Tienanmen nell’era dei Gilet Gialli

La mia, nel 1990, era un’estate di adolescenza e spensieratezza; ma serbavo ancora il ricordo della strage dell’anno prima, a Piazza Tienanmen. Soprattutto perché in quelle settimane di luglio e agosto rivedevo spesso le prime pagine sui moti cinesi: per caso, rattoppavano una finestrella del condominio dove abitava il professore di matematica che mi dava lezioni di recupero. Parcheggiavo la bici a ridosso di quel rettangolo in carta ingiallita, e mi stampavo a memoria i titoli in grassetto: “Migliaia di morti a Pechino”, “Repressione a Piazza Tienanmen”, “Ucciso il sogno dei rivoltosi”, “Massacro di studenti”.

Prima di immergermi nell’algebra, restavo abboccato di fronte alle immagini dei corpi insanguinati e delle biciclette schiacciate; dei volti scioccati degli studenti, e quelli arcigni dei poliziotti a presidio delle strade. In rilievo, emergeva l’iconico scatto del fotoreporter Jeff Widener: ecco “il rivoltoso sconosciuto” che quel giorno, con in mano un sacchetto della spesa, parò un’intera colonna di carri armati.

Quell’immagine, a un anno di distanza, elevava alla potenza il drammatico esito delle manifestazioni di Piazza Tienanmen; anche perché in quell’estate del 1990, con il Muro di Berlino crollato, i Paesi dell’est Europa proseguivano l’emancipazione dall’Unione Sovietica e 40 anni di comunismo. Con quelle rivoluzioni pacifiche, grazie alla ragionevolezza di Mosca oltre che alla forza delle proprie ragioni, quei popoli si conquistavano pezzi di democrazia e libertà. Da Berlino Est a Sofia, i cittadini avevano rigettato una classe dominante corrotta e protetta dallo stato di polizia, sognando benessere e migliori opportunità. Che poi erano le richieste degli studenti di Tienanmen, a cui si erano uniti operai, insegnanti e impiegati statali di basso livello: aspiravano a diventare interlocutori di una casta politica rinchiusa in se stessa da 40 anni. Deng Xiao Ping, nel 1989 indiscusso leader, era stato un sodale di Mao Zedong, il grande timoniere, sin dalla nascita della Repubblica Popolare Cinese: il potere era un esercizio esclusivo di un gruppo ristretto sulla testa di oltre un miliardo di persone.

Quei carri armati a Pechino rievocarono gli interventi sovietici a Budapest nel 1956, e Praga nel 1968: rappresentavano, nell’ottica di allora, il passato.

Proprio in quelle settimane il leader sovietico Mikhail Gorbachev, che da anni stava portando avanti politiche di riforma e trasparenza, era in viaggio diplomatico a Pechino, per il ripristino dei rapporti con la Cina. Era metà maggio: a Tienanmen Gorbachev non ci poté andare come da programma; la visita al mausoleo di Mao Zedong era proibita per la presenza, a tre settimane dallo scoppio delle proteste, di centinaia di migliaia di manifestanti.

Quattro giorni dopo quella visita di Stato deturpata in mondovisione, ci fu un disperato ultimatum di Zhao Ziyang, Segretario Generale del Partito Comunista: implorava gli studenti “ad abbandonare la piazza, cessare lo sciopero della fame, e ad agire con calma; perché la porta del dialogo non era chiusa”. Noi, disse Zhao Ziyang, “siamo i vecchi, voi siete il futuro”. Di lì a poco il leader conciliante sarebbe stato epurato, finendo i suoi giorni agli arresti domiciliari. Subito dopo il Primo Ministro Li Peng, a difesa della Rivoluzione Comunista, introdusse la legge marziale, preludio del pugno di ferro che si abbatté a Pechino nella notte fra il 3 e 4 giugno. Il Partito Comunista schiacciò per le strade migliaia di persone; stipulando, di fatto, un nuovo contratto sociale fra dittatura e cittadini: avrete maggiori opportunità di benessere, combatteremo la corruzione, ma il potere e la guida del Paese rimangono a noi.

