Crisi greca: la bancarotta di un intero sistema

Questi sono giorni decisivi per salvare la Grecia dalla bancarotta, ed evitare che deragli dalla Zona euro, e chissà forse anche dall’Unione europea. Un futuro imprevedibile, finanziario e politico, non solo per il Paese ellenico ma per un intero continente: si profilerebbe la possibilità di un nuovo terremoto economico, e il fallimento del progetto nato dalle ceneri della II Guerra Mondiale.

L’attuale crisi di Atene è l’apoteosi di un sistema corrotto, a partire dalle scelte scellerate della vecchia classe politica: pur di entrare nell’euro, vennero truccati i conti; furono messi a bilancio i potenziali guadagni di prodotti derivati, rivelatisi poi spazzatura. Negli anni pre-crisi 2007-08 lo sperpero di denaro pubblico, compresi i fondi europei, è stato costante e incosciente; ma è l’intera società, con un sistema fiscale fragile e un’evasione di massa, e un impiego statale altissimo, ad aver calpestato i parametri imposti dall’adesione all’euro. Insomma, la politica finanziaria della Grecia si è rivelata inconciliabile con la gestione oculata di un patrimonio.

Queste considerazioni, tuttavia, non cancellano la sofferenza reale di un popolo che, in una manata di anni, è passato da uno stato di relativo benessere a una condizione di impoverimento e perdita di prospettive dignitose. I lamenti della gente comune, purtroppo, rimangono echi di sottofondo nelle sale di Bruxelles, dove si incontrano i rappresentanti di Atene opposti a una rosa di partner: l’Euro-Gruppo, la Banca Centrale Europea (Bce), il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e i Creditori privati. In quelle riunioni risuonano i duri numeri da far quadrare con le esigenze di ogni parte in causa, tra rate miliardarie e prestiti da concedere; e aleggia la consapevolezza che la Grecia, tecnicamente, è già uno Stato fallito: la perdita per le casse di Nazioni e istituzioni pubbliche e private sarebbe secca e ingente; al di là del dramma di 11 milioni di greci.

Da qui al 2050 circa Atene dovrebbe risarcire 330 miliardi, quando in questi giorni non riesce a racimolarne un paio per onorare una rata del prestito del Fmi.

Il governo di Tsipras, sostenuto dalla coalizione di sinistra Syriza, chiede tempo e il congelamento delle rate da pagare: vorrebbe aumentare le tasse e imporre patrimoniali, oltre che inaugurare una nuova agenda per il contrasto all’evasione; Fmi e Creditori hanno bocciato il piano, perchè strangolerebbe l’economia; come se non fosse già in una fase asfittica. Dal 2010, anno di inaugurazione dell’austerity, l’economia greca è in caduta libera; nonostante la Troika (Fmi, Eurogruppo, Bce) avesse prospettato crescita nel giro di pochi anni.

Fmi e Creditori vorrebbero imporre alla Grecia un taglio delle pensioni, oltre all’innalzamento dell’età pensionabile. Una manovra che indebolirebbe ancor di più buona parte delle famiglie elleniche, già provate dal pesante taglio degli statali.

Come ha sottolineato Paul Krugman sul Nyt, Creditori e Fmi si stanno comportando da scolari delle superiori: seguono i loro manuali di economia, ma ignorano che da anni sperimentano sulla pelle di milioni di persone.

E in questo quadro il Governo Tsipras, vincitore delle scorse elezioni di febbraio, è diventato un ostacolo: rigetta la politica dell’austerity, e in fondo vorrebbe una ristrutturazione di un debito insormontabile. A questo progetto si oppongono Paesi come l’Irlanda, il Portogallo e la Spagna, che in questi anni si sono impegnati in riforme durissime pur di rimettere in sesto i conti pubblici, colpiti dalla crisi 2007-08 e dalla crisi dei debiti sovrani nel 2011.

L’ostilità della Troika e del mondo finanziario nei confronti di Syriza, poi, si è manifestata immediatamente; hanno tolto dal mercato i titoli di stato di Atene, come se fosse fallita, ma senza dichiararla tale: di fatto i greci sono dipendenti dai soldi del Fmi, con le casse della Banca Centrale ellenica vuote, e il ritiro di denaro contante in massa agli sportelli.

