Il sequestro di Julian Assange

“La situazione in cui si trova Julian è pericolosa; quando l’ho visto, sono rimasto sconvolto: ha perso peso, è isolato, lo tengono in un regime punitivo”. E’ la testimonianza del giornalista John Pilger sulle condizioni di Julian Assange, attualmente detenuto nell’ala ospedaliera del carcere di massima sicurezza di Belmarsh, Gran Bretagna. E’ rinchiuso lì dallo scorso aprile, quando la polizia britannica, con il benestare del Governo dell’Ecuador, irruppe nell’Ambasciata del Paese andino trascinandolo fuori. Assange, mentre opponeva resistenza passiva, urlò: “La Gran Bretagna deve resistere a questo tentativo dell’Amministrazione Trump [di estradarmi negli Usa]”.

Assange aveva trovato rifugio nell’Ambasciata ecuadoriana nel 2012, quando la magistratura britannica rigettò il suo appello contro l’estradizione in Svezia.

Nel Paese scandinavo, due anni prima, era stata aperta, chiusa, e riaperta un’indagine preliminare per due accuse di stupro. Il fondatore di Wikileaks voleva evitare di tornare in Svezia (disponibile però a un interrogatorio via rogatoria, avvenuto solo nel 2016): temeva che su di lui pendesse un’incriminazione sigillata spiccata negli Stati Uniti, e che il Governo di Stoccolma lo spedisse a Washington.

All’epoca il marine Bradley Manning (oggi Chelsea), che aveva filtrato i 700.000 documenti del Pentagono pubblicati da Wikileaks dal 2010, si era dichiarato la fonte di Assange; e attendeva in carcere la sentenza – giunta l’anno dopo: una condanna a 35 anni per spionaggio. In quel materiale c’erano le prove di crimini di guerra Usa in Afganistan e Iraq (WarLogs), e delle torture sui detenuti di Guantanamo Bay.

Il timore che Assange fosse già stato incriminato, era corroborato da una comunicazione interna di Stratfor, think tank americano, le cui email erano state pubblicate da Wikileaks nel 2012.

In quelle comunicazioni, fra l’altro, si dubitava anche delle accuse di stupro contro Assange, formulate da due donne svedesi: riguardano rapporti sessuali consenzienti, ma poi consumati senza preservativo. Accuse mai trasformatesi in incriminazione nonostante 8 anni di indagine, chiusa nel 2018 (ma riaperta lo scorso maggio da una delle due donne). Assange ha sempre protestato innocenza; offrendo disponibilità ad appianare ogni questione: ad esempio sottoponendosi al test dell’AIDS, come gli venne chiesto prima delle denunce; o chiedendo il permesso alle autorità svedesi, nel 2010, di lasciare il Paese.

Un permesso subito rimangiato con il mandato d’arresto internazionale spiccato non appena Assange mise piede in Gran Bretagna. Liberato su cauzione, gli venne applicato un braccialetto elettronico per la libertà vigilata.

E’ per questo che Assange si trova a Belmarsh: deve scontare una pena fino al marzo 2020, per aver spaccato quel braccialetto. Una “catena” applicatagli per un atto mai definito stupro nemmeno dalle due donne; le quali denunciarono Julian Assange su pressione delle autorità.

Una ricostruzione controfirmata da Nils Melzer, Inviato Speciale delle Nazioni Unite sulla Tortura.

Melzer ha ammesso: avevo interiormente assimilato la narrativa di un Assange stupratore; quando invece il preservativo (prova del rapporto non protetto), non contiene nemmeno le sue tracce di DNA. E ha aggiunto: Assange si trova in questo limbo per la sua attività di editore. Negare ad Assange la possibilità di difendersi dalle accuse di stupro, e in assenza della garanzia di non estradizione negli Usa – dove vige la pena di morte per i reati di cui è accusato – si è trasformato in persecuzione politica; e il confinamento nell’Ambasciata ecuadoriana per 7 anni, di cui gli ultimi 13 mesi senza possibilità di comunicare all’esterno, ammonta a tortura.

La giustizia britannica sta vagliando la richiesta di estradizione degli Stati Uniti: Assange è stato incriminato di complotto con Manning per l’hackeraggio di un computer del Governo americano (cioè aver suggerito il modo di trovare una password, per altro fallito); e di aver violato l’Espionage Act, ovvero di aver danneggiato gli Usa in tempo di guerra.