Questo, in sostanza, il pensiero del nuovo Segretario del Partito Comunista Jiang Zemin, intervistato sulla BBC nel maggio 1990; quando ancora l’Occidente usava i “diritti umani” e la “democrazia” come beni di scambio per concedere alla Cina l’entrata nel WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio.

Quei tempi sono lontani, soprattutto dopo il collasso del neo-liberismo con la Crisi del 2008; eppure Jiang Zemin già allora spiegava: quello che è successo a Tienanmen sono incidenti di percorso, avrete tempo di capirlo; non siamo anti-occidentali o anti-capitalisti, ma non accettiamo ingerenze nella conduzione del nostro Stato.

In Cina non esiste memoria, nei giovani, di quegli eventi, se non come una sommossa contro-rivoluzionaria: le ragioni, e il contesto, sono stati inghiottiti da una censura capillare nel sistema informativo e culturale del Paese; estesa anche nell’era di internet e dei social media, e implacabile su ogni tema controverso.

A 30 anni di distanza, in Occidente, quegli eventi sono politicamente sbiaditi: Tienanmen è ancora nitido come fatto storico e culturale; ma la Cina oggi è un partner economico operante in tutto il mondo, con in mano fette di debiti nazionali, e quote di aziende private in molti Paesi. Come è possibile attualizzare quel massacro, connaturarlo al sistema politico cinese, quando la maggior parte delle nostre merci viene prodotta in Cina? E i proprietari dell’Inter, iconico marchio di uno sport globale, sono parte integrante di quel sistema?

Lo stesso scatto di Widener, dalla prospettiva aerea, si è quasi staccato dalla sua funzione giornalistica; focalizzato sul dualismo “rivoltoso/carri armati”, negli anni ha assunto i connotati di un archetipo: l’uomo comune che si oppone all’autorità tirannica e militaresca.

Esiste un altro scatto, dissotterrato dalla Associated Press nel 2009, che mantiene l’evento ben legato a quella specifica repressione.

Foto di Terril Jones / AP

A ridare una cornice ai fatti di Tienanmen sono il giovane che fugge col passo da podista, e quello che incassa la testa nella spalle, mentre colpi di fucile automatico fulminano l’aria. In mezzo ai due, nella distanza della prospettiva, e già monumento di se stesso, l’uomo pronto a immolarsi sotto i cingoli dei carri armati.

Lo scatto di Terril Jones è un romanzo visivo che non smette di raccontare quelle ore cruciali a Pechino: lo sbaragliamento della protesta con l’esercito e le ruspe; e il terrore di chi, nonostante la carneficina del giorno prima, aveva deciso di sfidare l’ala dura del Partito Comunista.

L’istantanea si presta ancora come chiave di lettura per non dimenticare da dove viene la Cina di oggi; e per tenere presente un risvolto della crisi politico-sociale che piaga le democrazie liberali in Occidente: la gestione delle piazze.

La repressione di piazza nell’era dei Gilet Gialli

A distanza di anni dai fatti di Tienanmen, ha preso corpo un giudizio di “real-politik” sull’ala dura del Partito Comunista cinese: avrebbe sventato un rischioso stallo politico in un Paese pronto a decollare economicamente. Il successo globale di Pechino sarebbe indiretta conseguenza della gestione di quella crisi. Il collasso dell’Unione Sovietica, con la mobilitazione delle piazze, ha invece generato una depredazione delle risorse, e una povertà diffusa opposta alla sfrenata ricchezza delle oligarchie; e ha gettato i semi per l’ascesa di uomini forti, Vladimir Putin in Russia su tutti, e l’abbandono di un percorso democratico così agognato con la caduta del Partito Comunista Sovietico.

Pechino si sarebbe risparmiata il lusso di testare esperimenti politici accostabili alle social-democrazie – come invece si pretendeva in Occidente; sacrificando un movimento studentesco che, fino a pochi giorni prima della repressione, era considerato legittimo perfino dal Primo Ministro Li Peng.

L’involuzione autoritaria, in Russia, è stata determinata da un fattore: il partner principale di Mosca, in quel periodo di transizione, furono gli Stati Uniti, in pieno slancio neo-liberista. In Cina, gli studenti pretendevano riforme, non il rovesciamento dello Stato; di sicuro, la statua della libertà eretta in faccia al mausoleo di Mao Zedong, non favorì la reciproca fiducia fra autorità e manifestanti.

