Il racconto di un carcerato iraniano – parte 2/3

Il pick up con dentro Sami in stato di fermo è entrato nel cortile della stazione di polizia verso le 17:30. Il cielo invernale era azzurro, nitido, e dallo spiazzo si riuscivano a vedere i monti Alborz, schiene immobili e innevate.

Il viaggio, come lui stesso mi ha raccontato, è stato penoso: il suo abbattimento specchiato sul volto di altri arrestati durante le proteste in Azadi street. La tristezza era maggiore perchè era San Valentino: si chiedeva cosa stesse pensando la sua fidanzata, sicuramente già in apprensione. Di certo lo stava chiamando sul telefono cellulare sequestrato dagli agenti di polizia. Seduto in mezzo agli altri, si guardava le ecchimosi sulle braccia: le conseguenze delle botte stavano venendo a galla, bolle di dolore che gonfiavano il corpo colpito. Attraverso la gabbia montata sul pianale del pick up osservava Tehran: la capitale, pur nella sua forma di traffico e caos, gli appariva già lontana; e acuta era la sensazione che il suo viaggio fosse appena agli inizi.

“Siamo arrivati nel cortile del commissariato di polizia proprio durante un pestaggio; agenti senza nome o codice di riconoscimento si accanivano su persone inermi e spaventate. A chi protestava veniva ordinato di stare zitto, di prenderle in silenzio.”

La tonnara, tra tonfi, grida soffocate, il suono dolente di ossa e calotte colpite dal duro, è andata avanti per un minuto, forse di più. Chi menava doveva abbassarsi per colpire i prigionieri, raggomitolati per terra. Solo quando è tornata la calma, e dopo aver fatto entrare nell’edificio quel gruppo di persone, Sami e gli altri fermati in Azadi street sono stati invitati a scendere dal pick up. E’ l’angelo custode di Sami, colui che gli ha “sequestrato” la macchina fotografica senza metterla a verbale, a occuparsi un’ultima volta di loro, prima di congedarsi.

“Un agente della stazione di polizia è arrivato con una bottiglia d’acqua, lui ne ha assaggiato il contenuto, come temendo un possibile avvelenamento dei “suoi” prigionieri. Non potrò mai dimenticare quello che ha fatto per me. Lui è la prova che nelle istituzioni c’è tanta brava gente, non solo i fanatici.”

Dopo essersi brevemente dissetati, a Sami e gli altri è stato ordinato di disporsi in riga; erano sei in tutto.

“Un giovane uomo con la giacca di pelle nera è venuto verso di noi, e da come gli altri agenti si comportavano in sua presenza, doveva avere un grado parecchio alto. A lui è toccato condurre il primo, blando, interrogatorio all’interno del complesso del commissariato. Ci ha chiesto semplicemente: ‘perchè eravate in strada? Stavate prendendo parte alla manifestazione?’ Un uomo ha subito ammesso di aver protestato contro Ahmadinejad, secondo lui il vero colpevole per lo stato disgraziato della nostra economia. Con altrettanta schiettezza affermava che però non ce l’aveva con Khamenei, la guida suprema, ma solo contro il presidente. Tutti, prigionieri e agenti, ci siamo voltati verso di lui: da come era vestito e dal tono sobrio ma deciso, si capiva che apparteneva alla classe operaia. Il giovane agente con la giacca in pelle nera gli si è fatto sotto. ‘Come scusa?’ Quello gli ripete le stesse cose. L’agente lo ha rimproverato: ‘Davanti al giudice non dovrai mai ammettere una cosa del genere! Altrimenti sei fottuto’. Così gli ha detto. Io, sinceramente, non sapevo cosa pensare”

Gli ho chiesto perchè la polizia tenesse questo atteggiamento ambiguo.

“Con ogni probabilità, quell’agente proveniva anch’egli dalle classi più povere, e doveva essersi identificato con quell’uomo che si stava consegnando per molti anni, senza averne chiara coscienza, alle prigioni iraniane. Infatti l’avrebbero rilasciato presto. Erano gli attivisti veri che i poliziotti cercavano, i citizen journalists, gente impegnata in rete e nella società. Questa è l’idea che mi ero fatto io; in seguito a Evin, nel carcere, ne avrei avuto conferma. Ed è per questo che nella stazione di polizia, in quelle prime ore, avevo davvero terrore che potessero risalire al materiale che negli anni avevo postato in rete, un atto che in una vera democrazia è normalissimo. Ma soprattutto avevo paura perchè ero in mano a gente imprevedibile, persone il cui scopo, o se vuoi il “dovere”, era di intimidirci, annichilirci.”