Assange rischia, come minimo, decenni di carcere per aver reso pubbliche, ad esempio, le prove di uccisioni indiscriminate di civili; in gioco c’è il diritto stesso di libertà di stampa, come ha sottolineato il Consiglio editoriale del New York Times. Lo stesso quotidiano aveva pubblicato i file ricevuti da Manning via Assange; e come i maggiori organi di stampa americani, aveva poi adottato una drop-box, strumento di raccolta dati simile alla piattaforma di Wikileaks.

Per il rischio di infrangersi contro il diritto di stampa, l’Amministrazione Obama si era limitata a un’indagine su Wikileaks – sebbene la Segretario di Stato Hillary Clinton, in una riunione del 2010, avesse proposto di eliminare Assange.

L’incriminazione sigillata è stata spiccata nel 2017, pochi mesi dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca; Wikileaksè stata designata come organizzazione di Intelligence non governativa ostile.

E’ evidente, come sottolinea Melzer, che la situazione di Assange vada oltre la richiesta di giustizia per un rapporto non protetto non consenziente; o la condanna per aver rotto i protocolli della libertà vigilata.

Stati Uniti, Gran Bretagna, Svezia ed Ecuador hanno risposto all’Inviato Speciale delle Nazioni Unite, rigettandone le accuse.

Chi ha sequestrato Assange

Resta il fatto che Julian Assange rischia la pena di morte negli Stati Uniti per aver svelato crimini di una guerra, in Iraq, scatenata sulla base di prove artefatte; e di una guerra, in Afganistan, che dopo 18 anni vede un accordo di pace con quegli stessi Talebani che dovevano essere spazzati in pochi mesi.

John Bolton, promotore di quelle guerre, oggi è il National Security Advisor del Presidente Usa Donald Trump. Dal 2001 al 2005 fu Sottosegretario al Dipartimento di Stato, con l’incarico di supervisionare la non-proliferazione di Armi di Distruzione di Massa; ebbe un ruolo chiave nell’Amministrazione Bush per vendere al mondo l’allucinazione di massa che l’Iraq possedesse testate nucleari e armi chimiche.

Bolton non è stato mai toccato da incriminazioni. Nel 2001, del resto, si prodigò a garantire immunità a soldati e personale fuori dagli Stati Uniti, disconoscendo la Corte Penale Internazionale per Crimini di Guerra.

Nel 2010 John Bolton affermò di essere favorevole alla designazione di Wikileaks come organizzazione terroristica. In un’intervista del 2012, l’anno in cui Assange chiese asilo politico, dichiarò che Bradley (Chelsea) Manning doveva essere giustiziato per tradimento.

Oggi Chelsea Manning, perdonata nel 2017 da Obama, è in carcere; colpevole di rifiutarsi di testimoniare nell’indagine su Wikileaks. Il rifiuto è motivato dall’opposizione morale a un “processo celato al pubblico” contro Assange.

Il “sequestro” di Julian Assange è stato perseguito da persone come John Bolton, le quali hanno sulla coscienza centinaia di migliaia di innocenti morti durante l’occupazione Usa dell’Iraq e dell’Afganistan. Il fondatore di Wikileaks, nelle parole del giornalista Robert Fisk, ha contribuito a strappare il velo di omertà in Occidente sui crimini di guerra commessi dai “nostri” governi in una campagna militare, quella in Iraq, unilaterale; e contro la quale si era levata un’intera generazione di pacifisti.

John Bolton ricopre un ruolo chiave per la pace nel mondo, mentre Assange sta marcendo in un carcere di massima sicurezza.

Perché la presa di posizione dell’Alto Commissariato ONU sulle torture non ha generato ondate di indignazione? Un editore potrebbe essere messo a morte dal Paese di cui ha svelato orrori che hanno infestato il nostro immaginario per anni: perché solo in pochi esprimono solidarietà al fondatore di Wikileaks? Una lotta, per Assange, minata dall’attivismo dei supporter di Donald Trump; e non facilitata nemmeno dalla strategia del suo team legale: non lasciano trapelare messaggi diretti di Julian. Eppure Assange avrebbe molto da dire: ha risposto a vari sostenitori che gli hanno scritto missive indirizzate a Belmarsh.

