L’ebola e l’immobilismo della Comunità internazionale

All’inizio di aprile di quest’anno, in Italia, era partita una campagna di disinformazione relativa all’ebola, la malattia infettiva di cui non esiste ancora un vaccino; secondo alcune voci incontrollate, ma riprese da organi di informazione nazionali, in Africa era scoppiata un’epidemia di ebola tremenda e “i clandestini” salpati dalle coste africane rischiavano di portare il virus anche in Italia. All’inizio non ho dato troppo peso a questa notizia; poi, verso la metà del mese, in tono allarmato, me ne ha parlato un’amica medico: “Sai, la storia dell’ebola è vera; un’immunologa con cui collaboro mi ha detto che un paio di mesi fa in Africa è scoppiata una brutta epidemia, e il Ministero della salute ha inviato una circolare che allerta la comunità medica a riconoscere eventuali casi e a trattarli seguendo le procedure adeguate. Temo che arrivi qui anche da noi, magari su quei barconi.”

Io sono rimasto abbastanza stupito: “Da quello che so”, le ho detto, “l’ebola è molto infettiva, e ha un periodo di incubazione così breve, (dai 2 ai 20 giorni), e una percentuale di mortalità così alta, che è più facile giunga qui via aeroplano piuttosto che via mare, dalle coste del Maghreb.”

La sera stessa sono andato a controllare direttamente sul sito della OMS (Organizzazione Mondiale  della Sanità – WHO in inglese): elencava tre focolai epidemici in zone abbastanza remote nell’Africa occidentale, e precisamente in tre province della Guinea e della Liberia. I tre focolai, così recitava il rapporto disponibile al pubblico ad aprile, contavano circa 200 malati, ma l’epidemia era circoscritta e tenuta sotto osservazione dal personale della Oms stessa. Ho concluso che la grande diffusione della notizia fosse legata più a una politica anti-immigrazione piuttosto che da un vero pericolo-ebola.

In realtà, monitorando la situazione sugli organi di stampa nelle settimane successive, mi sono reso conto che la situazione andava peggiorando sempre di più; in Italia, dopo la conferma da parte del Ministero della Sanità che il rischio ebola nel nostro Paese era nullo, l’epidemia in Africa occidentale conquistava appena qualche titoletto: ma a scadenza settimanale, giungevano notizie di nuovi infettati in un raggio sempre più ampio. Un articolo della Reuters spiegava che l’Oms stava minimizzando l’epidemia per non diffondere il panico; in realtà un malato aveva soggiornato addirittura nella capitale della Guinea, Conakry, prima di essere rintracciato e isolato.

Già solo questa notizia avrebbe dovuto smuovere montagne per spegnere definitivamente i focolai nell’Africa occidentale. A maggior ragione dopo i primi allarmanti resoconti dei medici e volontari, che si sono trovati ad affrontare un’emergenza inedita, perché il ceppo del virus era molto aggressivo.

Verso la fine di giugno William Fisher, un medico della University of North Carolina, ha condiviso la sua esperienza di volontariato a Gueckedou, Guinea-Conakry, uno dei focolai di ebola. Lavorando in quel villaggio da fine maggio a metà giugno, il medico americano, giorno per giorno, ha raccontato la devastante lotta per tenere circoscritta un’epidemia che chiaramente si stava rivelando molto più pericolosa delle previsioni. Troppe persone ignoravano le indicazioni, o non le capivano, o le disubbidivano, toccando i malati conclamati – l’ebola si trasmette tramite contatto con i fluidi corporei. Gli infettati che giungevano nelle strutture sanitarie predisposte, troppo spesso morivano per la mancanza di cure adeguate: il personale internazionale era troppo limitato per la gravità della situazione, e quello africano era mal equipaggiato: soprattutto mancavano le medicine per placare gli effetti del virus. Alla fine del suo rapporto, nel quale viene descritta con grande sensibilità la sofferenza e la morte solitaria di chi era stato contagiato, Fisher ha avanzato alcune linee guide per ridurre la mortalità dell’ebola: a partire dal trattamento aggressivo della malattia con medicine anti-virali, e aggiornamento costante della terapia, per far fronte allo shock causato da febbre, vomito, diarrea, emorragie interne. Ridurre la mortalità è di importanza fondamentale, ha spiegato, perché abbasserebbe la paura del personale medico e infermieristico quando trattano i malati.

Chi si infetta muore soprattutto perché non riceve le cure adeguate, a causa del terrore che incute la malattia.

Nel suo resoconto Fisher ha parlato anche di frustrazione, perchè nonostante gli sforzi ben coordinati del personale africano, dell’Oms e delle Ong, il virus sembrava trovare sempre nuove vie per propagarsi. Per un focolaio apparentemente contenuto, ne spuntava un altro a decine di chilometri di distanza.