Un’ostilità che oggi si concretizza con riunioni parallele tra Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, e Antonis Samaras, primo ministro greco dal giugno 2012 al febbraio 2015, l’uomo che ha imposto ai suoi connazionali le ricette della Troika.

Quello stesso piano che il suo precedessore, George Papandreu, aveva messo in discussione programmando un referendum affinché i greci si esprimessero sul loro futuro.

Papandreu venne affossato da partner europei come Germania e Francia, e fu costretto alle dimissioni, si dice anche sotto ricatto; Parigi possedeva la lista Falciani di grandi evasori europei con conti in Svizzera: la famiglia Papandreu deteneva un tesoretto di mezzo miliardo di euro nelle casse della banca Hsbc.

Tra le manovre del piano proposto da Yannis Varoufakis, Ministro dell’economia greco, vi sarebbe anche il rientro scudato dei capitali fuggiti all’estero; qualora fosse un’operazione praticabile, forse rientrerebbero anche i capitali evasi al fisco ben prima dell’inizio della crisi.

Mentre nulla si potrebbe fare per i capitali depositati in Lussemburgo, con un’imposta fiscale dell’1%, da parte di 9 multinazionali con base in Grecia. Un fatto emerso lo scorso autunno con lo scoppio dello scandalo LuxLeaks: ovvero la pubblicazione di documenti che attestano come il Lussemburgo si sia offerto come paradiso fiscale per oltre 300 multinazionali con sede nell’Unione europea; uno schema garantito per due decenni proprio da Juncker, il suo ex Presidente.

Oggi il leader politico dell’Unione europea, un uomo che ha sottratto decine di miliardi di euro di imponibile dalle casse dei singoli stati europei, compresi Grecia o Italia, detta l’agenda politica che segnerà il futuro dei Greci, e forse combutta per il cambio di un governo democraticamente eletto.

Un altro grande attore dei colloqui è Mario Draghi, attuale Presidente della Bce: dal 2002 al 2005 fu membro del board di Goldman Sachs, che aiutò la Grecia a truccare i conti per entrare nell’euro, e ottenere prestiti oltre la reale capacità di ripagarli; Draghi si è sempre giustificato asserendo di essere entrato nella banca d’investimento dopo le operazioni finanziarie incriminate. Rimane il dubbio che fosse realmente all’oscuro di quelle pratiche, o se le abbia tollerate in casi simili a quello greco.

E Germania e Francia, che hanno imposto le dimissioni a Papandreu e la politica dell’austerity, hanno beneficiato della sventatezza di Atene, in particolare riguardo a commesse miliardarie di armamenti come sottomarini. Le spese del Ministero della Difesa della Grecia sono state la primaria fonte di dissesto delle casse elleniche; “per acquistare armi, nelle parole dell’ex vice-premier Theodore Pangalos, di cui non abbiamo nemmeno bisogno.”

Come ha ammesso l’ex vice-ministro della Difesa Antonis Kantas, alla base dell’acquisto di così tanti armamenti c’era un sistema di corruzione che di fatto arricchiva le industrie tedesche e francesi, pochi rappresentanti delle Istituzioni greche, e impoveriva il Paese.

Quindi l’attuale crisi ellenica è l’apoteosi di un sistema corrotto generale, ma non riguarda solo Atene e i Greci: coinvolge le maggiori istituzioni internazionali pubbliche e private, come rappresentanti della stessa Unione Europea e della Bce, e i maggiori Istituti di investimento mondiali; e tocca perfino la politica estera, in campo economico, di Stati sovrani che si considerano virtuosi.

In questi giorni si cerca di “salvare” la Grecia dalle ambizioni di un governo che sta difendendo la propria gente dall’inedia e dalla povertà. Implicitamente, si cerca di salvare il progetto dell’Unione europea; forse, per raggiungere davvero questo obiettivo, è giusto riconoscere che la colpa non è solo dei Greci e dei loro errori: sul banco degli imputati vanno messi anche coloro che hanno approfittato, fino alla fine, di un sistema in bancarotta.

Di Cristiano Arienti

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