La realtà è che l’opinione pubblica, in larga parte, non solo è indifferente alla sorte di Assange: è persuasa che se si trovi in prigione meritatamente. Anni di articoli, approfondimenti, e perfino documentari, hanno creato un’icona narcisista, manipolativa, misogina; sulla base, spesso, di informazioni distorte, decontestualizzate o addirittura false.

Un distacco incattivito dalla convinzione che Wikileaks sia un asset del Governo russo: in questi anni avrebbe focalizzato la propria attività contro gli Stati Uniti. Una condanna politica incancellabile con il Russiagate: secondo una narrativa gonfiatasi negli ultimi anni, le email della campagna di Hillary Clinton, pubblicate da Wikileaks prima delle elezioni Presidenziali Usa, provenivano dagli hacker del Cremlino. Assange, quindi, avrebbe favorito la vittoria di Donald Trump – quando invece è stata la riapertura da parte dell’FBI dell’Emailgate ad affondare la candidata democratica.

Eppure la pubblicazione del Rapporto dell’Investigatore Speciale Robert Mueller non ha stabilito come le email siano finite a Wikileaks. Assange ha sempre rigettato la ricostruzione che la fonte fosse la Russia, o che si fosse coordinato con la Campagna Trump. Questo scenario è stato confermato da una Corte federale Usa lo scorso luglio: non esiste certezza sulla provenienza delle email; e Wikileaks aveva il diritto di pubblicarle, in base al 1° emendamento sulla libertà di stampa.

Un diritto all’informazione e alla trasparenza che secondo la filosofia di Assange è fondamentale affinché i cittadini possano scegliere da chi, e come, essere governati. Un principio valido non solo negli Stati Uniti, ma ovunque; infatti Wikileaks ha pubblicato milioni di documenti relativi ai governi di decine di Paesi; focalizzati su aziende implicate nella vendita di armi, in schemi corruttivi, o in sostegno a dittature.

Wikileaks si è proposto quindi come un garante della veridicità delle informazioni ricevute dalle fonti, ma rimuove ogni filtro: nell’ottica di Assange, non è l’editore del New York Times a decidere che cosa sia di interesse pubblico. Anche le comunicazioni private, all’apparenza futili, possono diventare notizia rilevante. Come è avvenuto con i DNCleak, che hanno smascherato il Partito Democratico con la scelta di Hillary Clinton come candidata ben prima delle Primarie.

Un approccio molto attaccato: violerebbe la privacy di chi sta semplicemente comunicando attraverso canali privati. Il principio di “pubblicare tutto”, secondo i critici di Wikileaks, metterebbe a rischio la vita di persone riconoscibili nei documenti; un’accusa mai provata: nel processo contro Chelsea Manning, ad esempio, si è stabilito che nessuno è morto o è rimasto ferito in conseguenza dei file pubblicati da Wikileaks.

L’idea che Julian Assange non sia interessato all’incolumità delle persone non ha fondamento per Mark Davies, giornalista australiano che seguì in prima persona il processo di verifica dei WarLogs: il fondatore di Wikileaks si premurò che nessuno fosse messo in pericolo di vita a causa delle pubblicazioni.

A questo punto, chi non è interessato all’incolumità di una persona, siamo noi: è l’opinione pubblica che ha abbandonato Assange, ormai in pericolo di vita. L’editore è stato sequestrato dalla coscienza collettiva attraverso una campagna di continua denigrazione e disumanizzazione. Questa inazione sta costando la vita a quell’uomo; nelle parole della giornalista investigativa Stefania Maurizi c’è tutto il dramma che si sta consumando nel silenzio generale: “Stanno lentamente uccidendo Julian Assange.”

di Cristiano Arienti

In copertina: Julian Assange ripreso da un compagno di cella nella prigione di Belmarsh, Gran Bretagna, lo scorso maggio.

Come scrivere a Julian Assange

Fonti e Link utili

https://medium.com/@njmelzer/demasking-the-torture-of-julian-assange-b252ffdcb768

https://guerrigliaradio.simplecast.com/episodes/assange-lo-stato-del-diritto-lo-stato-dellinformazione – Intervista alla giornalista Stefania Maurizi

https://www.umanistranieri.it/category/russiagate/

https://classconscious.org/2019/08/27/julians-voice-emerges-his-letters-from-belmarsh-prison/q

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