Tra la fine di giugno e l’inizio di luglio, quindi, si faceva sempre più necessario l’intervento massiccio dell’intera Comunità internazionale per fronteggiare una delle più gravi crisi epidemiche negli ultimi decenni. La difficoltà con cui i Paesi investiti dall’ebola gestivano l’emergenza avrebbe dovuto essere la chiamata definitiva all’azione. Il problema più evidente era l’impossibilità di controllare i percorsi transnazionali dei potenziali infettati, vista la liquidità delle frontiere interne di Guinea, Sierra Leone, e Liberia con gli atri Paesi confinanti. Il pericolo, che poi si è puntualmente verificato, era che qualcun altro, dopo il “caso zero” a Conakry, raggiungesse i centri abitati più grandi: diventa più difficile rintracciare l’infetto e chiunque entri in contatto con lui.

In Liberia la presidente Ellen Sirleaf ha ordinato il coprifuoco serale, e nella capitale Monrovia per molti giorni la gente è rimasta tappata in casa terrorizzata dal pericolo-contagio.

Tuttavia, proprio quando doveva diventare la priorità “numero uno” della comunità internazionale, l’ebola è stata lasciata proliferare per alcune lunghissime settimane.

Il mese nero

Nel luglio 2014, infatti, sono deflagrate una dietro l’altra una serie di crisi gravissime: a partire dallo scontro Russia-Occidente, ingigantito dall’abbattimento dell’aereo malese MH17 nell’est dell’Ucraina – tragedia nella tragedia, sono periti alcuni epidemiologi di fama mondiale e massimi esperti di ebola. Come se non bastasse, è riscoppiata la guerra tra Israele e la fazione palestinese Hamas: la Comunità internazionale ha bruciato tantissima energia per fermarla. A ciò si aggiungano le notizie dal Medioriente, e la sanguinaria conquista dell’Isis (Stato del Califfo) di alcune regioni dell’Iraq e della Siria. E come se tutto questo non bastasse, il mondo economico (soprattutto occidentale) è rimasto col fiato sospeso non solo per le sanzioni alla Russia, ma anche per il caso Argentina: una corte degli Stati Uniti ha emesso una sentenza favorevole ai “Fondi avvoltoi” che non avevano partecipato alla ristrutturazione del debito contratto nel 2000 da Buenos Aires, bloccando così il saldo a tutti gli altri debitori. L’Argentina però ha deciso di non rispettare la sentenza e quindi di non ripianare i debiti con i “Fondi avvoltoi”; si è creato un precedente – se si eccettua la piccola Islanda – che se imitato da altri Stati, destabilizzerebbe il già precario equilibrio finanziario mondiale. Un altro fattore di inazione è stato il passaggio di poteri nella Ue dalla vecchia Commissione alla nuova proprio nei mesi estivi. E in fin della fiera, l’attenzione è stata cattivata anche dal Campionato del mondo di calcio in Brasile.

L’estate scorsa si è parlato di tutto tranne che di ebola; o per lo meno, non come avrebbe imposto la gravità della situazione: nelle sedi internazionali, tra i capi di Stato, come primo punto sull’agenda.

Ad agosto già si contavano molti casi di ebola nelle capitali di Guinea, Liberia, Sierra Leone, e anche in Senegal e Nigeria. Il virus si propagava via aeroplano, oltre che sui sentieri della campagna africana. Mentre si sperava in un vaccino che a oggi non ha ancora provato la sua efficacia, il personale medico e sanitario veniva falcidiato.

A metà agosto, chi seguiva l’evolversi della situazione, aveva capito che il punto di rottura era già stato abbondantemente superato. I numeri facevano paura: al giorno 13, gli infettati erano  2147, di cui 1145 decessi; i casi erano decuplicati in tre mesi, e ramificatisi in decine di villaggi e città. Se il tasso di mortalità si era stabilizzato al 55%, il tasso di infezione era già terribile: ogni caso di ebola infettava almeno 3 persone. Alcune statistiche credibili  prospettavano già in quei giorni un futuro da incubo: Anna Ryden di osservamondo.com prevedeva entro Natale decine di migliaia di contagiati in Africa, migliaia di contagiati nel mondo, e tempi lunghi e difficili per spegnere l’epidemia – sempre che si riveli efficace l’azione di contenimento del virus.

A fronte di analisi agostane così devastanti, un mese e mezzo dopo, a fine settembre, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms / Who) denunciava senza misure i cosiddetti Paesi leader del pianeta: “La reazione della Comunità internazionale per contrastare l’ebola è fallita miseramente. La malattia si sta propagando nell’indifferenza generale.”