Le “pressioni” psicologiche, infatti, sono iniziate da subito.

“Ci hanno portato davanti a un tavolo dove sedeva un poliziotto. Al primo di noi ha ordinato di prendere posto, ma la sedia non c’era! E’ così che abbiamo dovuto compilare i primi moduli e fornire di nuovo le nostre generalità: costretti per terra, come bambini in castigo. Dovevamo rispondere a un uomo che ci guardava dall’alto verso il basso, e ci faceva sentire inferiori, come delle merde.”

Gli schiaffi sono volati dopo.

“Finito di compilare i moduli, e quanti ancora ne avrei dovuti compilare, noi 6 siamo stati presi in consegna da un uomo del “ministero dell’informazione”. Ci ha condotti nei sotterranei della palazzina, e precisamente nel garage. La luce fioca delle lampadine non illuminava nemmeno tutti gli angoli di cemento. In riga contro il muro, siamo stati investiti da un fuoco di domande urlate: ‘Perchè avete attaccato le forze dell’ordine? Siete fra quelli che hanno bruciato la stazione di polizia? Fate parte di organizzazioni sobillate da forze straniere?’

Eravamo spaventati; le prime risposte sono state accolte dagli schiaffi: ‘Dì la verità!”, ripeteva quell’agente. Voleva la ‘sua’ verità. E voleva intimidirci. E’ chiaro che se avessimo dovuto rispondere di quelle accuse in un tribunale, la cosa si faceva pesantissima. Quando è toccato il mio turno, l’agente ha messo in dubbio perfino il mio nome: ‘Che cazzo di nome è? E’ un nome straniero? Dì la verità, come ti chiami?’ Io non ho potuto fare a meno di sorridere, e chiedergli come facesse a non sapere che il mio era un vero nome persiano.

Il beffardo sorriso che non è riuscito a contenere nemmeno in quel momento.

“Mi ha colpito al volto, secco, forte. Si è calmato solo quado gli ho mostrato il documento. E allora si è fatto lui una risata: ‘Che cazzo di nome…’

“Poi è andato avanti con quelle accuse pazzesche. Le rigettavo con forza, e però lui scuoteva la testa e scriveva il suo verbale: ‘aggressione a pubblico ufficiale e resistenza alle forze dell’ordine.”

Accuse meno pesanti rispetto a quelle adombrate all’inizio dell’interrogatorio, ma non meno pericolose, perchè il giudice poteva convalidare l’arresto.

“L’interrogatorio era praticamente finito, quando in garage giunge una pattuglia motorizzata. Guardie della rivoluzione tornate dai pestaggi per le strade. Armadi alti almeno 1,85. Uno, sfilatosi il casco, presentava una brutta ferita alla fronte; un sasso, probabilmente scagliato da una fionda. Il gruppo ha cominciato a puntarci, venivano spediti verso di noi. Per istinto ho subito allungato le mani per coprirmi testa e genitali. E’ stato l’agente del ministero dell’informazione, lo stesso che mi aveva colpito al volto, a evitare il peggio. Quelli avevano le mani già alte per gli schiaffi, e lui li ha bloccati putandogli l’indice contro.

‘Questi sono miei, al massimo li pesto io. Voi non li toccate’.

“Finito l’interrogatorio mi hanno condotto in un corridoio adiacente al garage. C’erano gli spogliatoi, i bagni e le docce, spazi di solito a disposizione di chi lavora nel commissariato. Mi hanno ordinato di entrare in una delle quattro stanze adibite a celle, ma quando sono giunto di fronte alla porta, mi sono reso conto che lì venivano rinchiuse le femmine. Era piena di giovani donne: mi guardavano con occhi già stanchi, quasi tutte ammutolite, qualcuna singhiozzava. Rimango interdetto, non so che fare.

‘Ah, non sei una checca?’ mi dice un agente, ‘Beh, allora hai perso la tua occasione di stare in mezzo a un sacco di donne!’

“Tra le risate di scherno mi ordinano di fare qualche metro più avanti. Varco così la soglia delle docce; quella sarebbe stata la mia prima cella. Era metà febbraio, a Tehran fa freddo in quel periodo dell’anno, e di notte la temperatura si abbassa drasticamente. Eravamo senza riscaldamento, senza nemmeno un cencio per sdraiarci sulle piastrelle nude. La cella era così strapiena che per dormire dovevamo stenderci per terra a turno.”