Foto di Terril Jones / AP

Nel post-comunismo dei Paesi dell’Est, invece, il punto di riferimento fu la Comunità Europea, scommettendo su un progetto politico, prima che economico: le richieste di adesione, ad esempio, anticiparono l’invito a quei Paesi a entrare nella Nato.

L’Unione Europea si è compiuta nel 2007; ma una serie di fattori hanno subito generato sfiducia nella nuova entità: fra questi, il crollo del sistema finanziario a livello globale, l’impennata dei debiti nazionali di alcuni Stati membri, e le disfunzioni dell’euro; la concorrenza interna fra Paesi dell’Unione, in termini fiscali, ha creato squilibri nel mondo del lavoro. Alle difficoltà interne, va aggiunto il dumping delle aziende asiatiche, soprattutto cinesi: un processo che qui ha smantellato intere catene manifatturiere; con pesanti conseguenze sull’occupazione.

In questo panorama, negli ultimi anni si è assistito all’ascesa di movimenti sovranisti critici nei confronti delle istituzioni di Bruxelles; l’attuale Presidente della Rai Marcello Foa, sponsorizzato dalla Lega, nel 2017 definì l’Unione Europea “un moloch onnipotente e onnivoro […] nel quadro di una messa in scena di democrazia”.

Additare l’Europa per dare un senso a ogni problema, ha offerto un facile bersaglio ai cittadini particolarmente colpiti dalla crisi; impauriti, poi, da un’emergenza migratoria scatenatasi con le guerre in Siria e in Libia.

Anche così si spiegano i successi elettorali dei partiti della destra nazionalista; o dell’arroccamento della sinistra radicale; o la comparsa di movimenti populisti. Questi fenomeni, però, sono il risultato di un cambiamento lungo un periodo di almeno 7-8 anni; e il disagio espresso in cabina elettorale, in realtà, si era manifestato prima nelle piazze. Già nel 2011, in protesta contro l’ingiustizia sociale e l’austerità, dalla Spagna all’Italia alla Grecia, furono centinaia di migliaia le persone che si riversarono nelle grandi città.

Un fenomeno speculare si ebbe negli Stati Uniti, con il movimento Occupy Wall Street: una piattaforma politica spontanea, impegnata a trovare soluzioni ai mali di una democrazia troppo dipendente dalla finanza. Per ironia della sorte, in 8.000 furono arrestati durante le proteste di piazza, che da New York a San Francisco durarono molte settimane; non uno dei banchieri coinvolti negli schemi fraudolenti di compravendita dei sub-prime era stato toccato penalmente.

Attirarono critiche le modalità con cui la polizia di New York sbaraccò l’accampamento a Zuccotti Park, la piazzetta di Manhattan dove il movimento Occupy si stava costruendo una visibilità: il raid in piena notte, le ruspe sulla tendopoli, i maltrattamenti agli attivisti che opponevano resistenza passiva; e il conseguente divieto di assembramento del sindaco Michael Bloomberg, nonostante un’ingiunzione favorevole di un tribunale: tutto questo, sommato a simili operazioni nel Paese, sollevò questioni sul diritto effettivo, negli Stati Uniti, di esprimere le proprie opinioni.

In Egitto, pochi mesi prima, la forza della piazza, con milioni di manifestanti in tutto il Paese, aveva abbattuto una dittatura; ma che pericoli ponevano poche centinaia di attivisti assembrati in una piazzetta di New York? Eppure in Occidente, quando la polizia disperde manifestazioni in altre regioni del mondo, si grida allo scandalo.

In Russia, proprio alla fine del 2011, partirono imponenti proteste per contrastare la definitiva presa del potere di Vladimir Putin. Espressione della società civile, prima ancora che dell’opposizione politica, quel movimento venne lentamente represso, con arresti a tappeto, violenze e intimidazioni; per finire con l’assassinio di Boris Nemtsov e il dentro-fuori dalla galera di Andrej Navalny, figure di spicco di quelle proteste.