Dall’inizio di ottobre sono comparsi i “casi zero” negli Stati Uniti e in Spagna, cioè persone contagiate senza aver soggiornato nei “Paesi focolaio”.

Da qualche giorno operano in Liberia circa 3000 soldati americani; il Presidente Obama già a metà settembre aveva preso atto che se la situazione va fuori controllo nell’Africa Occidentale, il mondo come lo conosciamo, la globalizzazione e la circolazione relativamente libera delle persone, rischia di svanire. I soldati servono a gestire la fase logistica in cui opereranno i dottori; ed è proprio il personale sanitario che è estremamente richiesto in Africa occidentale. Chi torna dai Paesi focolaio narra di una situazione insostenibile. La manager Michelle Dynes, del Centro americano di Controllo delle Malattie, è tornata in questi gironi dalla Sierra Leone, e lo afferma senza giri di parole: manca personale e gli equipaggiamenti e i rifornimenti non arrivano. Troppa gente continua a morire, compreso il personale sanitario, ogni giorno costretto a scegliere tra la razionalità e l’umanità: ad esempio, la decisione di prendersi cura di un bimbo di due anni negativo al test, perché la madre, positiva, doveva andare in quarantena. Qualche giorno dopo il bimbo si è ammalto, ed è morto, portandosi con sé chi, nella struttura sanitaria, si era preso cura di lui.

Noi siamo immobili di fronte a eroi che stanno morendo per dar da mangiare un bimbo di due anni.

Che non ci sia più tempo da perdere lo ha ribadito in conferenza stampa (16 ottobre) Isabelle Nutall, del dipartimento “malattie pandemiche” della Oms: è necessario agire con la massima tempestività per battere un’epidemia che oggi ha ucciso 4500 persone su un totale di 9000 infettati, (237 decessi tra il personale medico e sanitario su oltre 400 contagiati). I numeri, sempre secondo la Nutall, raddoppiano ogni quattro settimane: è necessario preparare ed equipaggiare il personale medico e sanitario; si rende indispensabile anche una campagna di sensibilizzazione, e soprattutto mettere in campo ogni energia per rintracciare ogni singolo caso e dargli tutte le assicurazioni di un trattamento adeguato. La Nigeria e il Senegal, proprio grazie a questa premura, per ora si sono salvate dall’epidemia.

La Nutall ha parlato principalmente per l’Africa occidentale, ma sta preparando psicologicamente il resto del mondo ad affrontare la crisi.

Infatti c’è il rischio che si propaghi la psicosi un po’ ovunque, soprattutto negli ospedali, nelle strutture sanitarie e alle frontiere; anche perché nei casi in cui si è verificato il contagio, le procedure non sono state rispettate, oppure si sono dimostrate inadeguate, come è avvenuto per le infermiere infettate negli Usa e in Spagna. Tanto per comprendere quanto sia impreparata la risposta dei Paesi avanzati, al presidente Usa Barack Obama, per sua stessa ammissione, è stato permesso di ringraziare con abbracci e strette di mano le due infermiere in seguito testate positive all’ebola. Il virus si trasmette per fluidi, e non via respiratoria, ma comunque è necessaria ogni precauzione.

Mentre in Europa, negli Stati Uniti e in Asia si tarda ad approntare misure eccezionali alle frontiere e nelle strutture sanitarie, in previsione di eventuali focolai, l’Oms ha stabilito un quartier generale ad Accra, Ghana, per coordinare lo sforzo delle varie agenzie Onu che lavoreranno in una dozzina di Peasi dell’Africa occidentale, in mezzo a qualche centinaio di milioni di persone.

Resta sul tavolo una questione: perché tra aprile e agosto non è scattata la mobilitazione su scala mondiale per spegnere i focolai in Guinea, Sierra Leone e Liberia? Si parla di Stati poveri e arretrati per quanto riguarda le strutture sanitarie, e il personale medico è esiguo – un dottore per decine di migliaia di pazienti. Perché ancora a settembre l’azione della Comunità internazionale era “misera”? L’immobilismo dei cosiddetti Paesi leader per intervenire in un’area dimenticata della Terra non è stato causato dalla mancanza di dati sulla gravità dell’epidemia in corso: ad agosto le previsioni statistiche erano lampanti per me, eppure i nostri Capi di Stato non hanno visto il pericolo immediato, come se volteggiassero in empirei troppo distanti per cogliere emergenze umanitarie di questo tipo. All’opposto, l’interventismo nelle solite aree, soprattutto in difesa di interessi strategici ed economici ben noti, è stato rampante.

Di Cristiano Arienti

In copertina: personale sanitario che gestisce un caso di ebola in Africa.

 

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