Sami mi ha raccontato che c’era gente di tutti i tipi: dal ragazzino di 14 anni che ancora non ha capito in che girone è finito, fino al settantenne con l’espressione stralunata, che si chiede ancora perchè è rinchiuso nelle docce di un commissariato.

“In cella abbiamo parlato poco quella prima notte; si sfogava soprattutto chi in Azadi street ci stava passando davvero per caso. Molti, alla vista dei Basiji, non erano fuggiti proprio perchè non erano lì a protestare; ma erano stati prelevati e portati via in qualità di facili prede, esempi per i manifestanti veri che non si disperdevano.”

Prima che calasse la notte, alcuni agenti hanno portato anche del cibo. Almeno Sami e tutti gli altri hanno dormicchiato con qualcosa in pancia.

Un sonno comatoso. Il risveglio nell’incubo.

La mattina dopo i prigionieri sono stati sottoposti ai riti carcerari: impronte digitali e foto segnaletiche, per altro non a tutti perchè la batteria della macchinetta era scarica e non si trovava il ricaricatore. Ancora dentro i corridoi del commissariato, sono stati ammanettati a coppie con una cinghietta di plastica. Nel cortile li attendevano dei bus. Le tendine dei finestrini erano tirate, di modo da impedire, durante l’attraversamento della città, il contatto visivo tra concittadini: tra gli oppressi in strada e gli arrestati sul bus.

Sami mi spiega che a controllarli c’erano degli uomini armati e con indosso passamontagna. Si trattavano certamente di stranieri, visto che non capivano il farsi, la lingua parlata in Iran. Secondo lui erano membri di Hezbollah, il partito di dio, fondamentalisti islamici sostenuti economicamente e militarmente dal regime iraniano. Sul bus c’era un televisorino: trasmetteva un discorso di Alì Larjani, presidente del parlamento,  il quale accusava Mousavi e Kharroubi di aver organizzato le proteste di piazza. Una assurdità, mi ha detto Sami, visto che i capi dell’opposizione avrebbero orchestrato le manifestazioni durante gli arresti domiciliari. Nel servizio giornalistico, poi, venivano usate immagini di repertorio, scene delle manifestazioni del 2010, numericamente inferiori, e di molto, rispetto a quelle del 2011.

“Il conduttore del telegiornale spiegava poi come ormai fosse tutto sotto controllo, e le piazze di Tehran, e tutte le città del Paese, ritornate alla normalità. Quel servizio giornalistico serviva ad abbattere ancor di più il nostro morale; il messaggio era: vi conviene collaborare, perchè è tutto finito. In realtà essermi accorto che il servizio giornalistico era un “fake” mi deprimeva ancor di più: mi rendevo conto che era in atto un programma di falsificazione gigantesco e ben oliato. Significava che noi potevamo protestare e ribellarci quanto volevamo, ma loro non avrebbero mai permesso il cambiamento, non avrebbero mai ceduto il loro potere. Guardavo le tendine come se non esistessero, e mi immaginavo le strade apparentemente tornate alla routine. E invece i miei genitori erano già morsi dall’ansia e dalla paura che mi fosse successo qualcosa di grave visto che no ero rincasato. Ripensavo alla moltitudine di gente in Azadi street, pronta a fare una rivoluzione: era già tutto un miraggio, un sogno lontano. Ed Evin era ormai prossimo. Infatti, pur non riuscendo a vedere il paesaggio esterno, dentro al bus percepivamo il senso di marcia in salita. Chi conosce bene Tehran comprendeva quale tragitto stessimo percorrendo. E in fondo ero sollevato di finire a Evin: significava restare in mano ad agenti penitenziari, e quindi nella legalità; non saremmo finiti in mano ai Basiji, e ‘occulatati’ in qualche cantina chissà dove.”

Solo quando è entrato nella vastissima area recintata del carcere di Evin, Sami si rende conto della portata della repressione in atto: una stuoia umana ricopriva chilometri quadrati di terreno antistante all’edificio di ingresso. Migliaia di persone sedevano sull’erba, in attesa di trovarsi di fronte a una corte.

Un soggiorno a Evin

Parte 3/3

di Cristiano Arienti

In copertina: Mir-Hossein Mousavi – Siamo innumerevoli

 

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