Negli Stati Uniti Occupy Wall Street venne sparigliato con la forza; ma la sua eredità è stata raccolta nelle università e nel sottobosco culturale del Paese; quel movimento ha fatto nascere una spinta dal basso per le candidature prima di Elizabeth Warren, poi di Bernie Sanders, nemesi delle grandi banche salvate dal collasso del 2008. Le primarie democratiche sono state vinte dalla candidata dell’establishment Hillary Clinton; la Casa Bianca, però, è andata a Donald Trump, un maneggione edonista: nel suo vago programma, prometteva freni all’alta finanza, e un’accelerata sui posti di lavoro.

In Italia, Grecia e Spagna, l’onda lunga delle proteste di piazza, complice anche l’esplosione dei social media, ha imposto sulla scena politica formazioni nuove, come il Movimento 5 Stelle, Syriza, Podemos; le quali hanno raggiunto posizioni di governo. Anche in Gran Bretagna, nel 2011, ci furono proteste di piazza, sfociate però nel puro vandalismo: cinque anni dopo, con un Referendum, i cittadini hanno scelto l’uscita dall’Unione Europea come panacea dei propri mali.

Può sembrare anacronistico paragonare proteste diverse, in epoche e luoghi diversi: Tienanmen, all’apparenza, non ha nulla a che vedere con Occupy Wall Street; le manifestazioni contro l’ingiustizia sociale nelle capitali europee paiono diverse rispetto a quelle in Medio Oriente e Magreb, risucchiate in moti rivoluzionari contro decennali dittature. Tuttavia accostarne la nascita, lo sviluppo e gli esiti, può favorire riflessioni: in particolare, su quanto l’esercizio della propria opinione sia prezioso per definire le politiche, o scegliere i politici, che meglio ci rappresentano; o per denunciare storture del sistema in cui viviamo. La libertà di pacifico assembramento ha permesso la conquista di obiettivi in tanti settori della convivenza sociale e civile, e in molte parti del mondo. Fermo restando che ogni rivoluzione, soprattutto quelle degenerate in violenza, nelle piazze han sempre trovato una rampa di lancio; come è accaduto in Ucraina nel 2013/2014, con l’abbattimento del Presidente in carica, il filo-russo Viktor Yanukovitch.

La gestione delle manifestazioni modella il rapporto fra chi governa e i cittadini. La repressione delle piazze e la persecuzione di leader e attivisti sono un segnale preciso: chi sta al potere non è disposto a concederlo, e nemmeno a metterlo in discussione. Come accadde durante le oceaniche proteste di piazza a Tehran, nel 2009, per sospetti brogli nelle presidenziali. Mir Mousavi, il candidato sconfitto, è ancora agli arresti domiciliari; come l’altro leader delle proteste, Mehdi Karroubi.

Dopo i fatti del G8 di Genova, dove si consumarono gli incidenti di piazza più violenti dagli anni di piombo, molti leader del movimento no-global hanno percorso carriere politiche; perfino i “disobbedienti” Francesco Caruso e Luca Casarini, che fomentarono lo scontro con le forze dell’ordine, e per questo furono pure incriminati (ma definitivamente assolti nel 2012).

Nell’immediatezza dei fatti, la repressione venne fatta passare per una reazione fisiologica a frange che stavano mettendo a ferro e fuoco Genova. Negli anni, appurate in processi, vennero individuate responsabilità specifiche nelle forze dell’ordine: ad esempio la carica “illegittima” di una compagnia di carabinieri sui manifestanti in via Tolemaide; e che fece scoppiare gli scontri in cui venne ucciso Carlo Giuliani. Se per quel fatto specifico i comandanti della Compagnia non vennero processati, le inchieste sui fatti di Genova travolsero molti dirigenti delle forze dell’ordine, con una condanna in appello (poi assolto in cassazione) per il Capo della Polizia Gianni De Gennaro – ma questo non gli impedì di diventare Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, o Presidente di FinMeccanica/Leonardo.

Nessun ufficiale è mai stati indagato in Cina per le violenze sul movimento studentesco: le autorità non hanno mai svelato il numero delle vittime, ostacolando i parenti nella richiesta di giustizia e riabilitazione.

In Europa sarebbe impensabile, o almeno così ci piace credere. Tuttavia il dibattito sulla giustizia, in relazione alla repressione di piazza, è oggi molto acceso in Francia. Negli oltre otto mesi di proteste del movimento dei Gilet Gialli, sono morte accidentalmente due persone durante interventi delle forze dell’ordine: Zieb Redouane, colpita da un lacrimogeno sul suo balcone di casa; e Steve Caniço, caduto in un fiume durante una carica. Sono stati feriti 2.300 manifestanti: un pallottoliere per cui si parla apertamente di brutalità poliziesca. Non pochi hanno subito danni permanenti, come la perdita di un occhio, a causa dei proiettili di gomma sparati ad altezza d’uomo; secondo un calcolo ufficiale, ne sono stati sparati 13.500.

Sulle “violenze illegittime” della polizia, come le ha recentemente definite il Procuratore Generale di Parigi Rémy Heitz, sono stati aperti un centinaio di fascicoli; peraltro, consegnati all’Ispettore Generale della Polizia Nazionale (INPG); sono molte di più, invece, quelle a carico dei Gilet Gialli. Una decina di persone, tra manifestanti ed estranei alle proteste, sono decedute in seguito a incidenti causati da blocchi stradali improvvisati. In 1600, fra le forze dell’ordine, sono rimasti feriti negli scontri. Già al “III atto” dei Gilet Gialli, il 1° dicembre 2018, la protesta si è scatenata in tutta la sua virulenza: a Parigi, l’Arc de Triomphe, il monumento che celebra la Repubblica di Francia, è stato preso d’assalto e vandalizzato; come se a Pechino gli studenti avessero devastato il mausoleo di Mao Zedong. A Puy-en-Velay è stata incendiata la sede della prefettura; il Presidente Emmanuel Macron, in visita lampo, è stato inseguito dai manifestanti mentre la sua auto percorreva le vie della cittadina. A Narbonne è stato dato alle fiamme un casello autostradale, e attaccata una stazione della gendarmeria, la polizia militare francese. La situazione ha convinto il Governo e le forze dell’ordine a gestire le successive proteste di piazza come un fenomeno pre-insurrezionale, come ha spiegato il Colonnello della Gendarmeria Michael DeMeo; organizzando apposite misure di sicurezza per le principali istituzioni del Paese.

Foto di Veronique Viguerie – Getty Image

I Gilet Gialli si erano riuniti in piazza, originariamente, per protestare contro una tassa ecologica sulla benzina; trasformando le loro rivendicazioni in un manifesto politico, con la richiesta di uscita dall’Unione Europea, e di dimissioni del Presidente Emmanuel Macron. L’inquilino dell’Eliseo, che nel primo turono aveva racimolato il 24% con un’affluenza elettorale del 77%, in 18 mesi non è riuscito ad ottenere ulteriore fiducia; alienandosi in modo radicale i cittadini che non lo votano.

Nonostante le violenze consumatesi in questi mesi, oggi i cortei dei Gilet Gialli continuano, pur ridimensionati rispetto alle fiumane dei primi mesi. Alle elezioni europee, due liste legate al movimento hanno racimolato, sommate, lo 0,5%; mentre il partito sovranista a cui aveva aderito un altro leader, ha ottenuto il 3,5% – ma il Front National di Marine Le Pen, una figura di riferimento dei Gilet Gialli, è oggi il primo partito con il 23%.

In Cina nel 2008, a ridosso delle Olimpiadi di Pechino, un gruppo di intellettuali aveva lanciato Charta ’08, un manifesto politico per una riforma democratica. Il suo ideatore, Liu Xiaobo – già attivo a Piazza Tienanmen – fu incarcerato; per la sua lotta, nel 2010, era stato insignito del Premio Nobel per la Pace. Xiaobo è morto di cancro nel 2017, mentre era ancora in stato d’arresto. Pechino ha così ribadito che è irrealizzabile sostenere pubblicamente un manifesto politico; pena, le restrizioni delle proprie libertà civili: come è accaduto ai firmatari di Charta ’08, e ad altri attivisti cinesi per i diritti umani.

Un assioma messo in dubbio a Hong Kong, l’ex colonia britannica tornata a far parte della Cina 22 anni fa, che ancora mantiene un sistema elettorale pluralistico. Nel 2014 Pechino ne architettò uno nuovo a favore del Partito Comunista centrale; un’ingerenza che smobilitò centinaia di migliaia di manifestanti per vari mesi. I moti vennero repressi, e i giovani leader incarcerati; ma non erano episodici; proprio in queste settimane a Hong Kong sono ripartite enormi manifestazioni, in alcuni casi anche con guerriglia urbana, per chiedere le dimissioni di Carrie Lam, capo dell’esecutivo: aveva proposto una legge per estradare in Cina persone che, sospettate di crimini commessi in territorio cinese, risiedono a Hong Kong; le opposizioni temono che la legge faciliti Pechino nel perseguire reati di natura politica. Wu Qian, portavoce del Ministero della Difesa cinese, ha implicato che le truppe dell’Esercito di Liberazione Popolare dislocate a Hong Kong sono pronte in ogni momento a ristabilire l’ordine.

La minaccia suona lugubre: il timore è che il Governo cinese, pur di riaffermare il proprio potere, riprenda la via della forza bruta. In Occidente è immediato il collegamento con Tienanmen, sebbene non vi siano condanne esplicite.

E’ giusto che in Europa e negli Stati Uniti ci si preoccupi delle repressioni in Cina; tuttavia non si deve abbassare la guardia sulla violenza esercitata dai “nostri” governi. Nel 1990, durante un’estate di adolescenza e spensieratezza, una finestrella di carta ingiallita stampò nella mente di un sedicenne il senso della libertà spezzata, e della giustizia calpestata dai carri armati; i giovani di oggi, scorrendo i social media, si trovano di fronte, da mesi, le teste rotte e gli occhi sanguinanti dei manifestanti francesi.

Come si sono ritrovati sui cellulari i filmati della repressione poliziesca contro i cittadini che, nel 2017, tentavano di votare per l’indipendenza della Catalogna. Un referendum illegale per la Costituzione spagnola, e non approvato dall’Unione Europea. Quel voto, anche secondo lo scrittore Javier Cercas, era una forzatura. Vissuto sin dall’infanzia in Catalogna, Cercas lo considera il tentativo di un gruppo di nazionalisti di impossessarsi del potere. Tre di loro, Carles Puigdemont, Oriol Junqueras e Antoni Comìn, hanno appena vinto un seggio al Parlamento di Strasburgo; ma la Spagna ne ostacola l’ingresso, perché sotto processo a causa del referendum.

Ecco quindi che il trentennale del massacro di Piazza Tienanmen è più attuale che mai; non solo a Pechino o Hong Kong, ma anche qui, nell’Unione Europea: perché le violenze di piazza di questi anni non facciano passare le nostre istituzioni, agli occhi delle giovani generazioni, come simboli di oppressione e ingiustizia. Cancellando così 50 anni di percorso di un continente rinato dalle ceneri della guerra e dell’odio; un insieme di popoli che si è dato un sogno di pace e di solidarietà.

di Cristiano Arienti

SUPPORTA UMANISTRANIERI

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In copertina: Confronto fra Gilet Gialli e polizia presso l’Arc de Triomphe.

Fonti e Link utili:


https://www.hrw.org/news/2019/05/30/china-tiananmen-injustice-fuels-repression-30-years

Terril Jones
https://wilsonquarterly.com/quarterly/summer-2014-1989-and-the-making-of-our-modern-world/tiananmen-square-at-25/

https://www.theguardian.com/world/2014/jun/01/tiananmen-square-25-years-every-person-victim-massacre

https://en.wikipedia.org/wiki/Dialogue_between_students_and_the_government_during_the_1989_Tiananmen_Square_protests

http://www.leparisien.fr/faits-divers/gilets-jaunes-blesses-des-policiers-seront-renvoyes-en-correctionnelle-assure-remy-heitz-30-05-2019-8083233.php

https://www.francetvinfo.fr/economie/transports/prix-des-carburants/gilets-jaunes-climat-insurrectionnel-a-paris_3081477.html

https://www.liberation.fr/checknews/2019/01/30/qui-sont-les-11-morts-du-mouvement-des-gilets-jaunes-mentionnes-par-emmanuel-macron_1706158

http://www.catalannews.com/politics/item/new-eu-chamber-head-under-pressure-to-let-jailed-junqueras-take-up-seat

http://www.davduf.net/alloplacebeauvau-bilan?lang=fr

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